venerdì 1 ottobre 2010

ARTHUR PENN: UNA LUNGA INTERVISTA PER RICORDARLO

Di Diego Del Pozzo

Martedì notte il cuore di Arthur Penn ha smesso di battere. Aveva compiuto 88 anni appena un giorno prima (era nato il 27 settembre 1922 a Philadelphia). Regista di pellicole celeberrime e seminali per il cinema a venire, come Anna dei miracoli (1962), La caccia (1966), Gangster Story (1967), Piccolo grande uomo (1970), Penn è stato il più europeo tra i cineasti hollywoodiani classici per come ha saputo riflettere criticamente sul concetto di messa in scena già negli anni Sessanta, per la maniera non ideologica nella quale s'è confrontato con i generi praticati, per la sensibilità con la quale ha affrontato temi quali violenza, sesso, morte, solitudine. Nel corso della carriera, ha saputo relazionarsi come pochi altri registi americani con le logiche degli Studios di Hollywood, adattandosi apparentemente alle loro leggi, in modo da sfruttarne le potenzialità espressive, ma al tempo stesso mettendone in crisi le convenzioni estetiche e narrative, facendole letteralmente esplodere dall'interno. I "germi" rivoluzionari nel "corpo" del cinema classico hollywoodiano Penn li ha, però, inseriti avvalendosi regolarmente di divi tra i più popolari dell'epoca, a simboleggiare la doppia anima del suo cinema: "di ricerca" ma, al tempo stesso, rivolto al più vasto pubblico possibile.
Quella che segue è un'intervista che ho realizzato per la rivista specializzata Cinemasessanta nel 1999, in occasione di una retrospettiva che venne dedicata ad Arthur Penn dalla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro. La ripropongo qui su Off-Topic per ricordare questo grande cineasta attraverso le sue stesse parole...
[...] Come si svolgeva il lavoro con divi come Paul Newman, Dustin Hoffman, Warren Beatty, Marlon Brando, Gene Hackman per lei che ha sempre puntato molto sulla recitazione, in ciascuno dei suoi film? Ad esempio, Newman si rendeva conto di ciò che stava facendo, durante la lavorazione di Billy Kid furia selvaggia?
"Non credo che Paul Newman comprendesse la misura esatta del suo personaggio. Pur non capendo le tecniche che volevo seguire, però, si confermò uomo intelligente e attore molto libero. Ma c'è da dire che anche io, all'epoca, non ero ben cosciente di ciò che sarebbe venuto fuori dal film; sapevo solo di voler fare un western insolito. Per Paul, poi, l'esperienza si rivelò fondamentale, anche perché tornava a lavorare per la Warner Bros. Ebbi più difficoltà con Warren Beatty per Mickey One, poiché lui non era assolutamente d'accordo col mio modo di concepire il film e ci mise parecchio tempo per entrare in sintonia con me. Solo diversi anni dopo ha capito fino in fondo il tipo di approccio che seguivo e mi ha detto di aver utilizzato alcuni elementi appresi allora per realizzare il suo Bulworth. Allo stesso modo, quando chiesi a Dustin Hoffman di partecipare a Piccolo grande uomo, lui mi disse di no. Solo in un secondo momento, compresi fino in fondo la profonda ironia del suo personaggio e il tocco di umorismo del film, decise di accettare il ruolo".
Lei ha anche diretto per anni l'Actor's Studio e, nei suoi film, ha sempre dato molta importanza alla direzione degli attori. Come lavora con loro sul set?
"Sono sempre abbastanza tranquillo. Io rispetto molto gli attori e, con loro, s'instaura ogni volta un rapporto ottimo. Tecnicamente, improvviso molto prima dell'inizio delle riprese, con tante prove con gli interpreti. Quando giro, invece, voglio che vengano recitate esattamente le parole della sceneggiatura, così come, d'altra parte, faccio anche a teatro. Proprio dal teatro, ho ereditato un profondo rispetto per gli autori dei testi. Ogni attore, però, cala nel copione le proprie esperienze e la propria interiorità. Ricordo che, una volta, Lillian Hellman assisté alle prove di una mia pièce teatrale tratta da un suo script e si arrabbiò moltissimo perché non vi ritrovava il suo testo. Io la tranquillizzai e, infatti, quando andammo in scena ci fece i complimenti per la fedeltà con la quale gli attori erano andati in profondità nel recitare le battute che lei aveva scritto. Secondo me, la tecnica di tutti i grandi attori deriva, ancora oggi, dal "Metodo Stanislavskji" che insegna a estrarre dalle proprie esperienze ciò che dovrà essere riversato sullo schermo o sul palcoscenico. A livello filosofico è simile a quanto teorizzava Grotowski, per il quale l'attore doveva "realizzarsi" prima dell'inizio della rappresentazione. Rispetto a Grotowski, però, l'approccio dell'Actor's Studio è più naturalistico".
Dalle sue parole emerge davvero un grande amore verso gli attori…
"Durante la lavorazione di un film, sul set c'è un autentico esercito di persone. In ogni caso, però, gli attori sono sempre al centro di tutto. Penso che noi, come registi, dobbiamo supportare il loro lavoro, proteggerli e metterli in condizione di spingersi sempre oltre e mostrare fino in fondo il loro coraggio: bisogna essere molto coraggiosi, infatti, per mettersi a nudo davanti alla macchina da presa. Gli attori ci trasmettono esperienze che, magari, noi abbiamo paura di provare di persona. Perciò dobbiamo comprendere questo loro atto di coraggio e riconoscere che, ogni volta, ci fanno un gran regalo".
Lei prima ha parlato di profondo rispetto per gli autori dei testi. Come lavora con i suoi sceneggiatori?
"Mi piace lavorare a stretto contatto con loro, soprattutto per dargli indicazioni su quali aspetti del film svilupperò soltanto attraverso le immagini e senza bisogno di nessuna parola. Il cinema, per me, è innanzitutto immagine, come nei film muti che, per questo, vanno considerati cinema allo stato puro".
Effettua molti ciak, per ogni sequenza?
"Di solito no. Faccio soltanto uno o due ciak per volta. Solo nel caso di Mickey One dovetti farne di più, perché stavamo avendo difficoltà con Warren Beatty. In ogni caso, non sono un regista alla Kubrick. Sono sempre stato abituato a girare poco più di ciò che mi poteva servire nel montaggio definitivo: questa lezione l'ho appresa lavorando per la televisione, dove i ritmi sono più concitati e non c'è tempo per rifinire troppo. Io me la sono sempre cavata bene, facendo uno storyboard molto dettagliato prima delle riprese vere e proprie".
Un filo conduttore dei suoi film è rappresentato dalla presenza di personaggi sempre dichiaratamente "contro". E' un tratto che appartiene anche a lei, nel suo rapporto con Hollywood…
"I personaggi dei miei film più importanti sono sempre stati contro il sistema dominante, muovendosi ai margini della società e dicendo no ai compromessi. Sono sicuro che anche oggi farebbero lo stesso e continuerebbero a dire no, così come ho sempre fatto e farò io. Hollywood, oggi, impedisce la crescita di registi dotati di carattere e consapevolezza, in modo da riuscire a controllarli senza fatica. In tal modo, il "final cut" su un film è affidato sempre più spesso ai dirigenti dei grandi Studios, manager che quasi sempre non capiscono nulla di cinema. La conseguenza di questa situazione è che registi dalla forte personalità sono sempre più spesso emarginati. Anch'io, nel corso della mia carriera, mi sono dovuto scontrare con i tentativi delle Majors di sottrarmi il "final cut" di un film e ne ho sempre sofferto molto. Nel caso di Billy Kid furia selvaggia il tono comico della vicenda fu attenuato in fase di montaggio, perché giudicato troppo spiazzante all'interno di un western. Anche per La caccia non ebbi la possibilità di supervisionare al montaggio definitivo. Il film mi piace comunque molto, anche se io gli avrei dato un ritmo diverso, dato che avevo diretto gli attori sul set e sapevo in che modo avevano interagito tra loro. Oggi è sempre più frequente che un regista non abbia il "final cut" di un suo film, ma io continuerò a battermi contro questo stato di cose".
Un altro malcostume della Hollywood odierna è la penuria di soggetti originali, con sempre più film classici che vengono "rifatti". Lei cosa ne pensa del remake diventato, ormai, moda?
"Io non accetterei assolutamente di cedere i diritti di un mio film per farne un remake, poiché non ne capisco il senso, mi sembra una cosa stupida. Perché rifare un'opera d'arte come quelle di Hitchcock? Sarebbe come voler rifare la Cappella Sistina: non ce n'è alcun bisogno, c'è già l'originale. Ogni artista deve saper creare cose nuove, inserite pienamente nel proprio tempo. Recentemente mi è capitato di leggere il seguito del romanzo da cui trassi Piccolo grande uomo, ma non è buono come l'originale. Se qualcuno ne farà un film, quello non sarò certo io".
A dominare i film "Made in Hollywood", oggi, sono soprattutto gli effetti speciali…
"Ad Hollywood, ormai, hanno deciso di poter realizzare film senza persone vere, ma con figure alla Jean Claude Van Damme che, non sapendo parlare né recitare, scompaiono di fronte ai sempre più mirabolanti effetti speciali. Questo tipo di film, infatti, si riesce a vendere più facilmente in tutto il mondo, rispetto a un altro con una storia che, magari, richiederebbe di essere persino capita. Penso che tutto ciò, però, passerà di moda, dato che gli esseri umani vogliono continuare a vedere in un film innanzitutto l'interiorità e i sentimenti di chi vi lavora, dal regista agli attori. Perciò, prima o poi, i manager degli Studios capiranno l'importanza di guardare alla vita umana. D'altra parte, l'umanità vive come sempre: attraversa questo mondo selvaggio per trovare una sua strada".
Non le piace molto il percorso compiuto da Hollywood in questi ultimi decenni…
"E' un peccato che sia il cinema che la televisione statunitensi si siano evoluti secondo le direttive del capitalismo più selvaggio. In passato, invece, il mondo non mi sembrava così impazzito per il denaro. In particolare, a fare le spese di questa situazione, è stata la televisione, distrutta in quanto linguaggio creativo e ridotta a puro commercio".
Ma c'è qualche regista americano di oggi che le piace?
"Seguo con molto piacere Jonathan Demme e John Sayles. Guardando i loro film ci si rende conto di come Hollywood stia seguendo una strada sbagliata. Demme soprattutto è uno che fa i "suoi" film e, secondo parecchi addetti ai lavori, può essere considerato un mio allievo".
Le sue liti con le Majors le hanno impedito di realizzare film ai quali teneva?
"Avrei voluto girare due film, in particolare: si tratta di Attica e The Last Cowboy. Il primo avrebbe mostrato il modo selvaggio nel quale fu repressa dalle autorità la rivolta che avvenne nella prigione di Attica; il secondo sarebbe stato incentrato sul mondo del business agroalimentare e su come si fosse impossessato dei territori del West, fino a far sparire la professione del cow-boy: una decina d'anni fa avrei voluto Paul Newman nel ruolo principale. Un'altra volta, invece, mi è capitato di essere sostituito sul set, grazie alla scorrettezza di Burt Lancaster. Con lui avrei dovuto girare Il treno, ma dopo avermi fatto mettere insieme il cast mi annunciò di avere un accordo con John Frankenheimer per la regia e mi mandò via. Ho avuto le scuse dell'amico Frankenheimer soltanto molti anni dopo".
Molti l'hanno accusata di fare film troppo violenti. Cosa ne pensa?
"Non penso che pellicole come La caccia o Gangster Story siano eccessivamente violente. Il problema è che la gente si comporta anche in modo violento. All'epoca, per esempio, eravamo nel mezzo della guerra in Vietnam: quella era vera violenza. La realizzazione della sequenza de La caccia nella quale Marlon Brando viene selvaggiamente picchiato fu una sua idea. Mi disse: "Evitiamo di fare la solita scena, come se fossi appena stato colpito. Velocizziamo le riprese". Così girammo a diciotto fotogrammi al secondo, anziché ventiquattro, ottenendo quell'effetto così scioccante. In Gangster Story, invece, alla fine della sceneggiatura c'era scritto solo che Bonnie e Clyde morivano in una sparatoria. Mi posi il problema di visualizzarla il più dettagliatamente possibile e, così facendo, feci letteralmente "volare" il film con i due protagonisti che entrarono nel mito".
Violenza fisica, ma anche psicologica. Basti pensare a film come Mickey One e Bersaglio di notte
"Mickey One è un film del 1965 che parla di come sia possibile riprendere il controllo sulla propria vita, nel momento in cui si viene coinvolti in eventi occulti e inspiegabili, scaturiti da un clima generale di sospetto. Noi, negli Stati Uniti, abbiamo avuto il maccartismo nel corso degli anni Cinquanta: fu un periodo orribile, paragonabile a ciò che in Europa è stato il fascismo, anche se con diverse sfumature. Nel film con Warren Beatty ho voluto trasmettere proprio questo clima. Anche se, poi, molti hanno sottolineato soprattutto i meriti linguistici di Mickey One, che avrebbe contribuito allo sgretolamento dei classici generi cinematografici. Bersaglio di notte, invece, risale al 1975, quando il Paese aveva già perduto la propria innocenza ed erano già stati assassinati, oltre a John Kennedy, anche suo fratello Bob e Martin Luther King. Eravamo tutti increduli e disorientati, non riuscivamo a capire cosa stesse accadendo. Io realizzai un poliziesco col protagonista alla ricerca della verità; ma cercai di rendere chiaro tutto attraverso le immagini, dato che le parole erano inutili per comunicare le sensazioni che provavamo allora". [...]
Come emerge da queste sue dichiarazioni, Arthur Penn è stato, oltre che un anticipatore del "nuovo cinema", anche uno tra i cineasti americani che meglio hanno saputo "spiegare" sul grande schermo il proprio Paese, con le sue crisi di crescita, i fallimenti e le profonde nevrosi.
Ciao ciao, grande Arthur, ci mancherai...

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