lunedì 8 aprile 2013

ADDIO A BIGAS LUNA, IL REGISTA CHE AMAVA L'EROS E LA VITA

Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 7 aprile 2013)

A Bigas Luna piaceva definirsi biofilo, per sottolineare quanto amasse la vita. In particolar modo, ne amava i tre elementi che, a suo dire, sanno descriverne meglio le affascinanti complessità, le contraddizioni e le mille sfumature: spiritualità, sessualità e cibo.
Il popolare regista spagnolo è scomparso ieri mattina a Tarragona, a 67 anni, al termine di una lunga lotta contro il cancro. Per suo espresso desiderio, hanno fatto sapere i familiari, “non avrà luogo alcun funerale, né omaggio pubblico”. Juan José (Josep Joan in catalano) Bigas Luna era nato a Barcellona il 19 marzo 1946 e, assieme al castigliano Pedro Almodovar (al quale lo univa una divertita e complice rivalità), ha incarnato in sé e nei suoi film il desiderio della Spagna di fine anni Settanta – inizio Ottanta di lasciarsi alle spalle il grigiore della dittatura franchista e riscoprire i colori e i mille sapori di una gioia di vivere chiassosa e caleidoscopica, magari torbida ma densissima di slanci vitalistici.
Dopo una serie di corti sperimentali direttamente collegati alla sua attività di designer, si rivela nel 1978 al festival di Cannes con “La chiamavano Bilbao”, cupa incursione quasi underground nelle ossessioni sessuali e nelle pulsioni omicide di un bizzarro maniaco verso una spogliarellista-prostituta, interpretata da Isabel Pisano, prima tra le tante attrici scoperte nel corso della carriera. “Bilbao”, tra l’altro, è realizzato in parallelo con un altro lungometraggio, “Tatuaje”, tratto dall’omonimo romanzo noir di Manuel Vazquez Montalban. Ed entrambi sono seguiti, l’anno dopo, dall’altrettanto disturbante “Caniche”, su due fratelli incestuosi e zoofili. Con questi primi titoli, il regista originario della Catalogna si caratterizza già per quelle atmosfere tra il surreale e il morboso che lo accompagnano per tutta la carriera, al pari di personaggi smarriti quasi sempre inseriti in strutture narrative ideali per evidenziarne il potenziale autodistruttivo e l’intrinseco pessimismo.
Basti pensare ai progressivi spostamenti del desiderio e alle attrazioni fatali di “Lola” (1985), rilettura in chiave di melodramma sadomasochistico della “Lolita” di Stanley Kubrick, con Angela Molina che s’imprime nella memoria per l’interpretazione della protagonista. O alle continue degradazioni di una donna affascinata dal sesso nel programmaticamente scandaloso “Le età di Lulù” (1990), il film che, a partire dal best seller di Almudena Grandes, trasforma Francesca Neri in una diva internazionale. E ancora agli effetti devastanti del potere della gelosia in “Prosciutto prosciutto”, la pellicola del 1992 con la quale Bigas Luna conquista il Leone d’argento alla Mostra di Venezia e, soprattutto, lancia i due interpreti destinati a imporsi come i nomi di punta del nuovo cinema iberico: l’allora diciottenne Penelope Cruz e il bel tenebroso Javier Bardem. Proprio l’attore poi vincitore dell’Oscar come non protagonista nel 2008 (per “Non è un Paese per vecchi” dei fratelli Coen) torna a farsi dirigere da Luna l’anno dopo, nel cinico e divertito “Uova d’oro”, secondo capitolo di quella “trilogia mediterranea” che termina nel 1994 col visionario “La teta y la luna”, bizzarria pseudofelliniana con Mathilda May dedicata al tema della sessualità pregenitale.
Tralasciando il pessimo “Bambola” (1996) con Valeria Marini (passato alla storia unicamente per un’accoglienza più che turbolenta alla Mostra di Venezia), dell’ultimo Bigas Luna vanno ricordati “L’immagine del desiderio” (1997), Volavérunt (2000) e il sensuale mélo “Son de mar” (2001). Con l’ancora inedito in Italia “Yo soy la Juani” del 2006, infine, il regista catalano lancia l’ultima sua musa, Veronica Echegui, caratterizzata da una sensualità selvaggia e da una trascinante energia, com’è stato spesso per le sue attrici.
I sodalizi artistici con Francesca Neri, Stefania Sandrelli, Anna Galiena, Alessandro Gassman, Valeria Marini testimoniano di un rapporto profondo con l’Italia, dove amava lavorare ma anche rilassarsi. E tra i suoi film-culto, non a caso, ne inseriva sempre uno del prediletto Vittorio De Sica, “L’oro di Napoli”, pellicola schiettamente “commerciale” come quasi tutta la sua produzione, all’insegna dell’amore per il sesso, il cibo, la vita.

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