sabato 6 agosto 2011

UN BEL LIBRO SUL CINEMA MELO' ITALIANO ANNI '50

Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 4 agosto 2011)


C’è stata un’epoca, in Italia, caratterizzata da un’industria cinematografica forte, capace di intercettare (e spesso anticipare) gli umori del Paese per trasformarli in intrattenimento popolare ma di qualità, magari declinato attraverso le coordinate narrative dei generi e arricchito dallo sguardo di cineasti dotati di sicuro talento. In questo contesto artistico-industriale di primo livello un posto rilevante lo occupa il melò filmico degli anni Cinquanta, “super-genere” nel quale confluiscono le eredità dell’opera lirica, della sceneggiata napoletana e del romanzo d’appendice, calate in quegli stessi scenari fortemente contemporanei portati sul grande schermo qualche anno prima dal neorealismo.
Al centro di questi film cosiddetti “strappalacrime”, in un periodo storico dominato dalla centralità del cinema tra gli svaghi degli italiani (fin oltre la metà del decennio, infatti, assorbe più del sessanta per cento della spesa per il tempo libero), si stagliano figure attoriali, soprattutto femminili, capaci di dare vita a un autentico nuovo divismo nazional-popolare: dalla Sophia Loren de La donna del fiume alla Gina Lollobrigida de La provinciale, da Silvana Pampanini a Lucia Bosè, dalla Silvana Mangano dell’epocale Riso amaro (per il quale Renato Guttuso dipinse una serie di suggestive locandine-gouaches) a Eleonora Rossi Drago e Yvonne Sanson. Si tratta di volti e corpi fatti apposta per far sognare e commuovere un’Italia sempre meno contadina e più urbanizzata, in un raffinato gioco di incroci e rimandi tra i film e il loro pubblico, tra l’universo di celluloide e la realtà circostante: donne spesso piangenti o comunque perdute, alle prese con mariti emigrati e amanti spregiudicati; perennemente in bilico tra innocenza e dannazione, purezza e trasgressione.
Come fa notare Emiliano Morreale nel suo notevole saggio Così piangevano (Donzelli editore, 336 pagine, 25 euro), dedicato al cinema melò nell’Italia degli anni Cinquanta, nei film italiani “non si è mai pianto tanto” come durante quel decennio, simbolicamente inaugurato da Catene di Raffaello Matarazzo, campione d’incassi nella stagione 1949-1950, coprodotto da Goffredo Lombardo, figlio di quel Gustavo vecchio produttore di film napoletani all’epoca del muto, liberamente tratto da Lacreme napulitane di Libero Bovio. Matarazzo sfrutta abilmente le suggestioni derivanti dai melodrammi vesuviani realizzati in quegli stessi anni da un cineasta geniale seppur estremamente discontinuo come il napoletano Roberto Amoroso, autore di titoli cult come Malaspina, Nennella, La figlia della Madonna. Dai film di Amoroso e da quelli di altri registi partenopei come Natale Montillo, Enzo Di Gianni, Antonio Ferrigno, Ettore Fizzarotti, Giacomo Gentilomo (analizzati da Morreale in un capitolo apposito), il celebre capofila del cosiddetto “neorealismo popolare” trae situazioni, temi, personaggi e suggestioni della celeberrima trilogia composta, oltre che da Catene, anche da Tormento e I figli di nessuno, dominando le classifiche d’incasso dell’epoca.
Seppure ulteriormente “cartolinizzata” ed edulcorata rispetto a quella produzione coeva naif ma ruspante, Napoli è protagonista di tanti melò cinematografici italiani del periodo, nei quali gli autori cercano di offrire al pubblico nazionale ciò che su scala locale aveva conquistato la platea vesuviana. Un caso a parte, però, è rappresentato da una pellicola che lavora in maniera raffinata sull’icona Napoli, diretta nel 1953 da un cineasta talentuoso e pienamente consapevole come Giuseppe De Santis, che pochi anni prima era stato tra i teorici più estremi della svolta neorealista: si tratta di Un marito per Anna Zaccheo, interpretata da un tris d’assi formato da Silvana Pampanini, Massimo Girotti e quello stesso Amedeo Nazzari assurto a simbolo del melò grazie ai film matarazziani. La Anna Zaccheo tratteggiata da una Pampanini mai più così credibile è, secondo Morreale, “una donna condannata dalla propria bellezza, una maggiorata tragica le cui sventure nascono dall’impulso sessuale che ella suscita nei maschi”. Il film, però, è come pochi altri anche una raffinata riflessione sul sistema dei media in mutamento, tra tradizione delle canzoni e delle sceneggiate napoletane e novità rappresentate dai fotoromanzi e da un’industria pubblicitaria sempre più invadente; e, più in generale, riesce ad anticipare temi e personaggi che emergeranno compiutamente soltanto qualche anno più tardi, col boom economico.

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