martedì 28 ottobre 2014

LA MARVEL FA CENTRO CON I SUOI "GUARDIANI" POP

Di Diego Del Pozzo
(Mega n.° 209 - Novembre 2014)

Il cinecomic più atteso della stagione è certamente Guardiani della galassia, campione d’incassi assoluto dell’estate americana (finora, nei soli Stati Uniti ha raggranellato quasi 330 milioni di dollari), partito col botto anche in Italia e dominatore al box office globale con un incasso totale, nel momento in cui scrivo, superiore ai 735 milioni di dollari.
Al di là dei numeri al botteghino, però, va detto che quello diretto dal talentuoso James Gunn, che lo ha anche sceneggiato assieme a Nicole Perlman, è davvero un filmone: un finto kolossal del 2014 che, in realtà, vive dell’estetica pop anni Settanta e Ottanta. Gunn, infatti, fa un lavoro egregio sull’immaginario e sul decòr di quel periodo storico, mixando assieme l’irriverenza lisergica dei comics marvelliani dei Seventies (quelli scritti da “fuori di testa” come Steve Englehart e Steve Gerber, per capirci) con quel “Troma touch” politicamente scorretto e un po’ toxic appreso alla scuola di Lloyd Kaufman, patròn della casa di produzione resa celebre da “capolavori” fanta-trash-exploitation come Tromeo and Juliet o Toxic Avenger, dove un allora giovanissimo Gunn mosse i suoi primi passi nell’industria del cinema a stelle e strisce.
E il regista di Guardiani della galassia sceglie la strada più difficile e coraggiosa per una trasposizione Marvel, rifacendosi, dal punto di vista concettuale e progettuale, alle proprie origini “artigianali” e confezionando un kolossal da 170 milioni di dollari quasi come se fosse un b-movie a low budget, tra l’altro giovandosi anche di una pressoché assoluta libertà creativa nell’approccio ai personaggi e al loro universo di riferimento, con pochissimi interventi da parte del supervisore del Marvel Cinematic Universe, Joss Whedon, soltanto per motivi di continuity. Dal punto di vista visivo, innanzitutto, James Gunn privilegia uno stile lontano anni luce da quello asettico che oggi va per la maggiore a Hollywood, andando oltre la fotografia piatta e quasi metallica della maggior parte dei cinecomics contemporanei e riempiendo, invece, le inquadrature del suo film con ombre, chiaroscuri e impasti di colori da tavolozza artigianale di una volta, quasi come se volesse dirigere una sorta di Star Wars in versione Corman o Hammer. L’insistito ricorso all'iconografia anni Settanta e Ottanta – a partire dal walkman che apre il film e che funge da manifesto programmatico – rende il tutto ancora più affascinante e inclassificabile, almeno secondo le logiche iper-industriali che guidano operazioni come Avengers o i tre Iron Man.
Coerentemente con la sua visione, poi, Gunn costruisce una serie di personaggi “difettati”, emarginati, insicuri – sia i presunti “eroi” che i villains – e più umani dell’umano, assemblando così una “sporca cinquina” di protagonisti – Star-Lord, Gamora, Rocket, Groot e Drax – degna di un western crepuscolare ambientato in una galassia lontana lontana. Come efficaci collanti del racconto, inoltre, il regista sceglie un’ironia mai fine a se stessa (pur infarcita di gustosissime citazioni, prima tra tutte quella irresistibile di Footloose) e un’entusiasmante colonna sonora, assemblata con gusto e utilizzata come indispensabile elemento narrativo, forte delle musiche originali di Tyler Bates (300) ma, soprattutto, di una sequenza di hit strepitose che alterna Moonage Daydream di David Bowie a Fooled Around and Fell in Love di Elvin Bishop, da Come and Get Your Love dei Redbone a Cherry Bomb delle Runaways e tante altre ancora.
La trama è poco più di un pretesto. L’audace esploratore-fuorilegge Peter Quill “Star-Lord” (Chris Pratt), dopo aver rubato una misteriosa sfera per rivenderla al mercato nero, si trova coinvolto nelle macchinazioni galattiche del malvagio e ambiziosissimo Ronan l’Accusatore (Lee Pace) che, d’accordo col titano folle Thanos (Josh Brolin, non accreditato) e aiutato dalla feroce Nebula (Karen Gillan), minaccia l’esistenza dell’intero universo. Così, per sfuggire a Ronan, Quill è costretto a una scomoda alleanza con quattro improbabili personaggi: Rocket, un procione geneticamente modificato armato fino ai denti (in originale ha la voce di Bradley Cooper); Groot, un potente albero umanoide (che ha la voce di Vin Diesel, sempre nella versione originale); la letale ed enigmatica Gamora (Zoe Saldana); il vendicativo e non molto sveglio Drax il Distruttore (Dave Bautista). Pian piano i cinque diventano amici e, compreso il vero potere della sfera e la minaccia che essa rappresenta per il cosmo, decidono di combattere fino alla morte, al fianco dei Ravagers capeggiati da Yondu Udonta (Michael Rooker) e dei Nova Corps guidati da Nova Prime (Glenn Close), per provare a salvare il destino della galassia.
Il tocco di classe arriva nell’attesissima sequenza dopo i titoli di coda (ormai una tradizione di questo genere cinematografico), quando Gunn concede agli appassionati una sorpresona nostalgica, con l’apparizione, accanto al Collezionista (Benicio Del Toro) già presente durante il film, di un personaggio “mitico” che, a proposito di anni Settanta e Ottanta, funge da “firma” ideale dell’intera operazione e, con una strizzatina d'occhio ai fans più duri e puri, direi che ne racchiude lo spirito più autentico.
Proprio Guardiani della galassia, allora, può essere considerato come il miglior film realizzato finora dai Marvel Studios, oltre che come un lavoro capace, grazie al coraggio narrativo e al talento puramente cinematografico di James Gunn, di tracciare un sentiero affascinante da seguire per provare a dare una risposta convincente e originale alla standardizzazione plasticosa e roboante dei fanta-kolossal del Terzo millennio alla Michael Bay o J.J. Abrams.

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