giovedì 11 settembre 2014

IL NUOVO ALBUM DEGLI U2, PENALIZZATO DAL GIGANTISMO APPLE?

Di Diego Del Pozzo

Chiariamoci subito, a scanso di equivoci: se non fosse stato il nuovo album degli U2 – una band che, da almeno 20 anni a questa parte, ha fatto del gigantismo il suo marchio di fabbrica – e non fosse stato distribuito gratis dalla Apple su 500 milioni di dispositivi mobili contemporaneamente (Tim Cook, l’ad del colosso di Cupertino, lo ha definito “il più grande lancio di un disco di tutti i tempi”), “Songs of Innocence” sarebbe certamente stato accolto e valutato in maniera meno astiosa.
E, invece, l’immagine attuale della band (ex-punk-venduti-al-mercato-e-al-demone-del-capitalismo), ma soprattutto la sensazionalistica (e, obiettivamente, epocale) modalità scelta per la prima diffusione (la seconda, a pagamento e su supporti “tradizionali”, arriverà dal 13 ottobre) rischia di schiacciare completamente quello che, invece, è tutto sommato un buon album pop-rock, con alcune discrete intuizioni, una manciata di canzoni orecchiabili e testi un po’ più ispirati e personali rispetto ai lavori più recenti.
Certo, la paraculaggine di Bono emerge in più di un passaggio proprio nei succitati testi, così come l’aspetto puramente musicale rischia a ogni fraseggio di cadere nell’autoreferenzialità spinta, con gli U2 che citano gli U2 che citano gli U2...
Il problema vero, però, è sempre lo stesso: il punto di partenza di chi ascolta. Nell’anno di grazia 2014, infatti, non si può chiedere di fare la rivoluzione a chi già ne ha fatta una. E gli U2 oggi sono questi: una band pop-rock dalla scrittura solida e sicura, dotata di ovvio mestiere, magari autoreferenziale e malata di gigantismo, ma capace ancora di scrivere melodie decisamente orecchiabili (e nel nuovo album ce ne sono parecchie) e, in definitiva, di fare musica commerciale di buona qualità. Tocca ad altri, oggi, fare le rivoluzioni, non certamente a loro!
Se fosse applicato ad altri artisti, il criterio dell’immediata riconoscibilità della voce di Bono o delle chitarre di The Edge sarebbe considerato come un fattore positivo, o addirittura un valore aggiunto, mentre per gli U2 diventa un vincolo o un limite espressivo: eppure, piaccia o no, è proprio in questi due elementi che, storicamente, risiede l’identità più vera e profonda della band. Tra l’altro, in “Songs of Innocence” la produzione di Danger Mouse (coadiuvato anche da Paul Epworth, Ryan Tedder, Declan Gaffney e Flood) asciuga parecchio proprio gli eccessi di magniloquenza degli U2 più recenti, rimandando – in maniera più o meno convincente, più o meno sincera – direttamente alle sonorità post-punk anni Ottanta nelle quali la band esplose. Poi, certo, la ripetizione a iosa di determinate formule sonore (dai coretti agli intrecci ritmici ai riff di chitarra intrecciati con l’elettronica) non giova alla freschezza dell’insieme, ma liquidare il risultato come semplicemente “brutto” mi pare ingeneroso. Anche perché brani come la discussa “The Miracle (of Joey Ramone)”, “Volcano”, “Raised by Wolves” un loro “tiro” indubbiamente lo possiedono. Mentre altri come le ispirate “Iris (Hold me Close)” o “Cedarwood Road” – che pescano a piene mani nella biografia del giovane Bono – potrebbero tranquillamente essere incluse in qualche album dell’epoca d’oro, magari non in primissimo piano, ma senza troppo sfigurare.
Nel complesso, dunque, mi sento di poter dire, in tutta coscienza, che “Songs of Innocence” non sia proprio la ciofeca che in tanti vogliono far credere e che, anzi, probabilmente rispetto al precedente album, il davvero deludente “No Line on the Horizon”, rappresenti persino un passo in avanti lungo la parabola artistica (comunque discendente) degli U2. 
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martedì 9 settembre 2014

IN RICORDO DI ROMOLO RUNCINI (CON UN SUO TESTO)

Di Diego Del Pozzo

Romolo Runcini, scomparso oggi a 89 anni nella sua casa romana, è stato un autentico luminare della Sociologia della letteratura – insegnata alla Sapienza di Roma ma, soprattutto, per ben 25 anni (dal 1972 al 1997), all’Orientale di Napoli – nonché uno tra i massimi esperti internazionali nello studio del Fantastico letterario (e non solo). Ma, prim’ancora, per chi come me ha avuto la fortuna di conoscerlo e frequentarlo, è stato un Maestro inimitabile e un esempio raro di amicizia capace di andare al di là (molto al di là) delle evidenti differenze generazionali.
Romolo Runcini con i suoi giocattoli
L’ho sentito tante volte parlare in pubblico dei suoi oggetti di studio, ma mi resta il cruccio di non aver mai assistito a una sua lezione universitaria all’Orientale, io che – iscritto alla Facoltà di Scienze politiche – già ero stato fortunato a farmi inserire nel piano di studio una biennalizzazione di Storia del Cinema (poi diventata una triennalizzazione “ufficiosa”) e, addirittura, a ottenere da un altro grande professore come Paolo Frascani (all’epoca preside di Facoltà) la dispensa per laurearmi proprio in Storia del Cinema, nonostante questo non fosse un insegnamento appartenente a Scienze politiche. Runcini – anzi, Romolo, come mi disse di chiamarlo quando iniziammo a conoscerci meglio – l’ho dunque conosciuto di persona (la sua fama lo precedeva) addirittura da neolaureato, quando lo contattai per non mi ricordo quale progetto dedicato proprio al suo genere prediletto: il Fantastico.
Fu soltanto allora che mi trovai immerso, per la prima volta, nel suo antro delle meraviglie, cioè la stanzetta nella quale riceveva i suoi studenti, piena zeppa di libri ma, soprattutto, di giocattoli a molla, miniature, pupazzetti, trenini, spesso antichi, sempre curiosi e originali. La prima cosa che mi colpì, in lui, fu l’ingenuità quasi fanciullesca, che gli faceva affrontare qualsiasi argomento con la freschezza della prima volta, anche se magari su quello stesso tema aveva scritto, negli anni, importanti saggi ripresi in mezzo mondo. E poi l’entusiasmo per i mille progetti e iniziative che si agitavano nella sua mente vulcanica, primo tra tutti il purtroppo mai realizzato, per la colpevole miopìa delle amministrazioni locali, Centro internazionale di studi sul Fantastico, motivo del suo “mitico” trasloco da Roma a Procida, il 10 luglio 1998, con la moglie Giuliana (bellissima donna e sorella dell’attrice Carla Gravina), i suoi ventiduemila libri (poi diventati, negli ultimi anni, oltre trentamila), centinaia di giocattoli e quattro gatti, il tutto trasportato sull’isola a bordo di alcuni tir stracolmi di cultura che misero a soqquadro le viuzze procidane e i suoi divertiti e incuriositi abitanti.
Lì, su un’isola amata e frequentata fin dalla gioventù, Romolo andò ad abitare nel seicentesco Palazzo Ferrajoli, dalla cui terrazza si può godere di una vista mozzafiato a 360 gradi sull’isola e sull’intero golfo di Napoli. Ben presto, lo trasformò in una casa-biblioteca, interamente tappezzata di libri, in attesa – purtroppo rivelatasi vana – che l’amministrazione comunale di Procida desse concreto seguito alla delibera n.° 855 del 27 ottobre 1997 dedicata proprio al varo del “Centro internazionale Studi e manifestazioni del Fantastico”. Mentre il progetto languiva, comunque, Romolo non stava con le mani in mano: assieme all’associazione culturale Progetto Renovatio, per esempio, si occupò del recupero e della sistemazione di migliaia di libri appartenenti all’abbazia di San Michele; inoltre promosse e realizzò un importante convegno internazionale, intitolato “Orizzonti del Fantastico alle soglie del Terzo millennio”, coinvolgendo due Università campane e due romane e ottenendo in pochi mesi i patrocini del presidente della Repubblica, della Presidenza del Consiglio dei ministri e del Ministero per i Beni e le attività culturali. Nel 2009, però, di fronte al definitivo naufragio del suo progetto culturale procidano, dopo oltre dieci anni, l’ormai anziano professore abbandonò con amarezza l’isola da lui comunque ancora tanto amata, per tornare a Roma.
Romolo Runcini ha anche lavorato per la Rai dal 1956 al 1980 (vi entrò col primo, mitico concorso del 1954: quello degli Umberto Eco, Angelo Guglielmi, Furio Colombo, Gianni Vattimo) e ha lasciato agli studiosi del Fantastico almeno una manciata di libri fondamentali, come per esempio “Illusione e paura nel mondo borghese da Dickens a Orwell” (Laterza, 1968), “I cavalieri della paura” (Pellegrini, 1989), i tre tomi de “La paura e l’immaginario sociale nella letteratura” per Liguori (“Il Gothic Romance” nel 1995, “Il Roman du Crime” nel 2002 e "Il romanzo industriale" nel 2012) e "Abissi del reale. Per un'estetica dell'eccentrico" (Solfanelli, 2012).
Negli ultimi anni, dopo la sua partenza da Procida, con Romolo ci eravamo un po' persi di vista, ma la notizia della sua scomparsa mi ha fatto capire quanto di lui, in realtà, mi fosse ancora rimasto dentro. Qui di seguito, dunque, voglio riproporre un breve saggio che nel 1998 ebbi l’onore di compilare a sua firma, per la rivista specializzata “Quaderni di cinema”, raccogliendo su carta gli esiti di una nostra chiacchierata, integrata da un suo fogliettino di indicazioni e appunti scritti a mano. Sono particolarmente affezionato a questa che lui stesso volle intitolare “Noterella”, perché quando Romolo la lesse mi onorò oltre misura, dicendomi che gli sembrava scritta direttamente da lui. Ma, soprattutto, vi sono affezionato perché da quel momento diventammo davvero amici.
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NOTERELLA SUL FANTASTICO E L’ORRORIFICO TRA CINEMA E LETTERATURA
Di Romolo Runcini
(Da “Quaderni di cinema” n.° 58/59, aprile/settembre 1998)
La Paura e l’Irrazionale hanno subìto, nel corso del Novecento, una completa ridefinizione di senso, assumendo nuove “sembianze”, grazie soprattutto all’avvento del Cinematografo. Oggi, alla fine del millennio, il Fantastico e l’Orrorifico sono arrivati a costituire addirittura una sorta di “specifico” cinematografico.
E’ pur vero, tuttavia, che l’attrazione/repulsione per l’ignoto ha da sempre affascinato gli esseri umani, che – ben prima della nascita del mezzo/cinema – hanno evocato e mostrato, attraverso l’espressione artistica, le pulsioni più oscure e irrazionali del loro animo.
Prima del cinema, ad esempio, nasce in Inghilterra il gothic romance, nella seconda metà del Settecento. La prima opera letteraria ascrivibile a tale filone è “Il castello di Otranto”, scritto da Horace Walpole nel 1764. Il romanzo di Walpole contiene tutti gli elementi tipici del “gotico inglese”, a partire dall’ambientazione quasi sempre mediterranea – si vedano poi i molti temi “italiani” di Ann Radcliffe – e tratteggiata secondo i cliché di un Medioevo piuttosto “alla moda”. E’ significativo, infatti, che molti dei romanzi fantastici inglesi del periodo fossero ambientati in Italia, in Spagna, in Portogallo, ossia nell’area strettamente cattolica del sud Europa: contro il paganesimo dei rituali papisti, ma subendone il fascino, per i razionali protestanti britannici i nostri più suggestivi lidi incarnano per così dire il Pittoresco e l’Irrazionale.
Lo shock della paura, tipico del gothic romance, è prodotto dal vuoto nell’immaginario collettivo, dovuto alla fine dei riferimenti precisi d’un tempo: per i contadini è il distacco dal tradizionale mondo patriarcale della campagna, per i borghesi è l’impatto con la calata di questi in città, il fenomeno di massa dell’urbanesimo. Gli artifici letterari del romanzo gotico, con le sue ansie e paure irrazionalistiche, rispondono perfettamente, in definitiva, alla crisi che, nel corso del Settecento, colpisce le certezze di un modello di vita immutato da millenni, a causa del prodigioso e terribile avvento della Rivoluzione industriale. “Dal mondo del pressappoco – come dice Alexandre Koyrè – si passa all’universo della precisione”. I contadini, costretti ad abbandonare le campagne, in seguito all’usurpazione di aree boschive e pastorizie demaniali, da parte della nobiltà di contea, arrivano nelle grandi città e s’impiegano nelle nuove attività industriali: prima nel tessile, poi nella lavorazione dei metalli, infine nel “vapore”. Questo nuovo mondo sconvolge il sistema di vita millenario delle persone di ogni paese, provocando forte spaesamento e, conseguentemente, sfiducia nella Ragione e nella Tecnica. E’ indicativo che un altro modo di esprimere l’Irrazionalismo nel gothic romance si manifesti attraverso la descrizione di automi e bambole meccaniche, manufatti tecnologici che, spesso, si ribellano al proprio padrone.
Già nel Rinascimento, comunque, la Ragione è messa in crisi, ad esempio, attraverso i grandi affreschi di Bosch e Bruegel, in cui affiorano, però, paure soprattutto di carattere teologico; oppure in opere letterarie come “L’elogio della follia” di Erasmo da Rotterdam.
Il Fantastico è, per sua stessa definizione, attraversamento della soglia che separa reale e irreale; esso è sempre fondato sul confronto con l’altro da sé, sia che provenga effettivamente dall’esterno sia che si trovi nei più oscuri recessi dell’animo umano. Il definitivo passaggio dall’orrore esterno a quello interiore avviene, in letteratura, con le inquietanti opere brevi di Edgar Allan Poe. Un secolo dopo, un altro grande visionario, che sarà molto “saccheggiato” dal cinema, descrive nei propri racconti un tipo di orrore spaziale, che non si trova né dentro né fuori dall’uomo, ma – attraverso il pantheon dei suoi “Grandi Antichi” – rappresenta l’Indefinito, il Minaccioso, sempre pronto a squarciare il tessuto stesso della realtà conosciuta per farvi irruzione e condurre gli uomini alla follia.
Nel 1895 avviene, a Parigi, la prima proiezione cinematografica realizzata dai fratelli Lumiére. Fin dalla nascita, il cinema si propone come luogo, prima che come nuovo mezzo di comunicazione: un luogo – la sala buia (allora c’era il tendone) – adattissimo a far emergere le inquietudini nascoste e le paure ancestrali degli spettatori per farli uscire, anche realisticamente, dalla realtà quotidiana, almeno per la durata della proiezione.
Già una delle prime, celebri, brevi realizzazioni filmiche – l’arrivo del treno nella stazione – diventa motivo di terrore per gli sprovveduti fruitori del momento. Lo shock provocato da quell’immagine è molto forte e, soprattutto, immediato. Proprio questa è una delle caratteristiche fondamentali della Paura al cinema: l’immediatezza della propria percezione. Infatti, mentre nel libro il lettore è occupato a percorrere lentamente una frase, costruendo “l’immagine” perturbante un poco alla volta; al cinema, invece, l’immagine proiettata è già di per sé una totalità e, quindi, colpisce subito la percezione sensoriale dello spettatore. Il rapporto tra letteratura e cinema, quindi, equivale a quello tra “distacco” – presunto o effettivo – e shock momentaneo e immediato.
Tecnicamente poi, quando in un film – soprattutto nel cinema “classico” – si vuole mostrare l’orrore, la macchina da presa va in primissimo piano sui volti terrorizzati degli attori, invece di inquadrare il motivo della loro paura (anche questa sarà una delle rivoluzioni concettuali del cinema splatter: lo spiattellamento dell’orrorifico in faccia allo spettatore). In letteratura, di norma, si descrive lentamente, e spesso nei dettagli, il motivo della paura. Nello specifico cinematografico, invece, si può sfocare un’immagine per comunicare sensazioni di ambiguità, oppure attraverso il montaggio, i flashback e le sovrapposizioni si può impedire allo spettatore di distinguere chiaramente tra reale e irreale.
Le situazioni di tensione, sia al cinema che in letteratura, si ripetono all’infinito, secondo schemi e percorsi prefissati. Normalmente, la paura va vista come una salita (tensione montante) e una discesa (con cui si scaricano le pulsioni); il punto più elevato del percorso coincide con lo shock capace addirittura di paralizzare l’apparato psicomotorio del fruitore. Esistono due tipi di paura: una – di tipo difensivo – che è comune a tutti gli esseri viventi e fa affrontare con fermezza oppure sfuggire il pericolo reale incombente; un’altra – tipicamente umana – fondata sull’immaginazione nevrotica e febbricitante, che, addirittura, paralizza i centri nervosi bloccando l’individuo nell’immobilità. Ann Radcliffe, in un suo bel saggio, distingue nettamente “Terrore” e “Orrore”: il primo spinge a fuggire dalla minaccia del pericolo, mentre il secondo vi resta impigliato, come sospeso, nella soglia fra reale e irreale. Se si passa invece nell’irreale, nel mondo dell’allegoria e della fantasia totale si finisce per entrare nell’ambito del “Meraviglioso”, completamente rassicurante perché svincolato dalla realtà. La vera Paura, dunque, immobilizza, blocca, ferma, come in alcuni splendidi racconti di Hoffmann, di Balzac, James, Nerval, Maupassant. Il suo effetto paralizzante sul fruitore – lettore o spettatore che sia – simile, nel caso di un libro come della visione di un film.
Anche il cinema fantastico italiano dei decenni Sessanta-Settanta ha subìto fortemente l’influenza della letteratura gotica inglese sette-ottocentesca, pur in un contesto di rappresentazione popolare, legata ai cliché propri dei nostri generi cinematografici. Registi come Mario Bava – ma anche il Riccardo Freda del primo horror italiano, “I vampiri” (1956) – mostrano tutte le loro ascendenze letterarie, nell’essenza e nelle atmosfere della messa in scena filmica, ancora più che nel semplice trasporre la storia di un romanzo sul grande schermo. Il gotico letterario inglese, tuttavia, arriva ai registi del cinema popolare italiano attraverso la mediazione inevitabile delle pellicole horror e fantastiche della britannica Hammer Film, che dalla seconda metà degli anni Cinquanta spopolava nei cinema di tutto il mondo con le sue versioni neo-barocche e fiammeggianti dei classici Dracula e Frankenstein.
Mario Bava è senz’altro l’autore più autenticamente originale e visivamente dotato del nostro cinema fantastico, con i suoi film colti e popolari in eguale misura. E’ uno dei poeti del Fantastico all’italiana, con l’enorme capacità di tenere la suspence sempre all’acme. Per i soggetti delle proprie pellicole, si è spesso rifatto a opere letterarie, a partire da quello che può essere considerato il suo capolavoro, “La maschera del demonio” (1960), liberamente tratto dal racconto “Il Vji” di Gogol. Anche l’altra pietra miliare della sua produzione fantastico-orrorifica, cioè il metacinematografico “I tre volti della paura” (1963), si compone di tre episodi tratti da altrettanti suggestivi racconti di Maupassant, Tolstoj e Cechov. Bava, però, piega sempre lo spunto letterario di partenza alla sua creatività eminentemente visiva, spesso stravolgendolo nella trama, ma restandovi fedele nelle atmosfere inquietanti, anche grazie alla propria enorme abilità tecnica. Un altro film di Bava padre, “Terrore nello spazio” (1965), deve essere considerato addirittura il diretto predecessore di una pellicola seminale per tutto il cinema horror contemporaneo, come l’“Alien” diretto da Ridley Scott nel 1979.
Perché oggi in Italia non si fanno più film come quelli di Mario Bava? E come mai i capolavori di questo grande regista, tanto lodato all’estero quanto ignorato nel nostro paese, continuano a restare inediti in videocassetta e non vengono restaurati in pellicola?
Sembra che il cinema “di paura” italiano sia ridotto all’unico e solo Dario Argento, grande autore, di cui però – secondo me – il primo film resta ancora il più visceralmente inquietante (“L’uccello dalle piume di cristallo”). Da “Profondo rosso” in poi, Argento è scaduto nell’effettaccio a base di tanto pomodoro gettato in faccia agli spettatori, perdendo il vero senso della paura al cinema. La grande abilità di questo regista, comunque, resta sempre – anche nei suoi ultimi film – quella di riuscire a coniugare perfettamente immagini e musiche e, proprio attraverso la musica delle sue pellicole – i ritornelli, le ninne-nanne, le cantilene – far riemergere nell’animo degli spettatori le loro paure primordiali (nella sala buia), riportandoli all’infanzia, almeno per qualche momento. Anche Lucio Fulci, pur nell’estrema povertà dei mezzi con cui ha sempre lavorato, è riuscito diverse volte a instillare inquietudini profonde negli appassionati. Di particolare rilevanza estetica sono soprattutto film come l’indefinito “Quella villa accanto al cimitero” (1980) e il perverso “Il miele del diavolo”, in cui attraverso l’ambiguità e il sadismo si arriva alla poesia di una canzone d’amore.
Uno dei più bei film fantastici italiani, per me, resta, comunque, “La casa dalle finestre che ridono” di Pupi Avati, in cui ambienti solitamente familiari e tranquillizzanti diventano, invece, covi insospettabili della follia umana. Particolarmente inquietante nel film di Avati è proprio il modo in cui rende sullo schermo il contrasto tra follia e realtà quotidiana. In casi come questo, il cinema non ha niente da invidiare alle vette più elevate della letteratura.
Alle soglie del nuovo millennio, penso che la tendenza – al cinema – sia verso un recupero del vero orrore – al di là delle forme splatter più ridicole – nel senso dell’inquietudine, dell’ambiguità e dell’indefinitezza: un horror spaziale alla Lovecraft, simbolo della “paura del vuoto” che tanto segna oggi l’animo umano, come all’epoca del Barocco dopo l’avvento di Martin Lutero e della sua Riforma.
(Testo raccolto da Diego Del Pozzo)