Il fatto che, negli anni Sessanta, gli americani abbiano ribattezzato proprio “spaghetti western” i film italiani che, da Sergio Leone in poi, rileggevano con sguardo europeo il mito della Frontiera la dice lunga su come, nell’immaginario collettivo planetario, la pasta sia considerata uno tra i simboli più immediatamente riconoscibili dell’italianità.
E, lungo la sua storia, proprio il cinema italiano ha fatto ricorso in innumerevoli occasioni a un bel piatto di maccheroni o spaghetti per arricchire e tratteggiare in maniera rapida ed efficace personaggi e situazioni. La prima immagine

che torna alla mente dell’appassionato è quella di Totò in piedi sul tavolo, impegnato in una danza quasi da baccanale in
Miseria e nobiltà, pronto a soddisfare una fame atavica arraffando spaghetti a più non posso, in bocca, nelle tasche del soprabito, ovunque, quasi come colto da vero e proprio raptus. Altra sequenza immortale, poi, è quella dello “yankee” Nando Moriconi interpretato da Alberto Sordi in
Un americano a Roma, dove va in scena un autentico duello tra un piatto di maccheroni e il protagonista coatto ante litteram. Nel secondo dopoguerra, comunque, la pasta è onnipresente nel cinema italiano, sia nelle pellicole neorealiste che nelle commedie che portano agli anni del Boom sessantesco. I significati, però, sono diversissimi. Così, se nel capolavoro-simbolo del neorealismo,
Roma città aperta di Rossellini, l’Italia che esce affamata e speranzosa dalla guerra è ben incarnata nel nonno che raccomanda al nipote avviato alle nozze di non litigare con la futura sposa e far saltare la cerimonia perché “se dovemo fa’ ‘na magnata”, invece in commedie come
I soliti ignoti di Mario Monicelli la fascinazione della pasta è più suadente e leggera, tale però da far fermare la banda di ladri da strapazzo formata, tra gli altri, da Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni e Totò di fronte a un piatto di pasta e fagioli mentre è in atto la “rapina del secolo”.
Il legame tra la pasta e il cinema italiano, comunque, è molto stretto e sono davvero tanti gli interpreti di rango che, nell’ambito di pellicole più o meno celebri, hanno avuto a che fare con un bel piatto di pastasciutta fumante: dalla Anna Magnani de
L’onorevole Angelina ai giovani altrettanto proletari di
Domenica d’agosto e
Poveri ma belli, dal Totò emigrato in Spagna e improvvisato torero di
Fifa e arena al clamoroso Aldo Fabrizi de
La famiglia Passaguai, dai ripetuti omaggi felliniani fino alla Sabrina Ferilli del più recente
Ferie d’agosto di Paolo Virzì, dalla famiglia di pastai pugliesi - è storia dell’anno scorso - del premiato
Mine vaganti di Ferzan Ozpetek ai cortometraggi d’autore prodotti in questi anni dal pastificio Garofalo di Gragnano e affidati a nomi celebri come Valeria Golino o Terry Gilliam.
L’omaggio più romantico alla pasta intesa come elemento capace di condizionare in meglio l’esistenza, però, arriva probabilmente da Hollywood. E non da un film con attori in carne e ossa, bensì da quel capolavoro dell’animazione che è il disneyano
Lilli e il vagabondo, nel quale i due cagnolini protagonisti s’innamorano proprio davanti a un bel piatto di spaghetti al pomodoro, servito da un cuoco che, naturalmente, è di origini italiane.
Nessun commento:
Posta un commento