domenica 24 novembre 2013

CYOP&KAF E "IL SEGRETO" DEL CIPPO DI SANT'ANTONIO

Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 24 novembre 2013)

Soltanto chi conosce i Quartieri spagnoli come le proprie tasche e gode della fiducia dei residenti avrebbe potuto restituire con tale naturalezza le quotidianità dei piccoli scugnizzi del rione, raccontandoli letteralmente “dal di dentro” nel documentario “Il segreto”, proiettato in anteprima ieri pomeriggio al Torino Film Festival (tanti applausi in una sala gremita), nell’ambito della sezione competitiva Italiana.Doc 2013.
Non sorprende, dunque, che a firmare la regia del film – il loro esordio dietro una macchina da presa – siano i misteriosi street artists partenopei noti come Cyop&Kaf, che da diversi anni, ormai, arricchiscono le architetture urbane di Napoli, dal centro antico alle periferie de-industrializzate, con centinaia di coloratissimi e spesso inquietanti murales. Non sorprende, perché dal 2009 Cyop&Kaf agiscono soprattutto nel cuore dei Quartieri spagnoli, dove hanno realizzato la cifra record di 223 interventi artistici su muri di tufo, saracinesche arrugginite, bassi, bar, garage, edifici pericolanti o puntellati, raccogliendoli qualche mese fa anche in un libro, “Qs – Quore spinato”, accompagnato da una vera e propria mappa per poterli poi ritrovare e visitare in maniera più agevole, calandosi nel dedalo di vicoli del quartiere.
Negli 89 minuti de “Il segreto” – prodotto da Quore Spinato, Parallelo 41 e Napoli Monitor, da un soggetto di Luca Rossomando e con musiche originali di Enzo Avitabile – Cyop&Kaf raccontano le avventure di un gruppo di ragazzini dei Quartieri spagnoli, di età compresa tra i 10 e i 13-14 anni, i quali, subito dopo la fine delle vacanze natalizie, iniziano a girare per la città, spingendosi anche molto lontano dal loro territorio di riferimento, alla ricerca della maggior quantità possibile di abeti natalizi appena dismessi, per raccoglierli e destinarli al tradizionale falò propiziatorio del “cippo di Sant’Antonio”, che il 17 gennaio chiude il ciclo invernale dei riti caratterizzati dal segno della morte per aprire la fase relativa alla rinascita, culminante poi con le celebrazioni del Carnevale. In molti quartieri di Napoli – sottolineano Cyop&Kaf – la raccolta degli alberi per il falò del giorno di Sant’Antonio è una tradizione, un rito, un gioco avventuroso che i ragazzi di strada si tramandano di generazione in generazione. Per chi li osserva da fuori è spesso soltanto una sequenza di atti di teppismo e schiamazzi fino a tarda ora, che si conclude con un pericoloso incendio troppo vicino ai palazzi. Da parte nostra, volevamo raccontare ciò che accade in molte strade della città nel mese di gennaio, da un punto di vista il più possibile prossimo a quello di una banda di ragazzi, seguendoli nelle loro ricerche, osservando le alleanze e le scaramucce con altre bande, documentandone caratteri, linguaggio e codici di comportamento. Eravamo certi che, in questo modo, sarebbero emerse spontaneamente tutte le domande che ci facciamo da tempo e che è necessario farsi sul rapporto tra i bambini e la città”.
“Il segreto” del titolo è il luogo nel quale gli scugnizzi di ciascun quartiere ammassano la legna raccolta in giro, per proteggerla dalle incursioni dei gruppi provenienti dai rioni vicini. Così, nel documentario, la banda di Checco Lecco accumula abeti di tutte le taglie, ma anche pannelli di compensato e pezzi di cassonetti sfasciati, in un cortile abbandonato, delimitato da quattro mura cadenti e lasciato libero dall’abbattimento di un palazzo danneggiato dal terremoto del 1980. Come si apprende dalle immagini amatoriali di repertorio che, dopo i titoli di coda, chiudono la proiezione, la demolizione dell’edificio risale al 1993, cioè addirittura a vent’anni prima, trascorsi dagli abitanti del quartiere nella vana attesa che quello spazio venisse destinato a qualcosa di utile per la collettività. Così, quando il giorno prima del “cippo” i ragazzini vengono cacciati dai vigili urbani, che vorrebbero impedire loro di appiccare il fuoco su quel pezzo di terra abbandonata, non si può che solidarizzare con le loro lamentele per un campetto di calcio “chiesto da più di 15 anni e mai realizzato”.
Le frenetiche ricerche, le schermaglie e le piccole e grandi tensioni, le odissee notturne tra ostacoli e imprevisti sono catturate da Cyop&Kaf con una macchina da presa estremamente mobile e calata all’altezza degli sguardi dei ragazzini protagonisti, quasi come se l’operatore fosse uno di loro. E la naturalezza con la quale gli scugnizzi continuano a comportarsi proprio come se non fossero ripresi deriva evidentemente dalla fiducia totale nei confronti di chi è dietro l’obiettivo. Il culmine del film, com’è ovvio, arriva nel momento catartico del falò, con i ragazzi che danzano felici tutt’intorno alle fiamme altissime, liberi in quei momenti da qualunque paura o timore nei confronti del presente e del futuro.

RITORNO ALLA MERINI PER ANTONIETTA DE LILLO

Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 22 novembre 2013)

Con il suo nuovo documentario “La pazza della porta accanto”, che domenica apre la sezione “E intanto in Italia” del Torino Film Festival 2013, Antonietta De Lillo prosegue nella ricerca sui nuovi linguaggi e formati di ciò che è diventato oggi il cinema, concretizzando un desiderio coltivato per anni, almeno da quel 1995 che la vide firmare la regia di “Ogni sedia ha il suo rumore”, dedicato alla figura inimitabile di Alda Merini.
Ma se l’omaggio di 18 anni fa a una tra le più importanti poetesse del Novecento alternava frammenti di video-intervista alla performance di Licia Maglietta nello spettacolo teatrale “Delirio amoroso”, per il suo ritorno alla Merini dopo quasi due decenni la regista napoletana ha deciso di recuperare, rielaborare, rimontare e riportare a nuova luce la quasi totalità dei materiali inediti girati durante la conversazione dell’epoca. “Furono due giorni intensissimi – ricorda Antonietta De Lillo – nei quali parlammo davvero di tutto. Ma, poi, nel realizzare “Ogni sedia ha il suo rumore”, montai parte di quel materiale con l’esibizione teatrale di Licia, tagliando inevitabilmente fuori una gran parte dell’intervista. Da allora, ho sempre avuto nel cuore l’idea di recuperare le immagini preziose rimaste nel cassetto, confluite oggi nel nuovo film, che in pratica restituisce integralmente il senso e i contenuti di quello straordinario incontro”.
“La pazza della porta accanto” è prodotto da marechiarofilm – la società fondata dalla De Lillo “con l’intento di favorire l’incontro e lo scambio tra generazioni diverse e tra cinema e rete, andando contro l’usa e getta e recuperando materiali filmici importanti per la nostra memoria” – assieme a Rai Cinema e riprende il titolo di una raccolta di prose che Alda Merini scrisse nel 1955. I filmati della conversazione ripresi dall’archivio Megaris sono intervallati con suggestive riprese di Milano realizzate da Luca Musella tra il centro e i navigli, caricate di ulteriore senso dal commento sonoro di Philippe Sarde (“La vie devant soi”) e, in alcuni casi, girate quasi come se fossero soggettive della poetessa. Durante la chiacchierata, informale e dai toni quasi intimi, la Merini si racconta oscillando tra pubblico e privato, soffermandosi sui periodi e i temi più significativi della propria esistenza: l’infanzia, la sua femminilità, gli amori, l’esperienza della maternità e il rapporto con i figli, naturalmente la follia e i tanti periodi di internamento negli ospedali psichiatrici (“Io ho fatto 27 ricoveri e per 26 volte mi sono innamorata”), fino a una lucida riflessione sul significato e il ruolo della poesia e dell’arte. Dopo la bellissima frase conclusiva (“Ci sono deliri di lettura che portano così in alto e valgono proprio un orgasmo fisico e vanno oltre…”), la chiusura è per la voce di Ascanio Celestini che, sui titoli di coda, canta una struggente “L’amore stupisce”.
Nel film, Antonietta De Lillo ha fatto confluire le recenti esperienze dei film partecipati realizzati in questi anni (“Il pranzo di Natale” e il nuovo “Oggi insieme, domani anche”, del quale saranno mostrate alcune clip sempre a Torino). “Ma stavolta è stato divertente – spiega – lavorare su materiali miei, trattandoli come se fossero filmati di archivio. Ciò mi ha permesso di pormi nei confronti di quelle immagini quasi da spettatrice esterna, per provare a farle parlare in maniera inedita. Per comporre il ritratto complesso di Alda Merini, poi, mi sono aiutata anche con i dettagli significanti del suo volto, degli occhi, delle mani, di un corpo capace di farsi a sua volta elemento narrativo”.
In un momento felice per il cinema italiano del reale, l’approccio di Antonietta De Lillo al documentario resta originale. “Credo nel concetto di “film partecipato” e – sottolinea la regista – proseguirò anche in futuro su questa strada, tra sguardo al futuro e recupero della memoria. E mi sembra che, anche da parte del pubblico italiano, vi sia voglia di un altro tipo di cinema. Però, al tempo stesso, 10 anni dopo “Il resto di niente” per me è anche giunto il momento per un nuovo film di finzione: terminerò presto la sceneggiatura e vorrei girarlo a Napoli nella seconda metà del prossimo anno”.

domenica 17 novembre 2013

DI "RITRATTI ABUSIVI" E NUOVO CINEMA ITALIANO DEL REALE

Di Diego Del Pozzo

Il cinema italiano del reale continua a mietere successi nei principali festival specializzati, con la speranza che non si tratti di una voglia delle giurie di sentirsi alla moda - della serie "real is cool" - ma di un sincero riconoscimento allo sguardo di una generazione di cineasti indipendenti che, proprio attraverso il documentario, pare aver recuperato la capacità di narrare sullo schermo cinematografico le complessità di ciò che ci circonda, in un momento storico nel quale le certezze (anche linguistiche) si fanno sempre più labili.
Così, dopo il successo di "Sacro GRA" di Gianfranco Rosi alla Mostra di Venezia, ieri sera la giuria del Festival di Roma presieduta da James Gray ha deciso di premiare come miglior film "Tir", affascinante mix di finzione e realtà realizzato dal documentarista Alberto Fasulo, che ha coinvolto l'attore Branko Zavrsan, facendogli interpretare (ma, forse, il termine è improprio) un autista di tir in giro per l'Europa per tre mesi, dopo averlo fatto assumere a tempo determinato da una ditta di trasporti italiana.
Un panorama del Parco Saraceno da "Ritratti abusivi"
Sempre a Roma 2013, in un'edizione che ha visto anche Vincenzo Marra tornare a raccontare Napoli dal di dentro col suo "L'amministratore", s'è distinto un altro film indipendente, selezionato in Prospettive Doc Italia e realizzato dal quarantenne filmaker casertano Romano Montesarchio: s'intitola "Ritratti abusivi" ed è il lavoro col quale Montesarchio è ritornato a girare sul litorale domizio, dopo il suo bel documentario del 2008 "La Domitiana". Prodotto da Figli del Bronx assieme a Rai Cinema, col montaggio di Roberto Perpignani in collaborazione con Davide Franco (anche aiuto regia), "Ritratti abusivi" si concentra su un microcosmo umano sconosciuto e straordinariamente interessante, dal punto di vista narrativo e, naturalmente, sociologico: quello che vive la propria quotidianità tra i ruderi sempre più abbandonati del Parco Saraceno, un complesso edilizio abusivo costruito nel Villaggio Coppola di Pinetamare a Castelvolturno negli anni Sessanta e, poi, caduto in totale degrado dopo che gli americani della Nato di stanza in zona decisero di trasferirsi altrove.
Fu proprio allora che i costruttori Coppola decisero di murare porte e finestre dei vari edifici, per impedirne un’occupazione abusiva che, invece, si realizzò a tempo di record e che dura ancora oggi, nel disinteresse delle Istituzioni locali e nazionali. “Da questo punto di vista - mi racconta Montesarchio pochi giorni prima del festival capitolino - il mio film è anche la storia del fallimento di uno Stato che ha permesso la cementificazione selvaggia di decine di chilometri di costa campana e che, in più, ha fatto sì che le architetture geometriche e rigorose di quei luoghi generassero un caos umano fatto di persone che occupano abusivamente un parco a sua volta abusivo”.
Quella di Romano Montesarchio, in una sorta di enclave quasi extraterritoriale, è stata un’autentica full immersion, durata oltre un anno, “proprio per entrare in modo delicato nelle quotidianità di coloro che poi avrei ripreso, per conquistare la loro fiducia e, al tempo stesso, per fargli comprendere bene quali erano i miei intenti. Poi, tra riprese e postproduzione, ho lavorato a questo progetto per un totale di due anni e mezzo. Ho trascorso mesi - aggiunge il regista - a spostarmi tra una casa e l’altra, tra intonaci ammuffiti, finestre improvvisate e arredamenti surreali: elementi di un mondo a parte che, nonostante tutto, esprime una vitalità quasi da paese dei balocchi, con luci sempre accese, le porte delle case sempre aperte come antri, balconi spesso privi di ringhiere e somiglianti a trampolini sospesi sul mare. Insomma, quella del Parco Saraceno è una realtà che reclama di essere vista da dentro, proprio per dare la possibilità di meravigliarsi per l’inverosimile felicità dei suoi abitanti”.
Tra gli elementi più sorprendenti del film, infatti, vi è proprio l’inattesa felicità di tanti residenti in un luogo così degradato. “Ed è un elemento assolutamente naturale - spiega Montesarchio - e non provocato dalla mia presenza: molti di loro sono davvero felici, anche se non godono di servizi essenziali come la corrente elettrica o l’acqua corrente, che da abusivi si sono procurati in modo abusivo. D’altra parte, come spiega bene un vulcanico personaggio soprannominato ‘o ‘mericano, di fronte a loro c’è il mare, a poche centinaia di metri il centro sportivo del Napoli, ognuno vive in famiglie solidissime e, cosa molto importante per chi si trova in stato d’indigenza, non esistendo per lo Stato nessuno di loro paga le tasse”.
"Ritratti abusivi" rende le vite degli abitanti del Parco Saraceno materia narrativa incandescente, arricchita da una visionarietà di sguardo capace di caricare quelle quotidianità ai margini di ulteriore senso puramente cinematografico, senza mai andare a discapito di un'autenticità "bigger than life" proprio perché assolutamente realistica. Se non fosse un documentario, il film di Montesarchio sarebbe un apologo fantascientifico sulle transmutazioni della società occidentale all'epoca di una globalizzazione che continua a rimasticare e vomitare se stessa abbandonando al loro destino intere parti di mondo "abusive" e, dunque, di fatto non esistenti. Guardando "Ritratti abusivi" si piange, si ride, si resta sbigottiti, si prova rabbia, ci s'innamora. Insomma, ci si sente vivi, come sempre dovrebbe essere di fronte alla potenza immaginifica del buon cinema.
Il film si apre e si chiude con un raro filmato pubblicitario anni Sessanta di Villaggio Coppola, reso poi inquietante e quasi orwelliano (a proposito di science fiction...) dal futuro destino di degrado e abbandono dell’area e, dunque, dal concreto "farsi" del documentario. “Di quel filmato - conclude il regista - esiste un’unica copia in pellicola, conservata dall’esercente del locale cinema Bristol. Quando ho deciso di usarlo lui ne è stato felice, perché mi ha detto che così avrei salvato la memoria di quelle immagini che, altrimenti, sarebbe andata perduta. Lo stesso si può dire per l’umanità che vive in questa terra di frontiera sconosciuta ai più, che ho provato a restituire attraverso autentici ritratti di ciascuno, dichiarati fin dal titolo, facendoli parlare direttamente allo spettatore per raccontare le loro verità senza filtri né sovrastrutture. E spero che, dopo il successo veneziano di “Sacro Gra”, il documentario possa conquistare sempre più spazio anche nei cinema, perché sono sicuro che, pure in Italia, esistono tanti spettatori desiderosi di confrontarsi con film capaci di raccontare il reale”.

mercoledì 13 novembre 2013

SUL SET DEL FILM DI MARTONE SU GIACOMO LEOPARDI

Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 12 novembre 2013)

La giornata cupa e piovosa contribuisce a rendere ancora più suggestivo il set napoletano del nuovo film di Mario Martone, “Il giovane favoloso”, che si gira da ieri all’interno dell’ala monumentale dell’università Suor Orsola Benincasa. Nel film dedicato alla parabola esistenziale di Giacomo Leopardi, infatti, sarà proprio la storica cittadella universitaria a trasformarsi in una Napoli ottocentesca quasi horror messa letteralmente in ginocchio dall’epidemia di colera che la colpì nell’ottobre 1836 e che fece più di 20mila morti soltanto nei primi otto mesi, cioè fino a quel 14 giugno 1837 nel quale Leopardi morì nella casa di vico Pero condivisa con l’amico Antonio Ranieri.
Osservare il set del film di Martone, vuol dire fare un viaggio a ritroso nel tempo, per ritrovarsi calati in uno scenario da incubo fatto di cadaveri ammassati su carri trainati da cavalli, incappucciati che gettano i corpi delle vittime del colera nelle fosse comuni, grassi monaci che danno l’estrema unzione agli sventurati, roghi e fiamme purificatrici agli angoli di vicoli lerci e minacciosi. Lo scenario è quello delle Rampe storiche del Suor Orsola Benincasa, dove una figura longilinea ed elegante vestita di nero scende a passo veloce, coprendosi la bocca con un fazzoletto, come a volersi proteggere dal possibile contagio. Nella finzione filmica, la scalinata della cittadella universitaria diventa un vicolo del centro antico, lungo il quale il nobiluomo incrocia per un attimo una figura maschile di più umili origini. Alle spalle dei due uomini, alcuni personaggi incappucciati portano a braccio una serie di cadaveri e li gettano su un carro già ricolmo di corpi privi di vita, fermo nel cortile adiacente. Tutt’intorno è buio, in terra ci sono ovunque cenere e rifiuti, alcune fiamme bruciano alte, alimentate da un impianto a gas che, naturalmente, resta fuori dall’inquadratura.
Le riprese di questa scena sono piuttosto elaborate e occupano buona parte del pomeriggio di ieri, con una macchina da presa che, piazzata in un angolo a metà scalinata, segue in piano sequenza l’incrocio tra i due uomini, mentre un secondo operatore con camera a mano riprende gli incappucciati e i cadaveri sul carro nel cortile. Nel ruolo di Giacomo Leopardi c’è un Elio Germano totalmente immerso nel personaggio e tanto aderente a esso, fisicamente e psicologicamente, da aver fatto dire a Martone, prima dell’inizio delle riprese di settembre a Recanati, che “senza di lui non saremmo nemmeno andati avanti con la stesura della sceneggiatura, perché mi è sempre sembrato perfetto per il ruolo”.
Regista, attore protagonista e il resto della troupe e del cast sono arrivati a Napoli già da sabato, per una serie di sequenze ambientate nel centro storico, davanti agli Incurabili e nei pressi di via Duomo. Ma, da ieri, il grosso delle riprese è ospitato proprio all’interno del Suor Orsola Benincasa, dove la produzione resterà fino a venerdì e dove si girerà anche nello Spogliatoio falegnami e in una palazzina dismessa vicino all’aula magna, diventati due bassi; nella saletta adiacente alla Sala degli Angeli, dove è ricostruita una sagrestia; nell’aula Schulte, dove è allestita la stanza del poeta recanatese e all’interno del cunicolo dell’archivio, trasformato in un cimitero dell’epoca. Nei prossimi giorni, poi, Martone girerà a piazza Plebiscito, a Porta Capuana, nell’ex Lanificio, nella Biblioteca nazionale, all’Istituto italiano per gli Studi filosofici e sulla sommità del Vesuvio, per un totale di tre settimane di riprese partenopee, che concluderanno la lavorazione.
“Il giovane favoloso” è prodotto da Carlo Degli Esposti per Palomar e Rai Cinema. Per le riprese a Napoli, la produzione s’è avvalsa della collaborazione della Film Commission Regione Campania e dell’Amministrazione comunale. Girato anche a Recanati, Firenze e Roma, il film di Martone è interpretato, oltre che da Elio Germano, anche da Michele Riondino (Antonio Ranieri), Massimo Popolizio (il papà, il conte Monaldo Leopardi), Anna Mouglalis (Fanny Targioni Tozzetti), Isabella Ragonese (la sorella Paolina Leopardi), Paolo Graziosi, Edoardo Natoli e Iaia Forte.

lunedì 28 ottobre 2013

mercoledì 23 ottobre 2013

LA STORIA SEGRETA DELLA MARVEL COMICS NARRATA DA SEAN HOWE

Di Diego Del Pozzo
(Mega n.° 195 - Settembre 2013)

Confrontarsi con l’avventurosa e spesso controversa storia della Marvel significa, tra le altre cose, fare un viaggio in oltre settant’anni di storia del capitalismo americano, perché la casa editrice di fumetti di supereroi più famosa al mondo assieme alla DC Comics incarna uno tra i brand più universalmente noti nello scacchiere dell’industria dell’entertainment globale. Non a caso, il 31 agosto 2009, la Walt Disney Company – cioè uno tra i gruppi dominanti al mondo nel settore dell’intrattenimento multimediale – l’ha acquistata per quasi quattro miliardi di dollari, allettata soprattutto dalle potenzialità economiche – con relativo surplus derivante dal merchandising – delle trasposizioni cinematografiche tratte, negli ultimi quindici anni, dai fumetti di personaggi celeberrimi come X-Men, Avengers, Capitan America, Iron Man, Thor, Hulk, Fantastici Quattro, Spider-Man, soltanto alcuni tra gli oltre 8.000 presenti in quel calderone narrativo che risponde al nome di Marvel Universe, tutti potenzialmente pronti per generare film di successo (come, d’altra parte, fa la Warner con i personaggi della sua sussidiaria DC, a partire dai big Batman e Superman).
E proprio il rapporto col cinema è uno tra i più interessanti fili narrativi del bellissimo libro-inchiesta Marvel Comics – Una storia di eroi e supereroi, scritto dal giornalista statunitense Sean Howe e tradotto da poco anche in Italia da Panini Books (452 pagine, 29.90 euro), appena prima che Oltreoceano gli venisse attribuito il prestigioso Eisner Award (l’Oscar dell’industria dei comics) come miglior volume di argomento fumettistico dell’anno. La fascinazione verso il cinema, infatti, accompagna la Marvel quasi per la sua intera storia, dato che già a fine anni Sessanta inizia a guardare con interesse verso Hollywood, alla ricerca di sinergie per realizzare film tratti dai suoi fumetti. Però, fino al 1998 – quando arriva in sala “Blade”, seguito due anni dopo dal primo “X-Men” di Bryan Singer – il rapporto con l’industria cinematografica si caratterizza per flop e cocenti delusioni, progetti opzionati ma mai partiti, diritti ceduti per un tozzo di pane a partner non all’altezza, scritture e riscritture di sceneggiature a dir poco banali, relazioni pericolose con autentici truffatori che si dileguano con le risorse destinate ai film.
A fare da ambasciatore della Marvel a Hollywood, quasi a tempo pieno fin dal 1972, è direttamente Stan Lee, cioè l’uomo che nel 1961 aveva dato il via a quella che passerà alla storia come “Silver Age of Comics”, creando assieme al grande disegnatore Jack Kirby i Fantastici Quattro, Hulk e via via tutti gli altri personaggi marvelliani. Lee, che alla Marvel lavorava dalla fine degli anni Trenta, quando lo zio Martin Goodman fondò la casa editrice col nome Timely, viene destinato dalla proprietà ai rapporti col mondo del cinema e si trasforma così in una sorta di volto pubblico dell’azienda, sempre più lontano dagli aspetti squisitamente editoriali e creativi, nonostante quello “Stan Lee presenta…” che ancora oggi campeggia in apertura di ogni singolo albo Marvel.
Ma nel libro di Sean Howe, proprio Lee non fa una gran figura, raccontato dall’autore dapprima come una sorta di raccomandato dello zio Goodman, che lo assume poco più che teenager e gli consegna a 18 anni le redini dell’azienda, quindi come ambiziosissimo sceneggiatore e direttore editoriale in perenne contrasto con i disegnatori che avanzano (quasi sempre a ragione) diritti legali sulle proprietà di personaggi in realtà creati anche da loro, poi come inconsapevole strumento nelle mani di vertici aziendali più interessati a giochetti di borsa e fusioni societarie che alla creatività. In particolare, Howe analizza con dovizia di particolari, spesso inediti e in alcuni casi persino sconvolgenti, il rapporto lungo tutta una vita tra Stan Lee e Jack Kirby, l’altro creatore del Marvel Universe, al quale però non saranno mai riconosciuti i diritti sui “suoi” personaggi né restituite, tranne che in minima parte, le tavole originali disegnate in decenni di collaborazione.
Ma nel volume trova ampio spazio l’intero scenario dell’editoria fumettistica statunitense, con descrizioni accurate della situazione alla DC Comics (con la quale, da un certo punto in poi, la Marvel inizia a scambiare con regolarità editor, sceneggiatori e disegnatori) e con riferimenti puntuali alla nascita della Image, evento che rivoluzionò il panorama editoriale a stelle e strisce durante gli anni Novanta. I momenti godibili del libro di Howe sono tantissimi: per esempio, i racconti riguardanti il “clan degli strafattoni”, capeggiato negli anni Settanta da Steve Englehart; il bizzarro reclutamento di Scott Lobdell come nuovo sceneggiatore di “X-Men” – all’epoca la testata più venduta d’America – avvenuto al volo, sulla soglia di una porta della redazione, mentre lui si trovava a passare casualmente di lì in quel momento; le lotte di Steve Gerber per non perdere i diritti sul suo adorato personaggio Howard the Duck; le controverse parabole riguardanti la vita e la carriera di autori “indipendenti dentro” come Steve Ditko o Jim Starlin; l’analisi dei veri motivi per cui Roy Thomas preferiva riprendere vecchi personaggi e attualizzarli, piuttosto che crearne di nuovi.
Insomma, grazie alle interviste inedite a oltre 150 persone che, fin dagli anni Trenta, hanno lavorato alla Marvel nelle sue varie incarnazioni, Howe getta nuova luce – non a caso, il titolo originale del libro è Marvel Comics: The Untold Story, cioè la storia inedita – sull’epopea di quella che oggi, come del resto la DC Comics, è riuscita a imporsi come qualcosa di molto più che una semplice casa editrice di fumetti. Howe ne approfondisce peculiarità stilistiche come l’innovativa intuizione in chiave realistica dei “supereroi con superproblemi”, ma soprattutto ne narra e spesso rivela le storie vere, le meschinità e le acerrime rivalità degli uomini che quelle storie hanno realizzato, autori spesso dimenticati e maltrattati, come i tanti che, nel corso dei decenni, si sono visti negare la proprietà delle loro creazioni, da Bill Everett a Chris Claremont, nonostante il loro genio abbia contribuito a rendere la Marvel il colosso dell’intrattenimento globale che è al giorno d’oggi.

sabato 19 ottobre 2013

GRANDE SUCCESSO PER IL CINEMA ITALIANO IN SVEZIA

Grande successo anche quest’anno per il cinema italiano in Svezia, grazie all’Italian Film Festival di Stoccolma, la principale rassegna dedicata alla promozione della cinematografia italiana nei Paesi scandinavi. Diretto dallo storico del cinema Vincenzo Esposito e giunto alla sedicesima edizione, il festival – che si conclude domani sera (domenica 20) presso il cinema Sture, nel centro della capitale svedese – sta facendo segnare il “tutto esaurito” quasi a ogni proiezione, a conferma del notevole interesse che gli appassionati svedesi continuano a nutrire nei confronti del cinema italiano del presente e del passato.
Inaugurato dal nuovo ambasciatore d’Italia in Svezia, Elena Basile, e dal direttore dell’Istituto italiano di cultura, Sergio Scapin, l’Italian Film Festival ospita i due registi Silvio Soldini e Giuliano Montaldo, che hanno presentato al pubblico svedese i loro recenti “Il comandante e la cicogna” e “L’industriale”. Nella sezione Panorama, riservata ai film delle ultime due stagioni, sono inclusi anche “L’intervallo” di Leonardo Di Costanzo, “Posti in piedi in Paradiso” di Carlo Verdone, “Tutti i santi giorni” di Paolo Virzì, “È stato il figlio” di Daniele Ciprì, “Viva la libertà” di Roberto Andò e – nell’ambito della Settimana della lingua italiana nel mondo – la produzione svizzera “Sinestesia” di Erik Bernasconi (interpretata, in italiano, da Alessio Boni, Giorgia Wurth e Leonardo Nigro).
La Retrospettiva di quest’anno, invece, indaga nel cinema di Michele Placido, attraverso una selezione di film da lui diretti o interpretati per altri registi. Così, accanto a celebri regie di Placido come “Un eroe borghese” (1995), “Romanzo criminale” (2005), “Il grande sogno” (2009), “Vallanzasca. Gli angeli del male” (2010) e “Il cecchino” (2012) scorrono anche “Marcia trionfale” (1976) di Marco Bellocchio, “Lamerica” (1994) di Gianni Amelio e “La sconosciuta” (2006) di Giuseppe Tornatore.
L’Italian Film Festival è organizzato dall’Istituto italiano di cultura di Stoccolma e dalla FICC – Federazione italiana dei circoli del cinema, col contributo del Ministero per i beni e le attività culturali – Direzione generale cinema e in collaborazione con l’Ambasciata d’Italia in Svezia, il Centro regionale Campania della FICC, l’associazione culturale Blackout e la scuola di cinema Pigrecoemme di Napoli.

sabato 12 ottobre 2013

INTERVISTA A RICHARD DREYFUSS: "HOLLYWOOD SENZA IDEE..."

Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 11 ottobre 2013)

Sul set di “Caserta Palace Dream”, il cortometraggio diretto da James McTeigue e prodotto da Pasta Garofalo, gli occhi sono tutti puntati su di lui. Ed è inevitabile, perché Richard Dreyfuss è uno tra gli attori-simbolo di una stagione indimenticabile del cinema americano, quella della New Hollywood negli anni Settanta, quando l’interprete originario di Brooklyn inanellava, uno dopo l’altro, ruoli da protagonista in film mitici come “American Graffiti” (1973) di George Lucas, “Lo squalo” (1975) e “Incontri ravvicinati del terzo tipo” (1977) di Steven Spielberg o quel “Goodbye amore mio!” (1977) di Herbert Ross per il quale ottenne l’Oscar come miglior protagonista.
Nel corto di McTeigue, girato in questi giorni nella Reggia di Caserta, Dreyfuss interpreta Luigi Vanvitelli, l’architetto che, su commissione di Carlo di Borbone, progettò l’edificio nel 1751. Con lui, recitano Kasia Smutniak e Valerio Mastandrea, la regina Maria Amalia di Sassonia e re Carlo, con Ennio Fantastichini, Nicola Nocella e Malika Ayane in ruoli secondari. La storia va dal 1751 attraverso l’Ottocento, il 1930, il 1945 fino al 2013, col fantasma di Maria a fare da genius loci oltre i confini del tempo.
Dreyfuss, com’è stato coinvolto nel progetto?
“Sono stato contattato dal regista e mi ha affascinato il fatto che io stesso, molto tempo prima, avessi scritto una storia simile, basata su un amore capace di trascendere lo scorrere del tempo. In quanto a Vanvitelli, non lo conoscevo, così come non conoscevo la Reggia di Caserta. Ma, proprio in questo periodo, sto leggendo molti libri su un gruppo di intellettuali europei dell’epoca, i cameralisti, con i quali Vanvitelli ebbe molto in comune. Della Reggia ignoravo persino che fosse stata utilizzata da Lucas per “Star Wars”, ma mi affascinava questa storia legata alla sua edificazione”.
Lei è un simbolo vivente del cinema americano degli anni Settanta. Com’è oggi Hollywood rispetto ad allora?
“Oggi comandano i soldi e c’è minore libertà espressiva, mentre allora si puntava sulla creatività e sulla voglia di collaborare. All’epoca, si partiva dalle storie e dai personaggi, mentre oggi contano gli effetti speciali. Inoltre, strumenti come twitter hanno ridotto la capacità dei più giovani di confrontarsi con la complessità e ciò si vede anche nei film. A un giovane attore, insomma, oggi direi di fare un altro mestiere”.
Ma sempre più registi e attori hollywoodiani lavorano in serie tv di qualità proprio per la maggiore libertà creativa. Lei che ne pensa?
“In effetti, nelle serie tv che si producono alla Hbo c’è più libertà e voglia di sperimentare rispetto ai prodotti industriali medi hollywoodiani. Il centro della questione, però, non è dire liberamente le parolacce in tv, oppure mostrare sesso esplicito. Noi non abbiamo fatto battaglie da giovani per ottenere questo, ma per far sì che il cinema e la televisione riuscissero a raccontare i problemi della vita reale. E, purtroppo, oggi questo non accade nemmeno nelle serie televisive”.
Sembra che non le piaccia molto la piega che il mondo ha preso in questi anni.
“Viviamo in un’epoca di incertezze, nella quale non riusciamo più a ragionare sul medio-lungo periodo. Veniamo dopo Freud, Einstein, Marx e Darwin, che hanno sgretolato le certezze millenarie dell’uomo. E, oggi più che mai, il due per cento di ricchi continua a dominare il mondo a discapito dell’altro novantotto per cento. Negli Stati Uniti se ne sta accorgendo anche un centrista come Obama, nonostante abbia la maggior parte del Paese dalla sua parte: a ostacolarne l’azione, infatti, è proprio quel due per cento”.
La sua vita è stata ricca di alti e bassi, come poche altre a Hollywood. Che cosa prova quando la ripercorre con la mente?
“A me è sempre piaciuto più diventare una star del cinema piuttosto che esserlo davvero. Posso definirmi un cacciatore, perché ho sempre inseguito le cose che mi interessavano, prima perdendole e poi riconquistandole, vincendo, poi perdendo, poi vincendo di nuovo. E se fossi stato diverso mi sarei annoiato terribilmente”.
Che cosa c’è nel suo immediato futuro?
“Non dirigerò mai un film. Invece, ho finito di recitare da poco in “Cas & Dylan”, il debutto alla regia di Jason Priestley. Ma, soprattutto, ho appena terminato il mio primo romanzo, “Appomattox”, come il luogo dell’ultima battaglia della Guerra civile americana. Non svelo la trama, ma ci sarà un lieto fine, perché oggi c’è bisogno più che mai di veri happy end”.
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L’embrione di “Caserta Palace Dream”, il nuovo cortometraggio d’autore prodotto da Pasta Garofalo nell’ambito del progetto pluriennale “Garofalo firma il cinema”, si celava nella mente e nel cuore di James McTeigue fin da quando, nel 2000, lavorò come primo assistente di George Lucas sul set campano di “Star Wars episodio 2 – L’attacco dei cloni” e s’innamorò della Reggia di Caserta, che ospitò le riprese com’era già successo tre anni prima per il precedente episodio della celeberrima saga fantascientifica.
Così, già dopo i primi contatti col vulcanico direttore commerciale della Garofalo, Emidio Mansi (la mente dietro i progetti cinematografici della storica azienda di Gragnano), e con Benedetto Condreas dell’agenzia di comunicazione PesceRosso (che per il pastificio gragnanese cura l’ormai consolidato format cinéphile), l’idea di ambientare la sesta produzione firmata Garofalo per la prima volta fuori Napoli, ma all’interno di un sito storico-monumentale tra i più conosciuti al mondo, ha avuto la meglio su tutte le altre. “Quando mi hanno chiesto di dirigere questo corto in Campania – racconta McTeigue in una pausa delle riprese che si sono concluse ieri sera nel parco della Reggia – sono immediatamente andato indietro con la memoria a quando, anni fa, ero stato qui per lavorare con Lucas. Da allora, infatti, avevo il desiderio di fare un film che sapesse mostrare questo luogo incredibile, progettato da un architetto straordinario come Vanvitelli, la cui musa ispiratrice era la moglie del re Carlo III, cioè Maria. E da questo mio desiderio è nata l’idea di raccontare la Reggia attraverso una storia d’amore senza tempo, che potesse attraversare epoche storiche differenti e giungere fino a oggi. Su questo spunto, poi, abbiamo deciso di utilizzare Maria come una sorta di presenza fantasmatica capace di pervadere ancora oggi quegli stessi spazi”.
Ad attrarre il regista di “V. per Vendetta” e “The Raven”, però, è stato anche un altro elemento, lo stesso che a suo tempo convinse un maestro del cinema come Terry Gilliam, che per Garofalo ha girato il corto “The Wholly Family”, poi premiato addirittura con il prestigioso European Film Award. “Mi è stata offerta – conclude McTeigue – un’opportunità unica, che per l’industria di Hollywood è sempre più una rarità: la possibilità, cioè, di scrivere, realizzare e dirigere un film con la più completa libertà artistica, grazie a un’azienda davvero visionaria come Pasta Garofalo”. “Caserta Palace Dream” – interpretato da Richard Dreyfuss, Kasia Smutniak, Valerio Mastandrea, Ennio Fantastichini, Nicola Nocella e Malika Ayane – sarà pronto entro la fine dell’anno, ma Garofalo lo lancerà nel corso del 2014 e, dopo l’Efa conquistato con Gilliam, stavolta punterà direttamente all’Oscar 2015.

LA STORIA DI "TAXI DRIVER" RIPERCORSA IN UN LIBRO

Di Diego Del Pozzo

C'è una frase dello sceneggiatore Paul Schrader che, più e meglio di tante altre, restituisce il senso di un progetto filmico epocale come "Taxi Driver", all'epoca osteggiato dai vertici di quasi tutti gli Studios hollywoodiani e di lì a poco – era il 1976 – destinato a entrare nel mito, oltre che nella storia del cinema: "Eravamo abbastanza giovani – sottolinea Schrader – da voler fare qualcosa che durasse. De Niro mi disse, mentre discutevamo se il film avrebbe fatto soldi o no, che secondo lui era un film che la gente avrebbe continuato a vedere fra cinquant'anni, e il fatto che l'anno dopo qualcuno lo vedesse o no non aveva nessuna importanza. E' questo l'atteggiamento che abbiamo adottato, ed ecco perché non siamo scesi a compromessi su nulla".
Si può leggere questa frase all'interno del bel libro "Taxi Driver. Storia di un capolavoro", scritto da Geoffrey Macnab e pubblicato due anni fa da minimum fax (184 pagine, 14 euro).
"Taxi Driver", il capolavoro di Martin Scorsese, è uno tra i film che hanno rivoluzionato la storia del cinema. Il personaggio di Travis Bickle (Robert De Niro, nel ruolo che lanciò la sua carriera), il veterano del Vietnam che diventa tassista newyorkese, riassume in sé il malessere di un'America ancora traumatizzata dalla guerra e dal Watergate: schiavo della pornografia e del junk food, ossessionato dalle armi, Bickle è l'opposto dell'eroe hollywoodiano tradizionale, ma all'epoca colpì al cuore il pubblico di tutto il mondo ed ebbe una eco senza precedenti nella cronaca e nella cultura.
Questo libro ricostruisce il complesso background sociale e culturale del film; ne racconta da dietro le quinte la realizzazione (dando voce direttamente al regista, allo sceneggiatore, agli attori e alla troupe); ne illustra la fortuna nei decenni successivi all'uscita (fino alla recente produzione di un videogame ispirato al film e alle voci di un imminente remake a opera di Lars von Trier) e cerca di spiegare come mai, a distanza di oltre 35 anni, "Taxi Driver" non abbia perso nulla del suo fascino e della sua potenza.
Consigliatissimo!

martedì 13 agosto 2013

BOLLYWOOD COMPIE 100 ANNI...

Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 13 agosto 2013)

Canzoni e tanta musica, danze scatenate su coreografie elaboratissime, colori accesi proprio come le passioni che travolgono gli animi dei personaggi, un irresistibile mix di generi differenti (dalla commedia al melodramma, dal poliziesco al musical), universi di fantasia costruiti a tavolino per far sognare gli spettatori, dive e divi idolatrati e capaci di scatenare fenomeni di autentica isteria collettiva, l’immancabile lieto fine, una durata dei film molto spesso ben oltre le tre ore, una poetica dell’eccesso visivo e narrativo che ben si sposa con una spettacolarità pari solo a quella dei kolossal hollywoodiani: sono queste le caratteristiche peculiari del cinema di Bollywood, il nomignolo – crasi di Bombay e Hollywood – col quale la potentissima industria cinematografica indiana è conosciuta, ormai, in tutto il mondo.
Aishwariya Rai in "Devdas" (2002)
Il cinema in India nasce esattamente 100 anni fa, nel 1913, quando il regista e produttore Dadasaheb Phalke (al quale, dal 1966, è dedicato il corrispondente indiano del premio Oscar) realizza il film mitologico “Raja Harishchandra”. Da allora, negli Studios di Bombay, oggi Mumbai, s’è sviluppata una produzione sempre più diversificata e sofisticata, realizzata prevalentemente in lingua hindi, ma capace di proporsi come fattore decisivo di unificazione culturale, in una nazione-mondo nella quale si parlano una ventina di lingue differenti e si professano altrettante religioni, ma dove vedere un film al cinema rappresenta il clou di ogni attività sociale. E così, oggi, quella indiana è l’unica cinematografia al mondo in grado di resistere allo strapotere culturale ed economico dei film hollywoodiani. Se si tiene conto, infatti, del miliardo circa di abitanti – e, dunque, di potenziali spettatori – di quello che si configura come autentico continente a sé (il Subcontinente indiano), allora non può stupire il dato che vede Bollywood battere Hollywood per quanto riguarda i biglietti venduti ogni anno nei cinema di tutto il mondo, addirittura 3,6 miliardi contro 2,6, grazie soprattutto al clamoroso dato del mercato interno, dove i film indiani conquistano una percentuale pari al 95 per cento e quelli americani poco meno del 5 per cento.
Per festeggiare il centenario del cinema indiano, Feltrinelli Real Cinema ha appena pubblicato l’imperdibile cofanetto “Bollywood – La più grande storia d’amore” (16.90 euro), contenente l’omonimo documentario musicale diretto da Rakeysh Omprakash Mehra e Jeff Zimbalist, ma in realtà più che semplicemente prodotto da Shekhar Kapur, abbinato al libro “Made in India” a cura di Emilia Bandel. Il film, presentato quest’anno a Cannes come evento speciale, è un trascinante caleidoscopio di sequenze tratte da oltre 100 film bollywoodiani scandite dal ritmo frenetico di numeri musicali straordinari per inventiva delle coreografie e splendore scenografico. Nel volume allegato, invece, una serie di interessanti saggi approfondisce le coordinate di un fenomeno che, pur non esaurendosi certamente con Bollywood (poiché l’India può vantare una tradizione di cinema “d’autore” storica e continuamente rinverdita, da maestri come Satyajit Ray ad autrici recenti come Deepa Metha e Mira Nair), ha il proprio “cuore” industriale e artistico a Mumbai, tra la spiaggia meridionale di Juhu e Film City, gli Studios bollywoodiani situati appena a nord della gigantesca metropoli.
In quest’area ad altissima concentrazione di produttori, agenti, distributori, registi e attori, compositori e coreografi (due categorie fondamentali per il cinema di Bollywood) sono nate le leggende di divi come Amitabh Bachchan o Shah Rukh Khan (una sorta di Tom Cruise indiano) e di attrici bellissime come Madhuri Dixit, Rani Mukherjee e Aishwarya Rai, ormai una sorta di ambasciatrice dell’India nel mondo. Ed è sempre da qui che un ambizioso e ricchissimo tycoon come Amit Khanna (che in molti considerano l’inventore del nome Bollywood) lancia la propria sfida ai colleghi di Hollywood, dove la sua multinazionale Reliance Entertainment controlla già più di 240 sale cinematografiche, ha acquistato quote della DreamWorks di Steven Spielberg per oltre 600 milioni di dollari e ha messo in circolo altri 600 milioni di dollari per coprodurre otto film ad alto budget con divi del calibro di Brad Pitt, Jim Carrey, Nicolas Cage, Tom Hanks e George Clooney. “Gli Studios americani – sottolinea proprio Amit Khanna – sono invecchiati, hanno bisogno di nuova linfa. Noi abbiamo questa nuova linfa e siamo in grado di fornire una nuova sensibilità investendo direttamente sugli uomini e sui talenti per creare grandi film. I nostri punti di forza sono i numeri della nostra popolazione, i nostri giovani, la nostra tradizione cinematografica e i nostri modi di narrare storie”.
Insomma, proprio mentre celebra il suo primo secolo di vita, il cinema di Bollywood si lancia con sempre maggiore decisione alla conquista dell’immaginario globale.

sabato 13 luglio 2013

UN RICORDO DELLA "LEGGENDA" RICHARD MATHESON

Di Diego Del Pozzo
(Mega n.° 193 - Luglio 2013)

Mentre mi accingevo a scrivere, con enorme ritardo sulla scadenza, l’articolo mensile per questa mia rubrica (e mi sarei dedicato al nuovo film su Superman, L’uomo d’acciaio, che a me è piaciuto davvero tanto), sono stato colpito da una brutta notizia appresa appena collegatomi a Internet: a 87 anni, il grande scrittore e sceneggiatore americano Richard Matheson ha deciso di lasciare questo mondo per recarsi definitivamente in uno tra i mille altri universi di fantasia da lui creati nel corso di una carriera inimitabile. Insomma, l’autore di romanzi “mitici” come Io sono leggenda, Tre millimetri al giorno, Io sono Helen Driscoll, per citarne solo alcuni, è morto.
Naturalmente, viene facile anche a me – come hanno fatto, del resto, tutti i media mondiali, appena appresa la triste notizia – parafrasare il titolo del suo libro più famoso e affermare che, sì, adesso Richard Matheson è davvero “leggenda”, proprio come il personaggio di Robert Neville che lui rese protagonista dell’indimenticabile romanzo post-apocalittico del 1954, trasposto negli anni in ben tre film. Ma, come nel caso dell’unico essere umano sopravvissuto in un mondo ormai totalmente popolato da vampiri, anche nel caso di Matheson l’aggettivo “leggendario” non è esagerato, poiché ben descrive uno tra i più importanti narratori americani del Novecento, un autore seminale che ha profondamente influenzato gli sviluppi successivi del macrogenere fantastico e che, con la sua arte schiettamente popolare ma personalissima, ha fatto in qualche modo da maestro persino per il “re dell’horror” Stephen King. “Quando la gente pensa al genere horror – raccontò anni fa proprio King – cita subito il mio nome, ma senza Richard Matheson io non sarei nemmeno qui. Posso considerarlo mio padre come Elvis Presley potrebbe fare con Bessie Smith”.
Per un gigante della fantascienza come Ray Bradbury, l’autore nato ad Allendale (New Jersey) nel 1926 è stato semplicemente “uno tra gli scrittori più importanti del Ventesimo secolo”. Con le sue invenzioni narrative, ha forgiato il gusto e le caratteristiche del Fantastico contemporaneo, dunque, incidendo in profondità anche su altri linguaggi come il cinema, la televisione, i fumetti e i videogames. I suoi meriti sono stati riconosciuti dai milioni di lettori che ha saputo conquistare, ma anche dai numerosi premi attribuitigli, tra i quali un “Edgar Allan Poe Award” e un “Bram Stoker Award” alla carriera. In Italia, per fortuna, è molto facile reperire le sue opere, attualmente pubblicate in ottime edizioni da Fanucci, sia per quel che concerne i racconti (con la prima edizione mondiale che li raccoglie integralmente in ordine cronologico, in quattro magnifici volumi, a partire dall’esordio del 1950, il memorabile Nato d’uomo e di donna), sia per i romanzi, in entrambi i casi spesso ispiratori di film di successo.
Trasferitosi in California dopo la laurea, Matheson ha dedicato davvero tutta la vita alla scrittura, esplorandone senza sosta le mille possibili declinazioni: romanzi, racconti, soggetti e sceneggiature per il cinema e per la televisione. Fili conduttori tematici della sua sterminata produzione sono lo sguardo attento all’emarginazione sociale e l’inserimento della paura e del terrore all’interno della quotidianità. E proprio il rapporto originale tra fantastico e reale, con i germi destabilizzanti del primo pronti a insinuarsi in maniera inattesa in scenari contemporanei concreti e assolutamente realistici, lega il “maestro” Matheson a uno straordinario “allievo” come King: basti pensare, tra le pagine dell’uno e dell’altro, alle centinaia di tipiche cittadine di provincia americane, ordinarie fin quasi allo stereotipo, improvvisamente trasfigurate in luoghi da incubo attraverso l’irruzione di elementi fantastici e sovrannaturali.
Come detto, la sua pratica di scrittura s’è misurata costantemente col cinema e con la televisione. Per il piccolo schermo, dove ha scritto anche per Star Trek e per la serie antologica di Alfred Hitchcock, basti la citazione della storica serie fantastica di Rod Serling The Twilight Zone (Ai confini della realtà, 1959-1964), della quale è stato certamente uno tra gli autori di punta e che ha contribuito a caratterizzare fortemente con la sua inesauribile fantasia e la capacità di utilizzare racconti “di genere” come metafore perfette degli Stati Uniti del periodo e, in particolare, dei suoi lati oscuri.
Per il cinema, invece, ha scritto o ispirato davvero tanti film. Sue sono, per esempio, le sceneggiature del celebre “Ciclo di Poe” diretto da Roger Corman per la American International Pictures, oppure quelle di titoli come Il padrone del mondo (1961) e Lo squalo 3 (1983). Mentre Hitchcock rifiutò l’interessante script che gli aveva commissionato per Gli uccelli, perché non condivideva l’idea di Matheson di non mostrare mai i volatili, facendone soltanto percepire la minaccia. La sua sceneggiatura più famosa, però, resta quella di Duel (1971), l’adrenalinico esordio alla regia di Steven Spielberg tratto da un suo racconto omonimo: prodotto per la tv, ma distribuito anche al cinema, è l’indimenticabile thriller su una folle e ossessiva sfida stradale tra l’auto guidata da un placido commesso viaggiatore e l’autocisterna di un misterioso camionista con gli stivali. Ma già nel 1957, il regista Jack Arnold aveva portato sul grande schermo il romanzo omonimo di Matheson dell’anno precedente, trasformandolo in uno tra i titoli più celebri dell’intera storia della fantascienza cinematografica: The Incredible Shrinking Man, in italiano Tre millimetri al giorno il libro e Radiazioni BX: distruzione uomo il film. In anni più recenti, quindi, sono usciti Echi mortali (1999) di David Koepp, tratto da Io sono Helen Driscoll del 1958; The Box (2009) di Richard Kelly, dal racconto Button, Button del 1970; Real Steel (2011) di Shawn Levy, prodotto da Steven Spielberg e Robert Zemeckis, ispirato al racconto Acciaio (Steel) già adattato per un episodio televisivo di Ai confini della realtà. La chiusura non può essere che per Io sono leggenda (I Am Legend), romanzo-capolavoro del 1954 che ha prodotto ben tre versioni filmiche ufficiali e ispirato una miriade di altre pellicole e serie televisive. Le prime, quelle ufficiali, sono l’italiano L’ultimo uomo della Terra (1964) di Ubaldo Ragona con Vincent Price (il migliore), 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra (1971) di Boris Sagal e Io sono leggenda (2007) di Francis Lawrence. Tra coloro che hanno tratto ben più di un’ispirazione da questo romanzo, invece, non posso fare a meno di citare il George Romero de La notte dei morti viventi (1968) e, poiché questa è una rivista sui fumetti, il Robert Kirkman di The Walking Dead, serie post-apocalittica per antonomasia, su carta e in tv, che probabilmente non sarebbe esistita senza la fantasia di Richard Matheson.

LIBRI PER L'ESTATE: "NON MI AVRETE MAI" (DI VAIO & LOMBARDI)

Di Diego Del Pozzo

Salvatore Capone è uno scugnizzo “di mezzo alla strada”, un ragazzo cresciuto nel degrado fisico e morale della periferia nord di Napoli, tra Scampia e Piscinola, uno che inizia a rubare perché povero e che, man mano, diventa una sorta di piccola leggenda nel suo rione, “Stelletella” (questo il suo nomignolo), sesto di dieci figli, ladruncolo di pneumatici e autoradio già a nove anni, poi scippatore e rapinatore a mano armata, quindi responsabile di una piazza di spaccio da tremila dosi al giorno, in una corsa senza sosta che, dopo l’ulteriore accelerazione provocata dall’incontro terribile con la droga (cocaina e poi eroina), termina inevitabilmente nell’inferno di Poggioreale, l’Alcatraz napoletano, dove però la sua esistenza cambia per sempre. Proprio tra quelle mura senza speranza, infatti, Salvatore capisce come incanalare in maniera costruttiva l’irredimibile grido di ribellione che risuona nella sua testa fin da bambino, quel “Non mi avrete mai” che lo porta a opporsi istintivamente a qualunque autorità costituita e, negli anni, a fuggire dai luoghi di reclusione – siano essi scuole, collegi, riformatori, carceri minorili, centri d’igiene mentale, comunità di recupero – nei quali di volta in volta si trova costretto.
E proprio Non mi avrete mai (340 pagine, 17.50 euro, Einaudi Stile Libero) è il titolo del libro scritto da Gaetano Di Vaio e Guido Lombardi che raccoglie le avventure di volta in volta tragicomiche, drammatiche, pietose, surreali, cupissime, ridicole, disperate, a tratti epiche, spesso romantiche, persino divertenti di Salvatore Capone. Rispetto a tanti altri “romanzi criminali” in chiave vesuviana nati sulla scia di Gomorra, però, questa storia ha decisamente una marcia in più: la senti vera, non artefatta né costruita, vita reale trasformata in magmatica materia narrativa. Questo perché Salvatore Capone non è un’invenzione di fantasia ma esiste davvero, come esplicitamente segnalato in apertura di volume, a scanso di equivoci: “La storia che il protagonista narra non è frutto di fantasia, ma è alimentata dai ricordi e dalle esperienze personali realmente vissute da Gaetano Di Vaio, uno degli autori, pur rappresentate con linguaggio letterario”.
L’approccio scelto da Di Vaio e Lombardi – il primo, oggi, è un produttore cinematografico indipendente di successo con la factory Figli del Bronx; il secondo, è il regista di Là-bas, migliore opera prima due anni fa a Venezia, già pronto col suo secondo film Take Five – funziona a meraviglia perché abbina l’intenso coinvolgimento “in prima persona” dell’uno con la perizia tecnica e la fluidità narrativa dell’altro. E i continui andirivieni nel tempo, i ricordi del passato criminale, i lampi accecanti di un futuro di redenzione appena suggerito (ma oggi pienamente compiuto), la polifonia derivante dalle voci dei tanti personaggi di contorno perfettamente delineati anche in poche righe (dal boss Carminiello all’amico Mimmo, dai violenti secondini Cu-cù e Schwarzenegger al compagno di cella e maestro di letture detto ‘o Poppo), la tenerezza di un amore più forte di tutto l’orrore circostante (quello di Salvatore per la giovane moglie Lucia) acquistano così consistenza quasi materica e, soprattutto, catturano il lettore con la stessa forza visionaria di un fiammeggiante kolossal cinematografico che, se fosse ancora vivo Sergio Leone, non potrebbe che intitolarsi C’era una volta a Napoli. Kolossal che, vista anche la dimestichezza dei due autori col mondo del cinema, in futuro qualcuno senz’altro realizzerà.

domenica 2 giugno 2013

ARRIVA AL CINEMA "UN CONSIGLIO A DIO", "COMBAT FILM SUL DRAMMA MIGRANTI"

Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 2 giugno 2013)

Bel successo di pubblico per le prime due uscite in sala di “Un consiglio a Dio”, il nuovo film del regista napoletano Sandro Dionisio interpretato da Vinicio Marchioni, l’anno scorso unico titolo italiano in concorso al Pesaro Film Festival. La pellicola, prodotta da Axelotil di Gianluca Arcopinto (che lo distribuisce con la sua Pablo), Cetra dello stesso Dionisio e Scuola di cinema Pigrecoemme, è stata proiettata in anteprima a Roma, al cinema Sacher di Nanni Moretti, e poi a Napoli, al Filangieri, dove giovedì sera è stata introdotta in sala dal regista assieme a Valerio Caprara ed Enrica Amaturo. E il percorso distributivo del film nei cinema italiani prosegue ancora a Roma, al Kino, fino a mercoledì; e quindi a Perugia, Rimini, Pesaro, Genova, Firenze, Ancona, Fermo, Torino, Milano, Bologna, Orbetello e Siena.
Visibilmente emozionato, durante l’anteprima napoletana del Filangieri, Dionisio descrive il suo lavoro come “una sorta di combat film, realizzato nonostante gli scarsi mezzi produttivi: un progetto piccolo e persino un po’ folle, concretizzatosi grazie al supporto di Arcopinto e degli amici di Pigrecoemme”. E proprio dalla scuola di cinema partenopea proviene il bravo montatore del film, Giacomo Fabbrocino, uno dei tre soci della struttura assieme a Corrado Morra e Rosario Gallone. “Sono felice per l’uscita in sala – prosegue Sandro Dionisio – perché in Italia c’è sempre meno spazio per lavori sperimentali come questo, a metà tra fiction, documentario, reportage e poesia filmata”.
“Un consiglio a Dio” segna il ritorno alla regia di Dionisio – già assistente, tra gli altri, di Mario Martone negli anni Novanta – un decennio dopo l’esordio “La volpe a tre zampe”, mai distribuito in sala nonostante i riscontri positivi da parte della critica. “Con questo film – racconta l’autore – ho voluto affrontare il tema scottante dell’immigrazione dall’Africa verso le coste italiane, attraverso la figura surreale e dolente di un “trovacadaveri”, cioè un uomo che, su una spiaggia senza nome, in mezzo a escrementi e rifiuti della società dei consumi, recupera i corpi senza vita dei migranti morti nel disperato tentativo di approdare in Italia. La trama è tratta dal monologo teatrale “Il trovacadaveri” di Davide Morganti, sulla cui base, però, ho innestato la mia drammaturgia cinematografica originale, per esempio alternando interviste con autentici migranti che raccontano le loro esperienze spesso drammatiche, immagini di repertorio ottenute tramite la Guardia di Finanza di alcuni veri sbarchi sulle coste italiane, persino alcune sequenze d’animazione. Insomma, ho provato a realizzare un crossover filmico piuttosto sperimentale, giovandomi in questo anche delle suggestioni provenienti dalla magnifica colonna sonora jazz scritta ed eseguita da un giovane talento napoletano come Vincenzo Danise”.
Le sequenze recitate da Vinicio Marchioni sono state filmate di notte sulle spiagge del litorale domizio, rese livide e minacciose dai toni cupi della fotografia. “Ho cercato di esaltare la visionarietà di quelle scene, anche se al centro di tutto – conclude Dionisio – ho voluto mantenere intatta l’urgenza quasi pasoliniana del testo di riferimento, esaltata dalla notevole performance attoriale di Vinicio. L’incontro con lui è nato e si è sviluppato in maniera assolutamente naturale, cementandosi poi in un’intesa artistica rafforzata dalla sua voglia di misurarsi con qualcosa di molto diverso dai suoi precedenti lavori cinematografici e televisivi”.

venerdì 26 aprile 2013

CON "394" IL TEATRO INCONTRA IL CINEMA E SI FA VIAGGIO DELL'ANIMA

Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 26 aprile 2013)

Col suo emozionante documentario “394 – Trilogia nel mondo” il trentacinquenne regista napoletano Massimiliano Pacifico condivide con lo spettatore un itinerario ondivago su e giù dal palcoscenico, avanti e dietro le quinte, in giro per il mondo, ma anche dentro e intorno all’arte di fare teatro e di condividerne l’essenza col proprio pubblico, ovunque esso si trovi. L’itinerario in questione è quello seguito da Toni Servillo e dalla sua compagnia, tra il 2008 e il 2010, in occasione della fortunatissima tournée della “Trilogia della villeggiatura” di Carlo Goldoni, con tappe internazionali anche in metropoli come Berlino e Mosca, Parigi e New York, Madrid e Istanbul, per un totale di 18 città in 11 nazioni e tre continenti (il numero del titolo è quello delle date complessive di quella tournée, appunto 394).
Adesso, dopo il bel successo dello scorso novembre al festival di Torino, il densissimo cofanetto che Feltrinelli Real Cinema manda in libreria (dvd e libro di 128 pagine a 16.90 euro) potenzia ulteriormente gli effetti del documentario di Pacifico, rendendo disponibili tanti altri materiali inediti, selezionati tra le oltre 150 ore di riprese effettuate al seguito della compagnia, in collaborazione col “complice” Diego Liguori (col quale, nel 2006, il regista firmò il sorprendente cortometraggio “Cricket cup”). Oltre a “394”, infatti, il cofanetto contiene anche un’ampia sezione di extra (più di tre ore), composta da altri filmati realizzati in tournée, sorta di diario di viaggio diviso in capitoli e riordinabile a piacimento. “La chiave del film – racconta Massimiliano Pacifico – è stata quella di evitare qualsiasi interazione con i soggetti che dovevamo riprendere. Infatti, l’uso di interviste e la presenza dichiarata degli autori avrebbe creato in chi veniva ripreso una consapevolezza che non mi interessava. Invece, volevo raccontare momenti autentici e che la macchina da presa testimoniasse in maniera fedele ciò che succedeva alla compagnia durante la tournée. Per fare ciò era necessario filmare sempre, quasi ininterrottamente, per creare una sorta di assuefazione alla nostra presenza, fino a diventare invisibili e far sì che gli attori si dimenticassero di noi”.
Nel dvd, ci sono anche una versione filmata dello spettacolo teatrale (montata con materiali presi da differenti esibizioni) e l’altro documentario “Cafsob”, realizzato quasi in presa diretta a Napoli, in occasione della storica “prima” del 12 dicembre 2007, quando la compagnia decise di recitare senza costumi, trucchi e scenografie, non disponibili a causa dello sciopero degli autotrasportatori che bloccò l’Italia per alcuni giorni (e, nel libro allegato, il produttore Angelo Curti la ricorda come “la serata per me più rischiosa in oltre tre decenni di palcoscenico”). Tutti questi materiali creano l’effetto di un’autentica immersione in profondità. “Ho provato a offrire allo spettatore – aggiunge Pacifico – la possibilità di entrare nel cuore della tournée, in gran parte dal privilegiato punto di vista del dietro le quinte, piuttosto che dalla platea, ricercando una sorta di sguardo inedito sullo spettacolo e i suoi attori. Alla fine, “394” per me è stato come un film di finzione, con una sceneggiatura che più ricca e complessa non avrei mai potuto immaginare o scrivere”.
Prodotto da Teatri Uniti e dal Piccolo Teatro di Milano, come lo spettacolo diretto e interpretato da Toni Servillo, “394 – Trilogia nel mondo” lascia il giusto spazio anche agli altri attori della compagnia (tra i quali Andrea Renzi, Francesco Paglino, Rocco Giordano, Eva Cambiale, Paolo Graziosi, Tommaso Ragno, Anna Della Rosa, Chiara Baffi, Gigio Morra, Salvatore Cantalupo) e, soprattutto, dice una parola nuova sul rapporto tra teatro e cinema. Domani sera, Toni Servillo parlerà anche di questo cofanetto nel corso del programma di Fabio Fazio “Che tempo che fa” su Rai Tre. Poi, venerdì 3 maggio “394” sarà presentato alla Feltrinelli di piazza dei Martiri e, in serata, nella rassegna AstraDoc.

giovedì 25 aprile 2013

NAPOLI COMICON 2013: INTERVISTA A DIANE DISNEY

Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 25 aprile 2013)

A 80 anni, splendidamente portati, Diane Disney è la depositaria dell’eredità artistica e ideale di papà Walt, al quale ha dedicato quasi quattro anni fa – con un investimento di 112 milioni di dollari – il fantastico Disney Family Museum di San Francisco, scrigno dei desideri e paese delle meraviglie per gli appassionati di tutto il mondo. Un piccolo contrattempo legato alla salute del marito Ron Miller (ex presidente della Disney) le ha impedito all’ultimo minuto di essere a Napoli di persona, per visitare al Pan la mostra “Magica Disney. 3000 volte Topolino” (accompagnata dal notevole catalogo curato da Luca Boschi) e intervenire come ospite d’onore alla quindicesima edizione del Comicon (da oggi a domenica alla Mostra d’Oltremare). La figlia del grande Walt, però, si complimenta a telefono con gli organizzatori della kermesse partenopea. “Avrei voluto toccare con mano – spiega al direttore Claudio Curcio – l’enorme entusiasmo che l’universo Disney continua a suscitare in Italia, anche se da foto e catalogo mi sono fatta un’idea della mostra e ne sono orgogliosa”.
Come si spiega, signora Disney, l’inesauribile successo europeo e italiano dei fumetti disneyani, molto maggiore rispetto agli Stati Uniti e certificato dai 3000 numeri del settimanale “Topolino”?
“Non riesco a spiegarmelo razionalmente. L’Italia, tra l’altro, propone storicamente la più importante scuola mondiale di fumettisti Disney, fin da quando, negli anni ’30, papà siglò il contratto con Arnoldo Mondadori, per permettergli di realizzare le versioni italiane ufficiali dei suoi personaggi. Al museo abbiamo alcune foto di quegli incontri, con la firma che arrivò sulla barca di Mondadori”.
Il museo che lei ha dedicato a suo padre ne mette in evidenza anche l’aspetto privato. Ma chi era Walt Disney tra le mura domestiche?
“Era un uomo normale, persino ordinario, ma che sapeva cosa gli piaceva e cosa voleva. Non riusciva a stare fermo nemmeno per un istante e, appena poteva, si dedicava a lavori manuali. Una volta, per esempio, realizzò nel nostro giardino una riproduzione in scala del trenino che poi avrebbe messo al centro dei parchi Disneyland. Sì, perché l’idea di aprire quei luoghi di divertimento lui ce l’aveva da quando era ragazzo”.
E come papà? Le raccontava le favole della buonanotte?
“Era tenerissimo. Però, a leggerci le favole a letto era nostra madre. Papà, invece, ci ha portato ogni mattina in auto a scuola, dall’asilo fino alla high school. E durante quei tragitti scatenava tutta la sua fantasia: ci raccontava ciò a cui stava lavorando o che stava progettando, ma anche le storie dei suoi personaggi, dalla sua versione di Pinocchio a Biancaneve, da Topolino a Paperino. Credo che fosse anche una sorta di test per sviluppare nuove storie. Anche a tavola, le cene erano arricchite dai suoi racconti su tutto ciò che lo teneva impegnato in quel preciso momento, anche perché papà non ha mai avuto uno studio in casa e, dunque, gli script che gli venivano sottoposti li leggeva in mezzo a noi”.
Qual è il classico Disney al quale è più affezionata?
“Probabilmente “Bambi”, al cui geniale art director Tyrus Wong dedicheremo la prossima mostra al museo. Però, il mio ricordo più vivido è legato alla prima volta che vidi “Biancaneve e i sette nani”. Avevo tre anni e mezzo e mio padre lo proiettò apposta per me nel cinema dello studio Disney, poche settimane prima dell’uscita. Ma di fronte alla sequenza della trasformazione della regina in strega provai una paura enorme, iniziai a piangere e urlare, tanto da dover essere portata fuori alla luce. Fu un’emozione fortissima”.
Lei, da bambina, andava spesso a cinema con suo padre?
“In realtà, io non andavo a cinema, perché i film li vedevo nelle sale degli Studios hollywoodiani. Ho un bellissimo ricordo, per esempio, de “La febbre dell’oro” di Chaplin, anche se non ero una cinefila. Amavo, però, i cartoons disneyani, anche se all’inizio non rimasi tanto colpita da Topolino. Soltanto da adulta mi resi conto che quel personaggio, di fatto, è proprio mio padre”.
Qual è la principale eredità di Walt Disney, secondo lei?
“Gioia e felicità, perché lui è stato un narratore che voleva divertire la gente. Poi, dal punto di vista artistico, la sua influenza è enorme. Grazie alla Cal Arts, la struttura tecnico-didattica da lui fondata in California, si sono formati, nel corso dei decenni, tanti artisti e animatori che, ancora oggi, reggono le sorti dell’industria, a partire da autori geniali come John Lasseter e Tim Burton”.

lunedì 8 aprile 2013

ADDIO A BIGAS LUNA, IL REGISTA CHE AMAVA L'EROS E LA VITA

Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 7 aprile 2013)

A Bigas Luna piaceva definirsi biofilo, per sottolineare quanto amasse la vita. In particolar modo, ne amava i tre elementi che, a suo dire, sanno descriverne meglio le affascinanti complessità, le contraddizioni e le mille sfumature: spiritualità, sessualità e cibo.
Il popolare regista spagnolo è scomparso ieri mattina a Tarragona, a 67 anni, al termine di una lunga lotta contro il cancro. Per suo espresso desiderio, hanno fatto sapere i familiari, “non avrà luogo alcun funerale, né omaggio pubblico”. Juan José (Josep Joan in catalano) Bigas Luna era nato a Barcellona il 19 marzo 1946 e, assieme al castigliano Pedro Almodovar (al quale lo univa una divertita e complice rivalità), ha incarnato in sé e nei suoi film il desiderio della Spagna di fine anni Settanta – inizio Ottanta di lasciarsi alle spalle il grigiore della dittatura franchista e riscoprire i colori e i mille sapori di una gioia di vivere chiassosa e caleidoscopica, magari torbida ma densissima di slanci vitalistici.
Dopo una serie di corti sperimentali direttamente collegati alla sua attività di designer, si rivela nel 1978 al festival di Cannes con “La chiamavano Bilbao”, cupa incursione quasi underground nelle ossessioni sessuali e nelle pulsioni omicide di un bizzarro maniaco verso una spogliarellista-prostituta, interpretata da Isabel Pisano, prima tra le tante attrici scoperte nel corso della carriera. “Bilbao”, tra l’altro, è realizzato in parallelo con un altro lungometraggio, “Tatuaje”, tratto dall’omonimo romanzo noir di Manuel Vazquez Montalban. Ed entrambi sono seguiti, l’anno dopo, dall’altrettanto disturbante “Caniche”, su due fratelli incestuosi e zoofili. Con questi primi titoli, il regista originario della Catalogna si caratterizza già per quelle atmosfere tra il surreale e il morboso che lo accompagnano per tutta la carriera, al pari di personaggi smarriti quasi sempre inseriti in strutture narrative ideali per evidenziarne il potenziale autodistruttivo e l’intrinseco pessimismo.
Basti pensare ai progressivi spostamenti del desiderio e alle attrazioni fatali di “Lola” (1985), rilettura in chiave di melodramma sadomasochistico della “Lolita” di Stanley Kubrick, con Angela Molina che s’imprime nella memoria per l’interpretazione della protagonista. O alle continue degradazioni di una donna affascinata dal sesso nel programmaticamente scandaloso “Le età di Lulù” (1990), il film che, a partire dal best seller di Almudena Grandes, trasforma Francesca Neri in una diva internazionale. E ancora agli effetti devastanti del potere della gelosia in “Prosciutto prosciutto”, la pellicola del 1992 con la quale Bigas Luna conquista il Leone d’argento alla Mostra di Venezia e, soprattutto, lancia i due interpreti destinati a imporsi come i nomi di punta del nuovo cinema iberico: l’allora diciottenne Penelope Cruz e il bel tenebroso Javier Bardem. Proprio l’attore poi vincitore dell’Oscar come non protagonista nel 2008 (per “Non è un Paese per vecchi” dei fratelli Coen) torna a farsi dirigere da Luna l’anno dopo, nel cinico e divertito “Uova d’oro”, secondo capitolo di quella “trilogia mediterranea” che termina nel 1994 col visionario “La teta y la luna”, bizzarria pseudofelliniana con Mathilda May dedicata al tema della sessualità pregenitale.
Tralasciando il pessimo “Bambola” (1996) con Valeria Marini (passato alla storia unicamente per un’accoglienza più che turbolenta alla Mostra di Venezia), dell’ultimo Bigas Luna vanno ricordati “L’immagine del desiderio” (1997), Volavérunt (2000) e il sensuale mélo “Son de mar” (2001). Con l’ancora inedito in Italia “Yo soy la Juani” del 2006, infine, il regista catalano lancia l’ultima sua musa, Veronica Echegui, caratterizzata da una sensualità selvaggia e da una trascinante energia, com’è stato spesso per le sue attrici.
I sodalizi artistici con Francesca Neri, Stefania Sandrelli, Anna Galiena, Alessandro Gassman, Valeria Marini testimoniano di un rapporto profondo con l’Italia, dove amava lavorare ma anche rilassarsi. E tra i suoi film-culto, non a caso, ne inseriva sempre uno del prediletto Vittorio De Sica, “L’oro di Napoli”, pellicola schiettamente “commerciale” come quasi tutta la sua produzione, all’insegna dell’amore per il sesso, il cibo, la vita.

martedì 2 aprile 2013

FINE DELLA TERZA STAGIONE (MAGNIFICA!) PER "THE WALKING DEAD"

Anche la terza stagione di "The Walking Dead" è terminata. Qui, il cast festeggia la fine delle riprese

giovedì 14 marzo 2013

INTERVISTA A GABRIELE SALVATORES: "IL MIO EASTERN SIBERIANO"

Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 14 marzo 2013)

Per la presentazione di “Educazione siberiana” al pubblico napoletano Gabriele Salvatores ha pensato a qualcosa di speciale, anche perché lui, milanese d’adozione, a Napoli ci è nato. Così, oltre a salutare gli spettatori del film stasera al Modernissimo (prima dello spettacolo delle 20.30), il regista sarà anche domani mattina nella multisala di via Cisterna dell’Olio, per una lezione-incontro a inviti con gli studenti delle scuole superiori e delle università.
Di che cosa parlerà ai ragazzi, Salvatores?
“Non ho in mente una vera e propria lezione, anche perché non è il mio mestiere. Piuttosto, cercherò con loro un confronto franco e diretto, dal quale emergerà certamente qualcosa di interessante e sorprendente, come accade sempre in questo tipo di incontri. Penso che vi saranno curiosità sul nuovo film, ma senz’altro non si parlerà di sola tecnica”.
“Educazione siberiana” è tratto dall’omonimo libro di Nicolai Lilin, edito da Einaudi nel 2009. Come ha affrontato questa trasposizione?
“Innanzitutto, focalizzando l’attenzione su una storia, tra le tante raccontate da Lilin. Poi, concentrandomi sugli aspetti più visionari del suo modo di narrare, a sua volta non puramente cronachistico. Da parte mia, ho voluto costruire un’epopea quasi western, anche se, vista l’ambientazione sovietica e poi russa, sarebbe più corretto parlare di eastern. Comunque, ho puntato ad approfondire proprio quel tipo di stilemi e di appuntamenti narrativi, senza stare troppo attaccato al realismo della messa in scena”.
In effetti, la narrazione è attraversata da squarci di forte e accesa visionarietà, in buona parte derivanti dalle suggestioni del paesaggio nel quale ha girato.
“Tranne che per la sequenza dell’alluvione realizzata in un bacino idrico a Rieti, le riprese sono state effettuate quasi per intero in Lituania, in scenari naturali magnifici caratterizzati dal bianco assoluto della neve e del ghiaccio. Su quella base cromatica ho potuto giocare efficacemente, per esempio, col rosso del sangue e con i colori accesi dei simboli della cultura urca siberiana, l’etnia al centro della trama. Con l’ambiente circostante c’è stata una vera e propria sfida: ogni momento delle riprese, infatti, è stato influenzato anche fisicamente dal freddo pungente e dai mutamenti atmosferici, oltre che dalla particolarissima luce di quelle terre. E da tutto ciò deriva il mood del film”.
Un altro punto di forza di “Educazione siberiana” sono gli attori. E, accanto a veterani come John Malkovich e Peter Stormare, spiccano i due giovani esordienti lituani Arnas Fedaravicius e Vilius Tumalavicius. Come li ha trovati?
“Non è stato facile, anche perché cercavo interpreti che avessero in sé alcune caratteristiche interiori dei personaggi che avrebbero interpretato. Così, ho costruito su Arnas, che studia filosofia e si diletta col pugilato, il carattere di Kolima; e su Vilius, estroverso studente di canto lirico, quello di Gagarin. Assieme abbiamo trovato le giuste chiavi interpretative. Con un attore di grande esperienza come Malkovich, invece, abbiamo giocato una esaltante partita a tennis, rimpallandoci suggestioni e suggerimenti e arricchendo reciprocamente il suo bellissimo nonno Kuzja, il patriarca della comunità di “criminali onesti” siberiani narrata nel film”.
Senza indugiarvi più di tanto, infine, come è riuscito con pochi tocchi a restituire così bene il momento di passaggio epocale della caduta del muro di Berlino e del passaggio dall’Unione sovietica alla Russia?
“Il bello di questo tipo di film sta proprio nell’intreccio tra le storie private dei personaggi e la grande storia. Quando questo intreccio riesce, allora se ne giova l’intero dispositivo drammaturgico. In particolare, sono molto soddisfatto di quel momento che si apre con la parabola sulla dignità del lupo, passa per il crollo del muro e culmina nella sequenza della giostra-astronave, che con i suoi colori rompe la monotonia del ghiaccio e con le note di “Absolute beginners” di David Bowie offre ai ragazzi un primo barlume di Occidente e di felicità pura ma fugace poco prima di affacciarli da debuttanti assoluti, come nella canzone, sulla scena di un nuovo mondo che li attende”.

mercoledì 16 gennaio 2013

ADDIO A NAGISA OSHIMA, MAESTRO DEL CINEMA TRA EROS E THANATOS

Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 16 gennaio 2013)

Il grande regista giapponese Nagisa Oshima, scomparso ieri a 80 anni per una polmonite dopo anni di malattia e di silenzio desolato, è tra i più fraintesi maestri della settima arte, a causa di un particolare titolo della sua densa filmografia, lo scandaloso «Ecco l’impero dei sensi», che a metà anni ‘70 lo catapulta sulla ribalta in Occidente, facendolo bollare, in molti Paesi tra i quali l’Italia (che però lo aveva scoperto nel 1971 con una retrospettiva a Pesaro), con lo sgradevole epiteto di «pornografo».
E, invece, quel film del 1975 – che, peraltro, proprio nei cinema italiani esce particolarmente massacrato dalla censura – descrive in realtà la progressiva separazione tra individuo e contesto sociale, resa dolorosamente fisica attraverso la messa in scena esplicita del binomio eros-thanatos, amore e morte, andando a comporre l’ennesimo capitolo dell’indagine, quasi entomologica, tra le pieghe della società giapponese, portata avanti dall’autore fin dagli esordi nel 1959.
La critica francese, che lo scopre per prima e lo accoglie come un maestro quando lui decide di trasferirsi a Parigi, lo celebra oggi come il Godard del Sol Levante. E, in effetti, il segno estetico e intellettuale della nouvelle vague francese è fortissimo in questo ragazzo ribelle, nato a Kyoto il 31 marzo 1932 e cresciuto dalla madre dopo la morte in guerra del padre.
I primi successi di Oshima risalgono al 1960, con «Il cimitero del sole» e, soprattutto, «Racconto crudele della giovinezza», titolo seminale e manifesto del nuovo cinema giapponese, al cui rinnovamento lo stesso autore originario di Kyoto contribuisce fondando il Gruppo dei Sette. Già da questi film emergono consapevolezza linguistica, soluzioni visive ardite e sperimentali, stile personale, che rendono più efficaci le incursioni nel corpo ancora sanguinante di una nazione in perenne trasformazione e rapidissimo quanto nevrotico sviluppo, dopo la sconfitta della Seconda guerra mondiale e il trauma della bomba atomica.
Discendente da una famiglia di samurai, laureato in legge e leader studentesco all’università, Nagisa Oshima non nasconde simpatie politiche di sinistra, tendenti all’anarchismo. Sempre nel 1960, «Notte e nebbia nel Giappone» s’interroga sugli errori strategici della sinistra nell’opporsi al trattato nippo-americano e, a causa del suo radicalismo, viene sequestrato portando l’autore a fondare una propria casa di produzione. Negli anni, Oshima resta comunque coerente con una posizione artistica che, al tempo stesso, è atto politico di intransigenza morale e di onestà intellettuale.
Detto del film-scandalo «Ecco l’impero dei sensi» – le cui riprese di sesso esplicito e masochismo sessuale sono talmente sconvolgenti da sconsigliarne il montaggio in patria, pena il sequestro e una condanna per oltraggio alla morale – e ricordato il dittico formato da «L’impiccagione» (1968) e «La cerimonia» (1971), nei quali distrugge i rituali della quotidianità familiare giapponese, nel 1978 il regista vince il premio per la regia a Cannes per «L’impero della passione», mentre cinque anni più tardi dirige David Bowie e Ryuichi Sakamoto in «Furyo», tra le più profonde e riuscite indagini sul rapporto prigioniero-carceriere, con implicazioni omosessuali e inversione dei ruoli. Con «Max mon amour» (1986) porta, quindi, un’icona come Charlotte Rampling tra le braccia di uno scimpanzé.
L’ultima sua grande regia è «Tabù – Gohatto», nel 1999, dopo diversi anni di reclusione per la malattia. E, ancora una volta, grazie a una storia di passione omosessuale tra samurai magistralmente interpretata da Takeshi Kitano, Oshima mette in scena l’eterno duello tra amore e morte, sesso e potere.

venerdì 4 gennaio 2013

INTERVISTA A FRANCO NERO: DJANGO IERI, OGGI E DOMANI

Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 4 gennaio 2013)

Sulla scia del clamore suscitato dall’uscita negli Stati Uniti di “Django unchained”, il nuovo film di Quentin Tarantino che riprende lo spaghetti-western del 1966 con Franco Nero, nelle prossime settimane questo classico cult movie diretto da Sergio Corbucci “uscirà nei cinema di ben 70 città americane”. A rivelarlo è proprio Nero, premiato nei giorni scorsi durante “Capri, Hollywood” e presente stasera a Roma all’anteprima di gala della pellicola dell’amico Tarantino, che in questa occasione riceverà da Ennio Morricone il premio alla carriera della settima edizione del Festival internazionale del film diretto da Marco Muller.
Franco Nero in "Django Unchained" di Quentin Tarantino
Assieme al regista americano saranno presenti alla proiezione anche gli attori Jamie Foxx e Christoph Waltz, che nel corso della serata incontreranno alcune star italiane dell’epoca d’oro dello spaghetti-western: Giuliano Gemma, Gianni Garko, Bud Spencer, Enzo G. Castellari, Giulio Questi, Sergio Donati, Alberto De Martino, Rosalba Neri, Lucio Rosato, Ruggero Deodato, Lars Bloch, Franco Giraldi, Ursula Andress, Sergio Martino, Ernesto Gastaldi, Nori Corbucci e, naturalmente, lo stesso Franco Nero, che oltre a essere stato il protagonista del “Django” originale è presente con un cameo anche nel nuovo “Django unchained”. “Quentin è un esperto del cinema di genere italiano – racconta Nero – e mi ha fortemente voluto sul set durante le riprese del suo film, trattenendomi con ogni scusa anche ben oltre il tempo necessario per girare la mia piccola scena. Lui ama davvero il western di Corbucci, lo conosce a memoria e ha costretto tutti a riguardarlo più volte, tenendo spesso in sottofondo sul set la colonna sonora del 1966”.
Dopo l’anteprima romana, “Django unchained” uscirà nelle sale italiane il 17 gennaio, distribuito da Warner Bros. Pictures Italia (come da accordo con Sony Pictures). “Sono davvero orgoglioso di avervi partecipato”, aggiunge Franco Nero, che poi interviene sulle accuse di razzismo rivolte a Tarantino, qualche giorno fa, dal regista afroamericano Spike Lee: “Non sono d’accordo, perché per me Quentin ha voluto fare un film politico, nel quale sono sottolineate le condizioni degli schiavi neri nell’America della Frontiera. Anche l’uso ripetuto del termine “nigger” si rifà fedelmente a quanto avveniva all’epoca”.
Certo è che, tra il 1966 e il 2013, il personaggio di Django ha accompagnato l’attore italiano per tutta la carriera. “Direi che mi ha addirittura perseguitato, perché – scherza Nero – all’epoca era diventato il nome col quale mi registravano negli alberghi di tutto il mondo. Peccato, però, che oggi in Italia non si facciano più quei film, perché erano la vera linfa dell’industria cinematografica. Noi producevamo 400 pellicole all’anno e i produttori che guadagnavano con i film più commerciali poi reinvestivano quei soldi su progetti più artistici. Oggi, invece, i produttori sono burocrati di Rai o Mediaset e i veri artisti sono castrati. Per questo, rispetto all’epoca d’oro – conclude l’attore – dico che oggi il cinema italiano ha la febbre alta, sta male. Basti pensare a quanto si sia ridotto il numero degli schermi, da 13.000 a circa 3.700; o a come sono quasi sparite le coproduzioni, che invece negli anni Sessanta e Settanta erano state così importanti per l’industria cinematografica italiana”.
Intanto, prendono sempre più sostanza le voci che vorrebbero Franco Nero tornare a vestire i panni del pistolero Django in un nuovo film, “Django lives!”, che potrebbe essere girato già quest’anno, nello Utah, prodotto da Eric Zaldivar e Mike Malloy con la regia di Michael A. Martinez.