mercoledì 31 agosto 2011

LA PASTA AL CINEMA: IL GUSTO E LA VISIONE...

Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 31 agosto 2011)

Il fatto che, negli anni Sessanta, gli americani abbiano ribattezzato proprio “spaghetti western” i film italiani che, da Sergio Leone in poi, rileggevano con sguardo europeo il mito della Frontiera la dice lunga su come, nell’immaginario collettivo planetario, la pasta sia considerata uno tra i simboli più immediatamente riconoscibili dell’italianità.
E, lungo la sua storia, proprio il cinema italiano ha fatto ricorso in innumerevoli occasioni a un bel piatto di maccheroni o spaghetti per arricchire e tratteggiare in maniera rapida ed efficace personaggi e situazioni. La prima immagine che torna alla mente dell’appassionato è quella di Totò in piedi sul tavolo, impegnato in una danza quasi da baccanale in Miseria e nobiltà, pronto a soddisfare una fame atavica arraffando spaghetti a più non posso, in bocca, nelle tasche del soprabito, ovunque, quasi come colto da vero e proprio raptus. Altra sequenza immortale, poi, è quella dello “yankee” Nando Moriconi interpretato da Alberto Sordi in Un americano a Roma, dove va in scena un autentico duello tra un piatto di maccheroni e il protagonista coatto ante litteram. Nel secondo dopoguerra, comunque, la pasta è onnipresente nel cinema italiano, sia nelle pellicole neorealiste che nelle commedie che portano agli anni del Boom sessantesco. I significati, però, sono diversissimi. Così, se nel capolavoro-simbolo del neorealismo, Roma città aperta di Rossellini, l’Italia che esce affamata e speranzosa dalla guerra è ben incarnata nel nonno che raccomanda al nipote avviato alle nozze di non litigare con la futura sposa e far saltare la cerimonia perché “se dovemo fa’ ‘na magnata”, invece in commedie come I soliti ignoti di Mario Monicelli la fascinazione della pasta è più suadente e leggera, tale però da far fermare la banda di ladri da strapazzo formata, tra gli altri, da Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni e Totò di fronte a un piatto di pasta e fagioli mentre è in atto la “rapina del secolo”.
Il legame tra la pasta e il cinema italiano, comunque, è molto stretto e sono davvero tanti gli interpreti di rango che, nell’ambito di pellicole più o meno celebri, hanno avuto a che fare con un bel piatto di pastasciutta fumante: dalla Anna Magnani de L’onorevole Angelina ai giovani altrettanto proletari di Domenica d’agosto e Poveri ma belli, dal Totò emigrato in Spagna e improvvisato torero di Fifa e arena al clamoroso Aldo Fabrizi de La famiglia Passaguai, dai ripetuti omaggi felliniani fino alla Sabrina Ferilli del più recente Ferie d’agosto di Paolo Virzì, dalla famiglia di pastai pugliesi - è storia dell’anno scorso - del premiato Mine vaganti di Ferzan Ozpetek ai cortometraggi d’autore prodotti in questi anni dal pastificio Garofalo di Gragnano e affidati a nomi celebri come Valeria Golino o Terry Gilliam.
L’omaggio più romantico alla pasta intesa come elemento capace di condizionare in meglio l’esistenza, però, arriva probabilmente da Hollywood. E non da un film con attori in carne e ossa, bensì da quel capolavoro dell’animazione che è il disneyano Lilli e il vagabondo, nel quale i due cagnolini protagonisti s’innamorano proprio davanti a un bel piatto di spaghetti al pomodoro, servito da un cuoco che, naturalmente, è di origini italiane.

sabato 27 agosto 2011

UN OTTIMO SAGGIO SUL PRIMO CINEMA DI PISCICELLI

Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 27 agosto 2011)

La Napoli che Salvatore Piscicelli descrive nei suoi primi film, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, può essere considerata come una sorta di emblematico laboratorio della profonda mutazione socio-antropologica in atto nell’Italia intera, già denunciata da Pier Paolo Pasolini nel decennio precedente: una città, come la nazione tutta, nella quale subiscono una cruciale accelerazione i processi di trasformazione del panorama politico e dell’orizzonte culturale, nonché quelli delle forme della comunicazione, che devono iniziare a fare i conti con un assetto mediatico inedito rispetto a quello in auge fino ad allora. E’ in questo panorama “in progress” che il primo cinema di Piscicelli dice la parola probabilmente definitiva su ciò che Napoli e l’Italia si apprestano a diventare nel corso degli anni Ottanta, influenzati da un’onda lunga che ancora oggi caratterizza la nostra quotidianità.
A questo periodo decisivo e a colui che, utilizzando in maniera modernissima il linguaggio delle immagini in movimento, s’impose come uno tra i suoi esegeti più illuminati e preveggenti è dedicato l’interessante volume di Francesco Crispino edito da Liguori e intitolato Alle origini di Gomorra. Salvatore Piscicelli tra Nuovo cinema e Neotelevisione (158 pagine, 19.90 euro). Va subito spiegato come il riferimento nel titolo al libro di Roberto Saviano e, soprattutto, al successivo film di Matteo Garrone sia motivato dall’approccio privilegiato da Crispino, che individua - a ragion veduta - nel regista e sceneggiatore originario di Pomigliano d’Arco l’anticipatore di quei ritratti di insediamenti urbani e periferie estese e degradate poi popolarizzati, quasi trent’anni dopo, dal fenomeno Gomorra. In particolare, Crispino - che ha insegnato Storia del cinema negli Atenei di Firenze, Roma Tre e Cassino, curato un volume su Pasolini e diretto alcuni cortometraggi e documentari - si sofferma su pellicole seminali come l’esordio piscicelliano del 1979 Immacolata e Concetta, il secondo film Le occasioni di Rosa del 1981 e la coeva serie di documentari televisivi Bestiario metropolitano, realizzata per Raitre (istituita appena nel 1975, in seguito alla riforma della tv pubblica) e trasmessa in sei puntate di mezz’ora l’una sulle frequenze regionali campane.
E una tra le tracce seguite dall’autore nell’accostarsi alla prima produzione di Piscicelli riguarda appunto lo storico “passaggio di testimone” tra cinema e televisione, del quale un artista intermediale raffinato e consapevole come il regista campano, capace - scrive Crispino - “di mescolare varie discipline e far dialogare diversi mezzi di comunicazione”, diventa emblema e punto di riferimento per coloro che verranno dopo. La traccia più significativa seguita dall’autore di Alle origini di Gomorra, però, è quella introdotta da ciò che scrive Franco Monteleone nella densa prefazione, a proposito del retroterra socio-etnografico del cinema di Piscicelli e del violento stravolgimento del tessuto sociale della provincia napoletana nella quale il cineasta si forma. “Com’è noto, si verifica allora in quei luoghi - scrive Monteleone - un repentino cambiamento della loro tradizionale fisionomia agricola. Il nuovo insediamento industriale dell’Alfasud, che manca ovviamente di una radicata cultura operaia, si affianca allo stabilimento dell’Italsider di Bagnoli, rimodellando l’intero bacino produttivo regionale, proprio nel momento in cui la vecchia e solida cultura operaia dell’altoforno meridionale stava scomparendo per effetto della crisi siderurgica. Da sedimento di miti, riti e di memorie ancestrali, quell’area finisce per trasformarsi in un perverso crogiuolo di neosviluppo, che assume tutti i caratteri della cosiddetta postmodernità, fondati sulle logiche di una tumultuosa quanto sregolata crescita economica”.
Questo itinerario è descritto quasi in diretta da Salvatore Piscicelli, prima nei documentari antropologici pomiglianesi con Marcello Colasurdo e nel tragico e spaesante melò rurale Immacolata e Concetta, quindi grazie all’avvicinamento alla città di Bestiario metropolitano e all’algida e disperata Scampia di Le occasioni di Rosa. Quattro anni dopo, nel 1985, arriveranno le storie vesuwave di Blues metropolitano e il cinema piscicelliano avrà compiuto il suo percorso urbano fin dentro il rutilante e polifonico ventre della “nuova” Partenope sospesa tra terremoto e fine millennio.

A VENEZIA LA CUCINA DOC DELLO CHEF GENNARO ESPOSITO

Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 26 agosto 2011)

“Una volta, se dicevi a una ragazza che facevi il cuoco, lei ti guardava come si guarda un bandito. Oggi non è più così, anzi sei considerato quasi più come un artista”. Questa bella riflessione del quarantunenne master chef vesuviano Gennaro Esposito, che con le sue due stelle Michelin è tra i più richiesti del momento, apre il documentario di Elisabetta Pandimiglio intitolato proprio Più come un artista, la cui anteprima mondiale è prevista per il 7 settembre alla Mostra di Venezia nell’ambito delle Giornate degli autori.
L’idea della brava regista e sceneggiatrice è semplice: seguire Esposito e il suo staff nel loro lavoro quotidiano in quello che è il loro regno, cioè la cucina del celebrato ristorante Torre del Saracino di Vico Equense, aperto proprio da Esposito e dalla moglie Vittoria ormai vent’anni fa. Dall’autentico pedinamento emergono la passione viscerale verso l’arte del cucinare e l’ossessione per la perfezione condivisa da tutti coloro che lavorano con lo chef, ma anche i ritmi infernali che caratterizzano il “dietro le quinte” di un ristorante ricercato come Torre del Saracino. “Ho cercato di restituire - racconta l’autrice Elisabetta Pandimiglio - il senso di quella che si configura come un’autentica comunità, nella quale ci sono tensioni e momenti di crisi, ma anche esultanza per un successo e orgoglio per un’idea condivisa. L’alternanza tra ritmi convulsi e tempi morti, poi, mi ha permesso anche di fare un lavoro sui pensieri dei vari protagonisti, a partire da quelli di Gennaro”.
E, in tal senso, sono molto belli e pregnanti i poetici inserti tra un capitolo e l’altro, nei quali lo chef riflette sul senso della sua arte e della sua vita mentre nuota nel mare davanti Vico. “Ho iniziato a nuotare con regolarità da tre-quattro anni - racconta Gennaro Esposito - e quei momenti con la testa sott’acqua mi servono per staccare dai ritmi serrati che caratterizzano il mio lavoro: è qualcosa che mi fa stare bene fisicamente ma, soprattutto, psicologicamente, poiché la mia giornata tipo inizia alle 8 e, con un’unica piccola pausa, prosegue fino a notte fonda, tutti i giorni, tra rapporti con i clienti e col personale, inconvenienti vari da risolvere, ansia per qualche nuova idea da sperimentare, esigenza di mantenersi sempre a livelli di eccellenza”. Per Esposito, cucinare è tutto: “Si può tranquillamente parlare di ossessione, abbinata ovviamente a una passione fortissima. Lavoro in cucina da quando avevo 14 anni e, pian piano, ho scoperto cose nuove, ho studiato, sono cresciuto, conquistando con l’impegno quotidiano tutto ciò che ho ottenuto. Dunque, posso certamente dire che la cucina per me è una ragione di vita”. E questo approccio “totale” è la cifra stilistica dell’arte culinaria dello chef vesuviano: “Io mi sono ripromesso di non farmi mai trascinare dalla corrente, ma di proporre qualcosa di personale e indicativo del mio stile e del mio essere: lo devo alla gente, alla quale cerco di regalare un’esperienza diversa da tutte le altre; e lo devo al mio territorio, dal quale prendo la materia prima per ciò che cucino”.
Esposito ha una certa dimestichezza con le telecamere, grazie alle numerose presenze in tv, ma non ha dubbi nel definire unica l’esperienza del documentario di Elisabetta Pandimiglio: “E’ tutta un’altra cosa rispetto a quando vai in tv per presentare una ricetta. Qui, le telecamere erano nel nostro regno e il loro occhio ha catturato le nostre quotidianità. In alcuni momenti c’erano addirittura quattro operatori che giravano contemporaneamente, ma sono sempre stati molto discreti. Da parte nostra, io e lo staff ci siamo concessi totalmente, anche per pura curiosità verso questa esperienza. Tra l’altro, ho notato molte analogie tra il lavoro del regista e quello dello chef: entrambi creano assieme a un gruppo di collaboratori fidati. Nel mio caso, poi, molti di loro sono con me fin dall’inizio: e questo rende ancora più bello e prezioso ciò che facciamo”. Tra qualche giorno ci sarà il tappeto rosso veneziano: “Non so davvero cosa aspettarmi dalla presenza alla Mostra di Venezia. In ogni caso, sarà un’esperienza un po’ al confine, perché accanto al cinema ci sarà pure la gastronomia, grazie a una cena che prepareremo per dopo la proiezione. Però, io sono un grande appassionato di cinema, oltre che di musica. Anzi, da ragazzo ho praticamente vissuto in un cinema, perché aiutavo uno zio che ne gestiva la bouvette: mi sedevo in ultima fila, pronto a scattare all’intervallo per aiutare lo zio; e così ho visto davvero tantissimi film. Tra i miei preferiti dell’epoca, c’erano quelli di Sergio Leone, Bruce Lee e Massimo Troisi”.

UMBERTO LENZI: DA REGISTA A SCRITTORE DI GIALLI

Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 25 agosto 2011)

Una serie di romanzi gialli con Totò e i fratelli De Filippo come personaggi? L’accostamento è meno bizzarro di quanto si possa pensare se i libri in questione sono scritti da Umberto Lenzi (qui nella foto), il regista di culto di tanti film di genere anni Settanta, autore di riferimento di un cineasta doc come Quentin Tarantino e a sua volta cinefilo coltissimo. Lenzi, che negli anni d’oro ha firmato autentici cult movies come il thriller Orgasmo e il “poliziottesco” Napoli violenta, ha intrapreso da qualche tempo una seconda carriera di scrittore, passando - come sottolinea con malcelato orgoglio - “dal cinema raccontato con la macchina da presa a quello di carta, poiché lo stile narrativo e il taglio dei capitoli dei miei romanzi sono mutuati dai film, nel senso che vivono di immagini visive più che di sensazioni astratte e descrizioni letterarie”.
Dal 2008, infatti, sta portando avanti una saga poliziesca appena giunta al quarto capitolo, grazie alla recente uscita di Scalera di sangue (con riferimento allo storico stabilimento cinematografico romano), pubblicato come i precedenti tre da Coniglio editore. L’intero ciclo è ambientato nell’universo del cinema italiano a cavallo della Seconda guerra mondiale: si parte nella Roma fascista del 1940 di Delitti a Cinecittà (2008) per passare alla fine del 1942 di Terrore ad Harlem del 2009 (e l’Harlem del titolo è un kolossal di propaganda anti-americana diretto da Carmine Gallone), poi alla Venezia del 1944 di Morte al Cinevillaggio (2010) e, infine, alla Roma liberata del luglio 1945 che fa da scenario al nuovo romanzo. “Protagonista dei quattro libri - racconta Umberto Lenzi - è l’investigatore privato Bruno Astolfi, che nel corso delle sue indagini avrà a che fare col gotha del cinema italiano dell’epoca: da Alessandro Blasetti a Luisa Ferida, da Alida Valli ad Amedeo Nazzari, da Aldo Fabrizi ai giovani Ugo Tognazzi e Federico Fellini, fino a Vittorio De Sica, Totò e i fratelli Eduardo e Peppino De Filippo”. Con ciascuno, Astolfi interagisce attraverso pagine a metà tra citazionismo estremo e gustoso divertissment. E, tra i tanti, è particolarmente riuscito proprio l’incontro con i De Filippo, che va in scena nel secondo libro sul set di Non ti pago, quando il detective viene coinvolto da Eduardo in un botta e risposta davanti alla macchina da presa, dopo che quest’ultimo lo scambia per l’attore che avrebbe dovuto recitare la scena con lui. “L’idea di collocare queste vicende poliziesche nell’ambiente del cinema italiano durante gli anni del fascismo - sottolinea Lenzi - si spiega col fatto che prima di essere un regista sono un cinefilo e un appassionato di storia. Da questo duplice punto di vista, dunque, ho voluto assecondare la mia esigenza di raccontare l’Italia tra il 1940 e il 1945, assemblando una formula a base di cinema, ministoria e thriller”.
Lo statuto di regista di culto di Umberto Lenzi è stato confermato anche dalla bollente accoglienza avuta qualche mese fa all’Accademia di Belle arti di Napoli, dov’è intervenuto nell’ambito di un convegno di storici del cinema e dove i tantissimi giovani presenti lo hanno letteralmente subissato di domande e richieste di foto e autografi, a conferma dell’enorme popolarità dei suoi film cosiddetti di Serie B. “Non tornavo a Napoli - ricorda Lenzi - dal giorno della “prima” di Napoli violenta, ad agosto 1976. All’epoca, la città mi sembrò magnifica e sarebbe bello se potesse tornare come allora, senza tanta spazzatura per strada. Ci accolsero al meglio, per l’intero periodo delle riprese, nonostante il film con Maurizio Merli parlasse di violenza metropolitana e criminalità organizzata, problemi purtroppo ancora attuali. Dal cinema, comunque, mi sono autopensionato da oltre dieci anni e - conclude - oggi preferisco dedicarmi ai miei libri, che considero come la continuazione dei film con altri mezzi. Infatti, cerco sempre di catturare l’appassionato, prenderlo alla gola e costringerlo a leggere tutto il romanzo nel giro di un solo giorno”.

martedì 23 agosto 2011

NAPOLI A VENEZIA: GRAGNANIELLO ATTACCA BASSOLINO

Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 23 agosto 2011)


Doppia presentazione con polemica, quella organizzata ieri a Roma dalla factory napoletana Figli del Bronx, per mostrare in anteprima alla stampa le sue due produzioni che porterà a fine mese alla Mostra di Venezia: l’atteso Là-Bas di Guido Lombardi (il film, già ribattezzato “Gomorra nero”, selezionato nella Settimana della critica) e il documentario Radici di Carlo Luglio (che si vedrà nelle Giornate degli autori).
La polemica esplode quando prende la parola Enzo Gragnaniello, autentica anima di Radici, tutto costruito intorno a lui, che fa da guida sciamanica dello spettatore nella Partenope più magico-mitologica e storica (qui nella foto, una scena). Gragnaniello, infatti, senza troppi giri di parole com’è nel suo personaggio, coglie l’occasione per dire la sua sul recente passato e sul difficile presente della città che ama visceralmente. “In questi anni - attacca - troppi esponenti politici hanno letteralmente macinato Napoli: l’hanno distrutta, invece di mostrarle il rispetto che una città dalla forza unica, anche grazie alla potenza che le deriva dalla presenza del Vesuvio, avrebbe meritato. In particolare, l’esperienza amministrativa di Antonio Bassolino, prima al Comune e poi alla Regione, ha macinato i napoletani, ai quali ha fatto credere che avrebbe favorito la nascita di una nuova Napoli. Oggi, invece, l’unica rivoluzione possibile - prosegue con rabbia Gragnaniello - sarebbe proprio quella di prendere Bassolino, che negli anni Settanta non l’avrebbe fatta franca, per fargli vedere di persona in che condizioni ha lasciato la nostra città”.
Il “j’accuse” di Enzo Gragnaniello si sofferma su un aspetto, a suo dire determinante: “Napoli è stata governata troppo a lungo da amministratori provenienti dalla provincia: da tanti assessori, per esempio, che non sapevano quasi nulla di questa città e che per anni hanno badato a sistemare i propri amici e parenti”. Il paragone con la fresca amministrazione di Luigi de Magistris, quindi, scatta automatico: “Per ora, il nuovo sindaco mi sta convincendo, soprattutto perché sta parlando in maniera efficace anche alla parte più irrazionale ed emotiva dei napoletani, che per troppo tempo, invece, sono stati letteralmente robotizzati dalle precedenti amministrazioni. Io penso che i napoletani siano un popolo fondamentalmente anarchico: e questa cosa non è stata compresa fino in fondo”. L’irrazionale e il magico sono elementi centrali in Radici, il bel documentario che Carlo Luglio ha costruito come un itinerario ondivago quasi interamente musicale nel quale proprio Gragnaniello fa da custode della memoria e da “genius loci” di una Partenope mistica e viscerale, antichissima e sospesa nel tempo, incarnata in autentici luoghi dell’anima come l’Antro della Sibilla a Cuma, il Castello di Baia, la Casina vanvitelliana del Fusaro, la Solfatara, il Tempio di Mercurio, la Piscina Mirabilis, l’Arenile di Bagnoli, i Quartieri spagnoli, il Maschio Angioino.
Sempre in tema di polemiche, poi, Gragnaniello sottolinea, piuttosto sconsolato, come nessuna amministrazione locale campana abbia voluto finanziare Radici: “Addirittura, i tremila euro per andare alla presentazione di Venezia li metterò io. Peccato, che in questi anni la Regione abbia finanziato persino una montagna di sale messa in piazza del Plebiscito, mentre per un film culturale come il nostro finora nessuno ha dato nulla”. Nel cast del documentario di Luglio, oltre a Gragnaniello, ci sono anche Maria Luisa Santella, Ida Di Benedetto, Tony Cercola, James Senese, Riccardo Veno, Enzo Moscato e Franco Del Prete.
Atmosfere diversissime, invece, quelle di Là-Bas, il lungometraggio d’esordio di Guido Lombardi, che ha deciso di raccontare una storia di immigrazione, camorra, degrado e speranza nella Castelvolturno d’inizio millennio popolata da quasi 20mila immigrati africani. Il film, unico titolo italiano in concorso alla Settimana della critica, condivide con Radici, oltre alla produzione di Figli del Bronx, anche la giovane ed estremamente dotata direttrice della fotografia Francesca Amitrano. Nei ruoli principali, assieme agli attori Salvatore Ruocco ed Esther Elisha, recitano soltanto non professionisti, a partire dal bravissimo protagonista Abdou Kader Alassane.

lunedì 22 agosto 2011

INTERVISTA A ESTHER ELISHA, ATTRICE DI "LA'-BAS"...

Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 21 agosto 2011)

Nel cast di talentuosi interpreti non professionisti messo insieme dal regista Guido Lombardi e dal produttore Gaetano Di Vaio per Là-Bas, l’atteso film prodotto dalla factory partenopea Figli del Bronx selezionato nella Settimana della critica della prossima Mostra di Venezia, ci sono due artisti che, invece, fanno gli attori per mestiere e che sperano nel successo della pellicola già ribattezzata “Gomorra nera” per spiccare definitivamente il volo. Si tratta dell’emergente napoletano Salvatore Ruocco e di Esther Elisha, bresciana originaria del Benin, il cui coinvolgimento in un film ambientato nella comunità africana di Castelvolturno risulta ancora più interessante proprio per le sue origini. “Sono felicissima - racconta Esther - che, finalmente, anche il cinema italiano si sia accorto dei mutamenti in atto nella società e abbia aperto a un film con protagonisti africani. E’ stata una scelta coraggiosa, che spero possa fare da apripista”.
Com’è stata per lei l’esperienza sul set di un film così particolare?
“Bellissima, anche perché ho avuto modo di lavorare con tanti giovani di valore, sia nel cast che nella troupe, su una storia importante che mi aveva colpito fin da quando avevo letto la sceneggiatura. E poi, il fatto di aver potuto interagire con una serie di non professionisti, a partire dal talentuoso protagonista Abdou Kader Alassane, ha arricchito profondamente ciascuno di noi”.
Il film parla di camorra, immigrazione, degrado. Ma lascia aperto più di uno spiraglio di speranza. Come pensa che possa essere recepito dal pubblico?
“A me piacerebbe innanzitutto che Là-Bas potesse trovare una strada nelle sale e raggiungere un suo pubblico, che sono sicura esserci. In Italia, infatti, c’è tanto cinema indipendente di valore, che lotta per emergere e farsi guardare, ma non riesce ad arrivare concretamente in sala. E, invece, penso che puntare su progetti giovani e originali come questo potrebbe essere la vera ricchezza dalla quale far ripartire il cinema italiano”.
La ricchezza di Là-Bas, poi, è anche linguistica e, dunque, culturale…
“E per me proprio questo è stato un ulteriore elemento di straordinario interesse. Nel film, infatti, si alternano molte lingue diverse: nigeriano, inglese, senegalese, napoletano, italiano. E vanno a comporre un’autentica polifonia che arricchisce la narrazione. Da parte mia, ho vissuto una vera e propria sfida, perché ho dovuto fare un lavoro in profondità su un dialetto nigeriano che, essendo italiana originaria del Benin, non parlavo affatto”.
Che personaggio interpreta nel film?
“Io sono Suad, una prostituta della quale s’innamora il protagonista poco dopo il suo arrivo dall’Africa a Castelvolturno. Lui, però, all’inizio non sa cosa faccia davvero la ragazza per vivere. Poi, quando lo capisce, cerca in tutti i modi di trascinarla via da quella vita, fin quasi a farne un’ossessione”.
Com’è stato, sul set, il rapporto con un regista in pratica suo coetaneo come Guido Lombardi?
“Guido è stato da subito molto aperto e disponibile al confronto e alla collaborazione, per tentare di raggiungere un risultato che andasse il più possibile al di là dello stereotipo. Mi piacerebbe molto, anche in futuro, moltiplicare incontri artistici come questo, perché partecipare alla realizzazione del progetto di un regista della tua stessa età, se non più giovane, che è alla ricerca di un linguaggio nuovo, porta automaticamente una grande dose di energia e stimoli importanti”.
Lei ha lavorato anche in passato in film indipendenti, come Last Minute Marocco e il francese Les gardiens de l’ordre, ma anche in tv in Boris, Il commissario De Luca e Don Matteo 5. Cosa c’è nel suo futuro, dopo Là-Bas?
“In autunno, sarò nella fiction Una musica nel cuore, in onda in prima serata su Raiuno. Poi, recentemente ho iniziato a collaborare con una coppia di artisti contemporanei della scena berlinese, gli Ze Coeupel, cioè Ambra Pittoni e Paul-Flavien Enriquez-Sarano, nell’ambito di un progetto performativo itinerante creato tra Berlino e Milano. Lo porteremo in scena da settembre, al Festival de performances Préavis de Désordre Urbain di Marsiglia: è un progetto al quale tengo molto, perché mira a spingere il cittadino a interrogarsi sul rapporto che ha con la città nella quale vive”.

domenica 21 agosto 2011

MAURIZIO NICHETTI: "MEGLIO LA TV CHE FILM SENZA IDEE"

Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 21 agosto 2011)

Ci sono registi che, per il tipo di cinema praticato in carriera, in Italia non hanno incontrato la fortuna critica che magari, per talento e capacità, avrebbero meritato. Tra di loro, un posto speciale è occupato da Maurizio Nichetti, il visionario autore milanese formatosi negli anni Settanta all’interno della factory dell’animazione di Bruno Bozzetto.
Quello stesso Nichetti che, nonostante una densa filmografia fatta da titoli coraggiosi e di successo come, tra gli altri, l’esordio Ratataplan del 1979 e Volere volare del 1991, non dirige un lungometraggio per il grande schermo ormai dal 2001 di Honolulu Baby. “Anche se - racconta il regista - continuo a lavorare regolarmente per la televisione, nonostante molti credano che io sia sparito dalla circolazione”. Il riferimento è ai tv movies Dottor clown e Agata e Ulisse, trasmessi da Canale 5 rispettivamente a fine 2008 e all’inizio di quest’anno. “Si tratta di prodotti dignitosissimi - spiega l’autore - nei quali hanno recitato ottimi attori come Massimo Ghini, Serena Autieri e Angela Finocchiaro nel primo caso; e Antonio Catania ed Elena Sofia Ricci nel secondo. Entrambi, tra l’altro, sono stati visti da diversi milioni di telespettatori, totalizzando cioè numeri decisamente superiori rispetto a quelli di un film medio italiano. Ma il solo fatto di averli girati per la tv li ha resi praticamente invisibili. E, invece, io penso che se il panorama del cinema italiano è quello attuale, fatto di commedie tutte uguali e senza troppa fantasia, allora è meglio lavorare per la televisione”.
Nichetti, però, ha coltivato per diversi anni un progetto ambizioso per il grande schermo, quello di un sequel di Volere volare, la sua fortunata commedia romantica con la quale, nel 1991, seguì con ottimi risultati le orme del Robert Zemeckis di Chi ha incastrato Roger Rabbit? miscelando animazione e cinema live action. “Purtroppo, però, attualmente - spiega - l’industria cinematografica italiana non è in grado di produrre un film come questo, perché costerebbe troppo e, quindi, sarebbe economicamente rischioso. Invece, la strada da seguire dovrebbe essere proprio quella del coraggio e della fantasia, invece di rimasticare sempre le stesse formule narrative”. In effetti, in Italia il cinema fantastico non ha mai attecchito. “Qui da noi, per essere etichettato come autore - prosegue Nichetti - devi mostrarti impegnato, perché è quasi come se praticare il sentiero della fantasia cozzasse con un approccio autoriale sincero. Naturalmente, la situazione è molto diversa nel resto del mondo, dove invece il fantastico è considerato l’arte di rendere semplice l’impossibile”.
Così, anche per l’immediato futuro gli sforzi creativi di Maurizio Nichetti si rivolgeranno alla televisione, con un altro tipo di sequel pronto in autunno. “Si tratta della seconda stagione della serie a cartoni animati Teen Days, della quale l’anno scorso ho già diretto i ventisei episodi della prima annata per Raidue. La serie ruota intorno a sei adolescenti protagonisti di un talent show. Per me si tratta di un ritorno alle origini, quando lavoravo presso lo studio di Bruno Bozzetto, anche se in questo caso - conclude - la narrazione si sviluppa lungo le tredici ore di un’intera stagione, con tutte le difficoltà che ne conseguono. Comunque, la prima serie ha ottenuto un buon successo ed è stata venduta anche all’estero. E pure le aspettative per la nuova stagione sono buone”.

sabato 20 agosto 2011

ADDIO A JACOPETTI, L'AUTORE DI "MONDO CANE"

Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 19 agosto 2011)

Lo scandalo è stato il fedele compagno di vita di Gualtiero Jacopetti, il giornalista, sceneggiatore, regista e documentarista scomparso ieri nella sua casa romana all’età di 91 anni. Jacopetti, infatti, era diventato famoso in tutto il mondo, in un turbinìo di polemiche, per aver creato, all’inizio degli anni Sessanta, un vero e proprio sotto-genere del cinema documentaristico: quello dei cosiddetti "mondo movies", dal più celebre tra loro, il capostipite Mondo cane del 1960-1961.
Lo scandalo e le polemiche, però, sono sempre stati più italiani che altro, poiché all’estero il nome di Jacopetti è circondato ancora oggi da una fama senz’altro più positiva che negativa. Basti pensare semplicemente alla grande considerazione della quale gode tra i registi della Hollywood contemporanea più indipendente e arrabbiata (quella, tra gli altri, dei vari Tarantino e Rodriguez) o agli omaggi che, in anni recenti, gli hanno tributato musicisti importanti come l’ex leader dei Faith No More, Mike Patton, con l’album Mondo cane, oppure come gli U2, che durante molti loro mega-tour degli anni Novanta utilizzavano proprio immagini tratte dai "mondo movies" jacopettiani per arricchire visivamente l’esecuzione dei brani più controversi.
Il regista, per sua esplicita volontà, sarà sepolto senza nessuna cerimonia religiosa nel Cimitero degli inglesi a Roma, accanto all’attrice Belinda Lee, che fu la sua compagna fino al 1961, quando un tragico incidente stradale gliela strappò, lasciandolo ferito nell’animo oltre che nel corpo. Negli anni Sessanta, comunque, Jacopetti era già all’apice della popolarità, per il suo passato di giornalista d’assalto, protagonista di accese polemiche socio-culturali e ispiratore del personaggio di Marcello Mastroianni ne La dolce vita di Fellini. All’epoca, infatti, il vero Gualtiero Jacopetti aveva via Veneto ai suoi piedi, grazie alla tumultuosa vita sentimentale e ai servizi a effetto realizzati per la storica Settimana Incom e per giornali come il Cronache da lui fondato negli anni Cinquanta, subito dopo il suo primo ritorno a casa da quell’Africa tanto amata e tante volte raccontata. Proprio in Africa, peraltro, Jacopetti conobbe la prigione e rischiò anche di peggio, accusato per lo stupro, da lui sempre negato, di una ragazza minorenne che poi avrebbe sposato (e, in seguito, lasciato per Belinda Lee).
Il successo mondiale, però, Gualtiero Jacopetti lo conobbe quando riuscì a convincere, assieme all’amico Carlo Prosperi, il commendatore Angelo Rizzoli a produrre un anticonvenzionale film di montaggio ricco di immagini a sensazione aggressive, narrate da un punto di vista cinico e indifferente ai modelli etici della Chiesa e del Comunismo, allora dominanti in Italia: era nato Mondo cane, il film che gli avrebbe procurato una nomination all’Oscar per la colonna sonora di Riz Ortolani (More divenne una delle sigle del decennio) ma, soprattutto, incassi clamorosi e tonnellate di polemiche e attacchi. Indifferente a tutto, da buon toscanaccio qual era (nativo di Barga, vicino Lucca), Jacopetti realizzò prima un sequel piuttosto svogliato, poi, dopo La donna nel mondo (con Paolo Cavara), tornò a scuotere le coscienze dei benpensanti nel 1965 con Africa addio, nel quale riproponeva il medesimo approccio di Mondo cane per mettere alla berlina i guasti e le storture del colonialismo. Dopo gli sfortunati Addio zio Tom del 1971 e Mondo candido del 1975, le porte del cinema - al quale si era affacciato negli anni Cinquanta interpretando un avvocato in Un giorno in pretura di Steno e poi lavorando alla sceneggiatura di Europa di notte di Blasetti - gli si chiusero definitivamente, lasciando comunque negli occhi degli appassionati le immagini di quel cinema disturbante che scioccò l’Italia degli anni Sessanta.

martedì 16 agosto 2011

CINECOMICS PRIMAVERA-ESTATE 2011: I PIU' E I MENO

Di Diego Del Pozzo

Il periodo estivo è utile anche perché, offrendo un po’ di pausa, permette di fare il punto della situazione sui tanti cine-comics, prevalentemente di argomento supereroistico, arrivati in questi mesi sugli schermi dei cinema di tutto il mondo. Una premessa, però, è doverosa: si tratta quasi sempre di film piuttosto deludenti, sia dal punto di vista squisitamente cinematografico sia per quel che riguarda il rapporto col fumetto d’origine. Una seconda premessa, poi, riguarda l’abuso del 3D di nuova generazione che si sta facendo in questo tipo di pellicole: non serve a nulla, se non a giustificare un prezzo più elevato del biglietto d’ingresso!
Comunque, il primo film uscito anche in Italia, a maggio, è stato il roboante e pubblicizzatissimo Thor diretto da Kenneth Branagh. Ebbene, da sempre specialista nel mettere in scena gli intrighi di corte delle opere shakespeariane, il colto regista britannico ha provato a utilizzare il medesimo approccio per narrare i rapporti familiari delle divinità nordiche. Naturalmente, però, il fatto di dover comunque dare il necessario spazio alle scazzottate tipiche dei comics di supereroi e, soprattutto, l’essersi dovuto appoggiare su un protagonista inespressivo come Chris Hemsworth ha fatto la frittata, producendo un bizzarro pasticcio marvel-shakespeariano, incapace di cogliere lo spirito della “Casa delle Idee” ma anche quello delle opere del Bardo inglese. La trama del film risale alle origini del personaggio, quando Odino (un ottimo e sprecato Anthony Hopkins), stanco dell’irruenza incontrollabile del figlio Thor (Hemsworth), lo esilia sulla Terra, mandandolo a vivere tra gli umani. A rendere tutto più intricato ci pensa Loki (Tom Hiddlestone), il figlio adottivo di Odino, prontissimo a impossessarsi del trono durante l’assenza dell’odiato fratellastro. A proposito di interpreti sprecati, in Thor nessuno batte una Natalie Portman che sembra capitata lì per caso.
Sempre Marvel, ma stavolta con esiti più felici, per il secondo cine-comic approdato in sala nella tarda primavera: X-Men - L’inizio (nella foto), prequel della trilogia sui popolarissimi mutanti marvelliani diretta da Bryan Singer e Brett Ratner. La pellicola, firmata dal regista emergente Matthew Vaughn, racconta la giovinezza di Charles Xavier (James McAvoy) ed Erik Lensherr (Michael Fassbender), cioè i futuri Professor X e Magneto. Legati inizialmente da una profonda amicizia, i due ragazzi entrano a far parte di un’unità speciale composta da mutanti, durante i primi anni Sessanta, destreggiandosi da par loro in particolare nel corso della crisi missilistica cubana che esplose durante la breve presidenza Kennedy. Nel corso del film, però, appariranno man mano sempre più evidenti le profonde differenze di approccio (soprattutto per quel che concerne il rapporto umani-mutanti) esistenti tra i due amici, che così finiranno per diventare gli acerrimi nemici che il pubblico delle tre pellicole precedenti ha conosciuto già più in là negli anni. Punto di forza di X-Men - L’inizio è la freschezza dell’approccio registico, che rinnova realmente la saga filmica dei mutanti riportandola al momento nel quale tutto iniziò. Menzione speciale, poi, per il curatissimo decor d’epoca, che rende alcune sequenze autentiche sciccherie visive.
Una parentesi extra-supereroistica (ma fino a un certo punto), quindi, è stata proposta da Red, il mix di commedia e action movie spionistico diretto da Robert Schwentke e tratto dal fumetto di Warren Ellis. La storia è quella di Frank Moses (Bruce Willis), agente della Cia in pensione, improvvisamente minacciato di morte. Per far fronte alla minaccia, l’uomo sarà costretto a rimettere insieme i suoi vecchi colleghi, per organizzare un vero e proprio contrattacco che farà emergere un inatteso complotto. Il cast stellare basta da solo a giustificare una pellicola comunque piuttosto divertente: accanto a Willis, infatti, ci sono anche altri grossi calibri hollywoodiani come Morgan Freeman, John Malkovich e Helen Mirren.
Si ritorna tra i supereroi in piena estate, infine, con l’arrivo in sala di Captain America - Il primo vendicatore (ma perché “Captain” e non “Capitan”, visto che il sottotitolo è stato tradotto in italiano? Mah…), diretto da quel Joe Johnston esploso qualche anno fa con l’ottimo cine-comic tratto da Rocketeer e poi responsabile anche della regia di kolossal invece meno riusciti come Jurassic Park III e Wolfman. Nonostante fosse in cantiere già dal 1997, dispute sui diritti e cambi della casa di produzione hanno provocato al progetto più di dieci anni di ritardo. La trama parte anche qui dalle origini del mito e racconta di Steve Rogers (l’inconsistente Chris Evans che aveva già rovinato la Torcia Umana), il quale, durante la Seconda guerra mondiale, si ritrova trasformato da gracile volontario dell’esercito statunitense in un autentico super-soldato, in seguito a un segretissimo esperimento scientifico. L’uomo qualunque, così, diventa il simbolo incarnato dell’American Dream e si trova catapultato nell’Europa nazista a combattere contro colui che, nei decenni, diventerà il suo arci-nemico: il crudele Teschio Rosso interpretato da Hugo Weaving.
Purtroppo, sia Chris Evans come Capitan America (anzi, Captain) che Chris Hemsworth come Thor ritorneranno l’anno prossimo nell’attesissimo kolossal The Avengers, al quale sta lavorando il creatore di Buffy Joss Whedon.

sabato 13 agosto 2011

ADDIO AL GRANDE FRANCISCO SOLANO LOPEZ

Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 13 agosto 2011)

Se n’è andato stanotte a 83 anni un pezzo di storia del fumetto mondiale, il disegnatore argentino Francisco Solano Lopez, co-autore assieme allo sceneggiatore Héctor German Oesterheld del fumetto sudamericano più famoso di sempre: L’Eternauta. Realizzata tra il 1957 e il 1959, questa mitica serie fantascientifica è diventata, negli anni, una lucidissima anticipazione del futuro politico che di lì a qualche anno avrebbe vissuto l’Argentina, durante il periodo della dittatura, delle torture e dei desaparecidos (e lo stesso Oesterheld scomparve sotto il regime, mentre Solano Lopez riuscì a fuggire in Spagna).
Il disegnatore era stato colpito qualche settimana fa da un’ischemia, dalla quale si stava riprendendo. Ma una caduta all’inizio di agosto lo aveva fatto entrare in un coma dal quale non è più uscito. Oltre a L’Eternauta - del quale 001 Edizioni ha recentemente pubblicato una lussuosa edizione italiana, unica al mondo, restaurata e rimontata nella forma originaria voluta dagli autori - Solano Lopez ha disegnato tanti altri capolavori del fumetto argentino, sudamericano e mondiale, realizzati con sceneggiatori di talento, tra i quali Ricardo Barreiro e Carlos Sampayo, ma anche in solitaria puntando anzitutto sulla potenza grafica e la visionarietà di un tratto inimitabile. Tra i tanti titoli significativi della sua lunga carriera vanno ricordati almeno autentici classici della Nona Arte come Evaristo e Slot Barr.

mercoledì 10 agosto 2011

WEB SERIES: WHO IS JO MONACIELLO?

Di Diego Del Pozzo

Potrebbe diventare il nuovo fenomeno di culto “Made in Partenope” e conquistare il web col suo riuscito mix di ironia e dissacrazione: è Jo Monaciello, il primo esempio di neomelodico-satanista, che dalle frequenze immaginarie di TelePianura conduce da par suo il programma Jastemma con Jo, nel corso del quale canta le sue hit deliranti - prima tra tutte Zolfo e cioccolato e risponde alle telefonate e agli sms di fans estasiate, che provano a conquistarlo con frasi come “Jo, me sì trasut’ dint’ ‘e vene”.
Interpretato dal giovane attore napoletano Michele Rosiello, il personaggio di Jo Monaciello (qui nella foto) è stato creato dal regista e sceneggiatore Federico Cappabianca per la serie web Satanism for Dummies, della quale è stato girato nelle scorse settimane l’episodio pilota come saggio di fine corso realizzato dagli allievi del master 2010-2011 della Scuola di cinema e televisione Pigrecoemme di Napoli. Nella serie, Jo è membro della sgangherata setta satanica delle Bestie flegree e alterna la carriera di artista neomelodico e conduttore televisivo alle evocazioni demoniache che, nelle intenzioni sue e dei suoi improbabili compari, dovrebbero far diventare Napoli la nuova capitale italiana dell’occulto a discapito di Torino e dei loro acerrimi rivali, i satanisti sabaudi Lacrime di Lucifero.
Il pilot della serie possiede gli ingredienti giusti per suscitare l’attenzione della Rete, anche se - dopo i riscontri estremamente positivi delle prime proiezioni per addetti ai lavori - gli autori stanno seriamente pensando alla realizzazione di una serie web parallela, un vero e proprio spin-off interamente dedicato a Jo Monaciello. “Nel frattempo, abbiamo registrato presso la Siae il brano Zolfo e cioccolato, del quale - anticipa il co-sceneggiatore Rosario Gallone, anche co-autore della canzone - abbiamo appena finito di girare pure il videoclip, interamente ambientato alla Solfatara. Dopo l’estate, quindi, lanceremo ufficialmente la canzone e la serie, con una campagna di marketing virale sul web, un sito dedicato a Satanism for Dummies e, se ne avremo la possibilità, un po’ di prodotti di merchandising collegati”. Per ora, Pigrecoemme ha iscritto il pilot al festival If Tv, in programma dal 22 al 27 agosto a San Benedetto del Tronto e dedicato a idee e format originali per il cinema, la televisione e il web.
Accanto a Rosiello-Monaciello, in Satanism for Dummies recitano anche Luna Chiucis, Alberto De Rosa, Camilla De Simone, Marilù D’Avella, Alessio Di Giulio Cesare, Antimo Prencipe e Fulvio Sacco. Con Cappabianca, invece, firma la regia anche Elena Di Candia, mentre l’ottimo montaggio è di Luca Silvestre e le musiche di Ugo Russo. Alle viste, intanto, c’è anche un crossover con un’altra serie web campana, Travel Companions, realizzata da Ferdinando Carcavallo e Luca Napoletano, che nei mesi scorsi hanno conquistato un prestigioso riconoscimento a Hollywood nell’ambito del Los Angeles Web Festival.

Ps: Una differente versione, più breve, di questo articolo è stata pubblicata sul quotidiano Il Mattino in edicola oggi.

martedì 9 agosto 2011

CON L'OTTAVA STAGIONE CHIUDE "DESPERATE HOUSEWIVES"

Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 9 agosto 2011)


Con l’ottava stagione, in onda negli Stati Uniti dal 25 settembre, Desperate Housewives si congederà definitivamente dai suoi fans. L’annuncio della cancellazione della serie sui misteri che si celano dietro le tranquille esistenze di quattro casalinghe borghesi della periferia americana arriva direttamente da Paul Lee, il presidente del network Abc, nel corso del summer press tour della Tca, l’associazione dei critici televisivi statunitensi, riuniti per la presentazione ufficiale dell’ottava stagione dello show. Dunque, a maggio del prossimo anno le casalinghe disperate Susan, Lynette, Bree e Gabrielle e i loro amici e vicini di casa residenti a Wisteria Lane, opulento sobborgo dell’immaginaria cittadina di Fairview, saluteranno gli appassionati che li seguono fin dall’episodio pilota dell’ottobre 2004.
Di fronte alla notizia, il creatore di Desperate, Marc Cherry, preferisce vedere il bicchiere mezzo pieno. “Sono stati sette anni incredibili, nei quali - spiega - ho avuto modo di lavorare con un cast incredibile. E, per questo motivo, vogliamo dare alla serie il finale che merita. Ho comunicato la notizia alle protagoniste venerdì e le ho sentite tristi come tutti noi, anche se la soddisfazione per questa lunga esperienza è certamente superiore”. L’impressione, però, è che Cherry la faccia un po’ troppo facile. La realtà dietro le quinte, infatti, è ben diversa, con le quattro attrici protagoniste Teri Hatcher, Felicity Huffman, Marcia Cross ed Eva Longoria (nella foto) decisamente arrabbiate per una comunicazione giunta anche a loro senza troppi preavvisi. Per ciascuna, in questi mesi, c’era stata una trattativa serrata col network per il rinnovo dei rispettivi contratti, sempre più onerosi per la Abc. E, accanto alle firme per l’ottava stagione, il quartetto era stato opzionato anche per la nona, dopo che lo stesso Marc Cherry aveva reso pubblica la volontà di portare avanti lo show per nove anni. Ma Desperate Housewives paga il deciso calo negli indici d’ascolto - e nelle conseguenti commesse pubblicitarie - rispetto ai roboanti numeri dell’esordio del 3 ottobre 2004, quando il pilot totalizzò quasi ventidue milioni di telespettatori, superati di slancio dall’episodio conclusivo di quella stessa stagione, che sfondò la soglia dei trenta milioni. Il successo, anche internazionale, è proseguito, poi, fino allo scorso anno, con Desperate Housewives che tra 2006 e 2010 è stata la serie comedy più vista al mondo, con una media di quasi sessanta milioni di telespettatori in sessantotto Paesi.
La cancellazione della creatura di Marc Cherry è l’ennesima conferma di come la nuova “Golden Age” della televisione americana - per molti osservatori qualitativamente superiore persino a quella storica degli anni Cinquanta - sia ormai terminata, almeno per ciò che concerne i network tradizionali, perché invece i canali via cavo continuano a sfornare serie interessanti a getto continuo. Lo testimoniano le chiusure, spesso risolte in maniera deludente, di show emblematici come Lost, 24, Heroes, ai quali si aggiungeranno l’anno prossimo gli altri due grossi calibri House e, appunto, Desperate Housewives, serie all’epoca rivoluzionaria per il sapiente mix di dramma, commedia, giallo, satira e soap opera. In molti casi, accanto al naturale esaurimento della vena creativa degli autori, il motivo di queste cancellazioni è economico e riguarda, in particolare, l’esponenziale aumento dei costi causato da compensi crescenti di interpreti diventati sempre più divi, come Hugh Laurie di House e le quattro casalinghe di Desperate. All’opposto, poi, c’è il calo inarrestabile degli indici d’ascolto, provocato dalla parcellizzazione dei pubblici e da fenomeni sempre più diffusi come il file sharing e il download degli episodi, che hanno reso obsoleto il tradizionale appuntamento settimanale catodico.
Comunque, Desperate Housewives dovrebbe salutare il proprio pubblico - in Italia sul satellitare Foxlife e in chiaro sulla Rai - con un finale di serie davvero speciale. “Ho un’idea per l’ultimo episodio - anticipa Marc Cherry poco dopo l’annuncio della chiusura - che renderà omaggio a tutti i personaggi visto nelle otto stagioni”. Appare quasi certo, dopo queste dichiarazioni, il ritorno in scena della Mary Alice interpretata da Brenda Strong, cioè la quinta casalinga disperata, suicida nel prologo della serie e poi voce narrante di tutti gli episodi successivi.

lunedì 8 agosto 2011

INTERVISTA A CAROLINA CRESCENTINI

Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 5 agosto 2011)


Carolina Crescentini è una tra le attrici italiane più interessanti e apprezzate della sua generazione. Romana trentunenne, bionda naturale dalla bellezza originalissima, considera il Nastro d’argento ottenuto a luglio per 20 sigarette come il viatico migliore per iniziare una nuova stagione che la vedrà ancora protagonista sul grande e piccolo schermo.
Tra i film che ha appena terminato suscita particolare curiosità L’industriale, diretto da un maestro del cinema italiano come Giuliano Montaldo. Di che parla?
“Si tratta di una pellicola attualissima, incentrata sulla crisi economica vissuta dal punto di vista di Nicola, un piccolo industriale torinese interpretato da Pierfrancesco Favino. Io sono Laura, la moglie, architetto per passione e non per necessità, coinvolta all’improvviso nelle difficoltà di un marito che lei ama moltissimo. Ovviamente, la crisi lavorativa crea una cappa di angoscia e incomunicabilità tra di loro. Il mio è un personaggio contraddittorio, che ho molto amato: è una donna che non vuole subire la crisi ma, soprattutto, non intende perdere il marito”.
Com’è stato tornare a lavorare con Montaldo dopo I demoni di San Pietroburgo?
“Per me Giuliano è un vero mito. Ho studiato i suoi film all’università. Poi, me lo sono ritrovato come insegnante di recitazione al Centro sperimentale. E anche l’esperienza del film precedente è stata meravigliosa. Dunque, sono stata felicissima quando mi ha richiamato per questo nuovo lavoro. Sul set lui è un autentico leader, un trascinatore capace di creare un’atmosfera rara con gli attori e la troupe. Sa motivarti, darti fiducia e tirarti fuori il meglio”.
Mentre L’industriale dovrebbe andare in anteprima al Festival di Roma, il 7 ottobre sarà in sala, distribuita da Medusa, la commedia di Marco Ponti Ti amo troppo per dirtelo (qui, una scena).
“E’ una commedia romantica ambientata a Torino. Io interpreto Stella, una giovane attrice che arriva in città per girare il suo primo film da protagonista e inizia una storia con Pietro, avvocato divorzista che ha il volto di Fabio Troiano, fidanzatissimo con la ricercatrice universitaria Francesca, interpretata da Jasmine Trinca. Dopo aver gestito per un po’ questo triangolo, Pietro va in crisi quando le due donne si conoscono. Nel cast ci sono anche Francesco Scianna ed Enrico Bertolino”.
A proposito di commedie, c’è qualche possibilità di assistere a un ritorno di Boris, al cinema o in tv?
“A me e agli altri attori piacerebbe moltissimo, perché siamo tutti fans della serie. Però, credo che gli autori vogliano misurarsi con altri progetti. Io, però, resto boris-dipendente e quando ho gli attacchi d’insonnia mi riguardo le vecchie puntate. E firmerei in bianco per tornare a interpretare l’attrice-cagna Corinna”.
Oscilla tra commedia e thriller, invece, Breve storia di lunghi tradimenti di Davide Marengo. Cosa devono aspettarsi gli spettatori?
“Un thriller grottesco che sarà molto apprezzato da chi ha conosciuto Davide per Notturno Bus. Sono tornata qualche settimana fa, pochi giorni prima dell’Ischia Global Fest, dalla Colombia, dove abbiamo terminato le riprese dopo Roma, Torino, Londra e la Bolivia. La storia è ambientata nell’ambiente dell’alta finanza globalizzata, con azione, intrighi, amore ma anche ironia. Io sono Cecilia, la spietata amministratrice delegata di una banca internazionale, pronta a mettere nei guai il protagonista Giulio interpretato da Guido Caprino. Con noi ci sono anche Maya Sansa, Philippe Leroy, Ennio Fantastichini e Francesco Pannofino”.
C’è un altro suo nuovo film, stavolta televisivo, destinato a far molto discutere. Di che si tratta?
“S’intitola Il segreto del web e lo ha diretto Marco Pontecorvo. Andrà in onda sulla Rai in autunno, nell’ambito della serie di quattro film Un corpo in vendita, prodotta da Claudia Mori e dedicata al tema della violenza sulle donne. Io e Francesca Inaudi interpretiamo due studentesse che si spogliano per il web e che dovranno fronteggiare il lato oscuro della Rete. Ho detestato il mio personaggio per buona parte delle riprese, perché mi ha fatto sentire nuda dentro pur senza esserlo mai sul set”.

sabato 6 agosto 2011

UN BEL LIBRO SUL CINEMA MELO' ITALIANO ANNI '50

Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 4 agosto 2011)


C’è stata un’epoca, in Italia, caratterizzata da un’industria cinematografica forte, capace di intercettare (e spesso anticipare) gli umori del Paese per trasformarli in intrattenimento popolare ma di qualità, magari declinato attraverso le coordinate narrative dei generi e arricchito dallo sguardo di cineasti dotati di sicuro talento. In questo contesto artistico-industriale di primo livello un posto rilevante lo occupa il melò filmico degli anni Cinquanta, “super-genere” nel quale confluiscono le eredità dell’opera lirica, della sceneggiata napoletana e del romanzo d’appendice, calate in quegli stessi scenari fortemente contemporanei portati sul grande schermo qualche anno prima dal neorealismo.
Al centro di questi film cosiddetti “strappalacrime”, in un periodo storico dominato dalla centralità del cinema tra gli svaghi degli italiani (fin oltre la metà del decennio, infatti, assorbe più del sessanta per cento della spesa per il tempo libero), si stagliano figure attoriali, soprattutto femminili, capaci di dare vita a un autentico nuovo divismo nazional-popolare: dalla Sophia Loren de La donna del fiume alla Gina Lollobrigida de La provinciale, da Silvana Pampanini a Lucia Bosè, dalla Silvana Mangano dell’epocale Riso amaro (per il quale Renato Guttuso dipinse una serie di suggestive locandine-gouaches) a Eleonora Rossi Drago e Yvonne Sanson. Si tratta di volti e corpi fatti apposta per far sognare e commuovere un’Italia sempre meno contadina e più urbanizzata, in un raffinato gioco di incroci e rimandi tra i film e il loro pubblico, tra l’universo di celluloide e la realtà circostante: donne spesso piangenti o comunque perdute, alle prese con mariti emigrati e amanti spregiudicati; perennemente in bilico tra innocenza e dannazione, purezza e trasgressione.
Come fa notare Emiliano Morreale nel suo notevole saggio Così piangevano (Donzelli editore, 336 pagine, 25 euro), dedicato al cinema melò nell’Italia degli anni Cinquanta, nei film italiani “non si è mai pianto tanto” come durante quel decennio, simbolicamente inaugurato da Catene di Raffaello Matarazzo, campione d’incassi nella stagione 1949-1950, coprodotto da Goffredo Lombardo, figlio di quel Gustavo vecchio produttore di film napoletani all’epoca del muto, liberamente tratto da Lacreme napulitane di Libero Bovio. Matarazzo sfrutta abilmente le suggestioni derivanti dai melodrammi vesuviani realizzati in quegli stessi anni da un cineasta geniale seppur estremamente discontinuo come il napoletano Roberto Amoroso, autore di titoli cult come Malaspina, Nennella, La figlia della Madonna. Dai film di Amoroso e da quelli di altri registi partenopei come Natale Montillo, Enzo Di Gianni, Antonio Ferrigno, Ettore Fizzarotti, Giacomo Gentilomo (analizzati da Morreale in un capitolo apposito), il celebre capofila del cosiddetto “neorealismo popolare” trae situazioni, temi, personaggi e suggestioni della celeberrima trilogia composta, oltre che da Catene, anche da Tormento e I figli di nessuno, dominando le classifiche d’incasso dell’epoca.
Seppure ulteriormente “cartolinizzata” ed edulcorata rispetto a quella produzione coeva naif ma ruspante, Napoli è protagonista di tanti melò cinematografici italiani del periodo, nei quali gli autori cercano di offrire al pubblico nazionale ciò che su scala locale aveva conquistato la platea vesuviana. Un caso a parte, però, è rappresentato da una pellicola che lavora in maniera raffinata sull’icona Napoli, diretta nel 1953 da un cineasta talentuoso e pienamente consapevole come Giuseppe De Santis, che pochi anni prima era stato tra i teorici più estremi della svolta neorealista: si tratta di Un marito per Anna Zaccheo, interpretata da un tris d’assi formato da Silvana Pampanini, Massimo Girotti e quello stesso Amedeo Nazzari assurto a simbolo del melò grazie ai film matarazziani. La Anna Zaccheo tratteggiata da una Pampanini mai più così credibile è, secondo Morreale, “una donna condannata dalla propria bellezza, una maggiorata tragica le cui sventure nascono dall’impulso sessuale che ella suscita nei maschi”. Il film, però, è come pochi altri anche una raffinata riflessione sul sistema dei media in mutamento, tra tradizione delle canzoni e delle sceneggiate napoletane e novità rappresentate dai fotoromanzi e da un’industria pubblicitaria sempre più invadente; e, più in generale, riesce ad anticipare temi e personaggi che emergeranno compiutamente soltanto qualche anno più tardi, col boom economico.

martedì 2 agosto 2011

PARLA KENNY ORTEGA: "IL MIO AMICO MICHAEL JACKSON"

Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 1 agosto 2011)


Alla fine del mese, per la precisione il 29 agosto, Michael Jackson avrebbe compiuto 53 anni. Purtroppo per i milioni di fans che ancora lo idolatrano, però, il 25 giugno di due anni fa il destino ha fatto scelte differenti. Tra i tanti amici inconsolabili che il geniale pop artist di Thriller e Bad ha lasciato dietro di sé occupa certamente un posto di rilievo Kenny Ortega, il sessantunenne vulcanico regista e coreografo - ospite d’onore, in luglio, dell’Ischia Global Film & Music Fest - autore di fenomeni mediatici per teenagers come i cicli di tv movies di Cheetah Girls e, soprattutto, High School Musical.
Ortega, infatti, è stato per anni fedele collaboratore, nonché amico sincero, di Jackson e, come tale, possiede i giusti requisiti per ricordarlo fuor di retorica (qui, nella foto, i due insieme sul set di This Is It). “Michael è stata la persona più generosa che io abbia mai conosciuto”, esordisce mostrando una sincera commozione. “Per lui, infatti, i rapporti umani erano fondamentali - prosegue Ortega - anche mentre si lavorava. Nel suo corpo sempre più fragile ha albergato fino all’ultimo una straordinaria umanità. E il suo essere così buono, timido e persino indifeso lo ha portato a quella simbiosi assoluta col suo pubblico, senza alcuna barriera di tipo emotivo”.
Ortega, lei ha diretto This Is It, sorta di testamento cinemusicale di Michael Jackson. E, dunque, lo ha frequentato fino all’ultimo. Cosa ricorda del momento della sua scomparsa?
“Eravamo allo Staples Center di Los Angeles, dove stavamo proseguendo nell’organizzazione delle prove per la tournée. Stavamo aspettando tutti che Michael tornasse per riprendere il lavoro che avevamo terminato assieme la sera prima. Poi, all’improvviso, giunse quella maledetta telefonata, nella quale ci avvertivano che c’era stato un incidente. Così, uno dei produttori raggiunse di corsa l’ospedale, mentre noi rimanemmo lì, tutti assieme come una vera famiglia, in attesa di notizie. Purtroppo, dopo un po’, arrivò la seconda telefonata, con la conferma della morte”.
Come sono state le ultime settimane di vita di un così grande artista?
“Ricordo soprattutto che Michael era davvero felice di tornare sul palco, dopo un periodo buio della sua carriera e della sua vita. Ci voleva tornare con tutte le sue forze, anzitutto per i figli, che erano diventati più grandi e avrebbero potuto apprezzarne il lavoro. Insomma, voleva fargli vedere ciò di cui era capace il loro papà. Durante i mesi di prove che ho filmato in This Is It, Michael stava muovendo i primi passi e, fondamentalmente, stava provando a recuperare, prima di ogni altra cosa, la forza fisica e quella vocale. Naturalmente, eravamo tutti consapevoli delle difficoltà di quella nuova tournée, ma principalmente perché non sapevamo se saremmo stati in grado di tramutare in realtà ciò che Michael aveva nella mente”.
Era davvero tanto geniale?
“Assolutamente sì. E, secondo me, aveva ancora tanto da dare ai fans. Michael era realmente un genio, una sorta di miracolo della musica e della danza incarnato in un essere umano. Rispetto a tanti altri grandi artisti, aveva una comprensione della performance talmente profonda e sofisticata da porsi a un livello superiore, impossibile da raggiungere per chiunque altro. Devo dire, tra l’altro, che aver potuto assistere a tutto ciò di persona, come suo collaboratore creativo, è stato incredibile e impagabile”.
Da quanto tempo vi conoscevate?
“Dall’inizio degli anni Novanta, dai tempi di Dangerous. Fu allora che iniziammo a lavorare insieme e, da quel momento, ogni volta che mi chiamava mollavo gli altri progetti ai quali stavo lavorando e correvo da lui”.
Fece la stessa cosa anche per la nuova tournée?
“Sì. Lo raggiunsi a casa e lo trovai con gli occhi scintillanti dall’emozione, anche se col fisico gracile e piuttosto provato. Comunque, da visionario autentico qual è sempre stato, iniziò immediatamente a raccontarmi ciò che avrebbe voluto realizzare col nuovo tour. E ricordo una cosa soprattutto: ci teneva al fatto che lo spettacolo avrebbe dovuto portare gioia”.
Michael Jackson è il re del pop, mentre un altro grandissimo come Elvis Presley è passato alla storia come il re del rock ‘n’ roll. Per lei, è possibile fare un paragone tra questi due straordinari artisti senza tempo?
“Senza Elvis la nostra epoca sarebbe sicuramente stata diversa, perché durante gli anni Cinquanta il suo avvento fu un segnale dirompente di libertà per milioni di giovani statunitensi. Senza Michael, però, non sarebbe esistita la musica senza barriere e senza colore, grazie alla sua capacità innata di superare qualsiasi limite e confine”.