(Il Mattino - 5 dicembre 2010)
Ma, Pannone, come nasce il suo progetto dedicato al Vesuvio?
"E' un'idea che mi affascinava da tempo e che, tra l'altro, mi permetterà di tornare a lavorare nei miei luoghi d'origine. Sto ancora riflettendo sulla struttura da dare al film, ma spero di riuscire a restituire la complessità di un luogo come il Vesuvio, che secondo i vulcanologi è il più pericoloso d'Europa. Tutto ciò anche a causa della densità abitativa dell'intera area circostante".
Vi sarà, comunque, continuità di stile e struttura con i suoi precedenti lavori?
"Penso di sì, anche perché io ho un'idea ben precisa del documentario, che definisco "creativo" per come reinventa creativamente la realtà, nei confronti della quale deve porsi in maniera orizzontale, cioè ascoltarla senza rifarsi a tesi precostituite. Anche in futuro, poi, cercherò di non mettermi mai sulla difensiva dal punto di vista stilistico, ma di realizzare film che possano stare sul mercato e rivolgersi al più ampio pubblico possibile".
Tutto ciò, nonostante in Italia gli spazi per il documentario siano davvero pochi.
"Il problema, però, è anche di chi i documentari li fa, in particolare i giovani, che in assenza di mezzi si abituano ad accontentarsi e a pensare in piccolo, rischiando così l'autismo espressivo. Per me, invece, il documentario continua a offrire maggiore libertà rispetto al cinema di fiction, anche in una situazione drammatica come quella attuale, dove è diventato difficile mettere assieme persino budget di 200mila euro".
Dopo il clamore suscitato lo scorso anno con Il sol dell'avvenire, dedicato alla nascita delle Brigate rosse, con Ma che storia… lei racconta i primi 150 anni dell'Italia unita. Come ha affrontato una materia tanto vasta e complessa?
"Con l'ausilio dei tesori visivi, in buona parte misconosciuti, conservati nell'Archivio Luce, un autentico scrigno di gemme preziose. Così, attraverso l'utilizzo di migliaia di spezzoni di cinegiornali e documentari, ho provato a confrontarmi con l'idea che gli italiani hanno della propria storia, in modo non consolatorio né vittimistico, dalla presa di Roma al terremoto dell'Irpinia, dall'epoca dei briganti a quella degli emigranti, dal fascismo al boom economico. E ho fatto interagire le immagini con una serie di brani letterari sull'identità italiana, letti da Ugo Gregoretti, Leo Gullotta, Roberto Citran e Roberto De Francesco".
Un ruolo fondamentale, però, lo ha la colonna sonora, assemblata dall'etnomusicologo Ambrogio Sparagna.
"E difficilmente sarei arrivato a questo film, se non avessi conosciuto, grazie a un prezioso complice come Ambrogio, il patrimonio musicale di tradizione orale del Paese. Sparagna, infatti, ha selezionato canti popolari, stornelli più o meno ironici, grida di dolore della povera gente, canti dei briganti, ma anche contributi di autori come Viviani, rendendo in qualche modo Ma che storia… anche un film musicale. E proprio in questo patrimonio, prevalentemente orale, ho individuato gli anticorpi veri del popolo italiano".
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