domenica 24 novembre 2013

CYOP&KAF E "IL SEGRETO" DEL CIPPO DI SANT'ANTONIO

Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 24 novembre 2013)

Soltanto chi conosce i Quartieri spagnoli come le proprie tasche e gode della fiducia dei residenti avrebbe potuto restituire con tale naturalezza le quotidianità dei piccoli scugnizzi del rione, raccontandoli letteralmente “dal di dentro” nel documentario “Il segreto”, proiettato in anteprima ieri pomeriggio al Torino Film Festival (tanti applausi in una sala gremita), nell’ambito della sezione competitiva Italiana.Doc 2013.
Non sorprende, dunque, che a firmare la regia del film – il loro esordio dietro una macchina da presa – siano i misteriosi street artists partenopei noti come Cyop&Kaf, che da diversi anni, ormai, arricchiscono le architetture urbane di Napoli, dal centro antico alle periferie de-industrializzate, con centinaia di coloratissimi e spesso inquietanti murales. Non sorprende, perché dal 2009 Cyop&Kaf agiscono soprattutto nel cuore dei Quartieri spagnoli, dove hanno realizzato la cifra record di 223 interventi artistici su muri di tufo, saracinesche arrugginite, bassi, bar, garage, edifici pericolanti o puntellati, raccogliendoli qualche mese fa anche in un libro, “Qs – Quore spinato”, accompagnato da una vera e propria mappa per poterli poi ritrovare e visitare in maniera più agevole, calandosi nel dedalo di vicoli del quartiere.
Negli 89 minuti de “Il segreto” – prodotto da Quore Spinato, Parallelo 41 e Napoli Monitor, da un soggetto di Luca Rossomando e con musiche originali di Enzo Avitabile – Cyop&Kaf raccontano le avventure di un gruppo di ragazzini dei Quartieri spagnoli, di età compresa tra i 10 e i 13-14 anni, i quali, subito dopo la fine delle vacanze natalizie, iniziano a girare per la città, spingendosi anche molto lontano dal loro territorio di riferimento, alla ricerca della maggior quantità possibile di abeti natalizi appena dismessi, per raccoglierli e destinarli al tradizionale falò propiziatorio del “cippo di Sant’Antonio”, che il 17 gennaio chiude il ciclo invernale dei riti caratterizzati dal segno della morte per aprire la fase relativa alla rinascita, culminante poi con le celebrazioni del Carnevale. In molti quartieri di Napoli – sottolineano Cyop&Kaf – la raccolta degli alberi per il falò del giorno di Sant’Antonio è una tradizione, un rito, un gioco avventuroso che i ragazzi di strada si tramandano di generazione in generazione. Per chi li osserva da fuori è spesso soltanto una sequenza di atti di teppismo e schiamazzi fino a tarda ora, che si conclude con un pericoloso incendio troppo vicino ai palazzi. Da parte nostra, volevamo raccontare ciò che accade in molte strade della città nel mese di gennaio, da un punto di vista il più possibile prossimo a quello di una banda di ragazzi, seguendoli nelle loro ricerche, osservando le alleanze e le scaramucce con altre bande, documentandone caratteri, linguaggio e codici di comportamento. Eravamo certi che, in questo modo, sarebbero emerse spontaneamente tutte le domande che ci facciamo da tempo e che è necessario farsi sul rapporto tra i bambini e la città”.
“Il segreto” del titolo è il luogo nel quale gli scugnizzi di ciascun quartiere ammassano la legna raccolta in giro, per proteggerla dalle incursioni dei gruppi provenienti dai rioni vicini. Così, nel documentario, la banda di Checco Lecco accumula abeti di tutte le taglie, ma anche pannelli di compensato e pezzi di cassonetti sfasciati, in un cortile abbandonato, delimitato da quattro mura cadenti e lasciato libero dall’abbattimento di un palazzo danneggiato dal terremoto del 1980. Come si apprende dalle immagini amatoriali di repertorio che, dopo i titoli di coda, chiudono la proiezione, la demolizione dell’edificio risale al 1993, cioè addirittura a vent’anni prima, trascorsi dagli abitanti del quartiere nella vana attesa che quello spazio venisse destinato a qualcosa di utile per la collettività. Così, quando il giorno prima del “cippo” i ragazzini vengono cacciati dai vigili urbani, che vorrebbero impedire loro di appiccare il fuoco su quel pezzo di terra abbandonata, non si può che solidarizzare con le loro lamentele per un campetto di calcio “chiesto da più di 15 anni e mai realizzato”.
Le frenetiche ricerche, le schermaglie e le piccole e grandi tensioni, le odissee notturne tra ostacoli e imprevisti sono catturate da Cyop&Kaf con una macchina da presa estremamente mobile e calata all’altezza degli sguardi dei ragazzini protagonisti, quasi come se l’operatore fosse uno di loro. E la naturalezza con la quale gli scugnizzi continuano a comportarsi proprio come se non fossero ripresi deriva evidentemente dalla fiducia totale nei confronti di chi è dietro l’obiettivo. Il culmine del film, com’è ovvio, arriva nel momento catartico del falò, con i ragazzi che danzano felici tutt’intorno alle fiamme altissime, liberi in quei momenti da qualunque paura o timore nei confronti del presente e del futuro.

RITORNO ALLA MERINI PER ANTONIETTA DE LILLO

Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 22 novembre 2013)

Con il suo nuovo documentario “La pazza della porta accanto”, che domenica apre la sezione “E intanto in Italia” del Torino Film Festival 2013, Antonietta De Lillo prosegue nella ricerca sui nuovi linguaggi e formati di ciò che è diventato oggi il cinema, concretizzando un desiderio coltivato per anni, almeno da quel 1995 che la vide firmare la regia di “Ogni sedia ha il suo rumore”, dedicato alla figura inimitabile di Alda Merini.
Ma se l’omaggio di 18 anni fa a una tra le più importanti poetesse del Novecento alternava frammenti di video-intervista alla performance di Licia Maglietta nello spettacolo teatrale “Delirio amoroso”, per il suo ritorno alla Merini dopo quasi due decenni la regista napoletana ha deciso di recuperare, rielaborare, rimontare e riportare a nuova luce la quasi totalità dei materiali inediti girati durante la conversazione dell’epoca. “Furono due giorni intensissimi – ricorda Antonietta De Lillo – nei quali parlammo davvero di tutto. Ma, poi, nel realizzare “Ogni sedia ha il suo rumore”, montai parte di quel materiale con l’esibizione teatrale di Licia, tagliando inevitabilmente fuori una gran parte dell’intervista. Da allora, ho sempre avuto nel cuore l’idea di recuperare le immagini preziose rimaste nel cassetto, confluite oggi nel nuovo film, che in pratica restituisce integralmente il senso e i contenuti di quello straordinario incontro”.
“La pazza della porta accanto” è prodotto da marechiarofilm – la società fondata dalla De Lillo “con l’intento di favorire l’incontro e lo scambio tra generazioni diverse e tra cinema e rete, andando contro l’usa e getta e recuperando materiali filmici importanti per la nostra memoria” – assieme a Rai Cinema e riprende il titolo di una raccolta di prose che Alda Merini scrisse nel 1955. I filmati della conversazione ripresi dall’archivio Megaris sono intervallati con suggestive riprese di Milano realizzate da Luca Musella tra il centro e i navigli, caricate di ulteriore senso dal commento sonoro di Philippe Sarde (“La vie devant soi”) e, in alcuni casi, girate quasi come se fossero soggettive della poetessa. Durante la chiacchierata, informale e dai toni quasi intimi, la Merini si racconta oscillando tra pubblico e privato, soffermandosi sui periodi e i temi più significativi della propria esistenza: l’infanzia, la sua femminilità, gli amori, l’esperienza della maternità e il rapporto con i figli, naturalmente la follia e i tanti periodi di internamento negli ospedali psichiatrici (“Io ho fatto 27 ricoveri e per 26 volte mi sono innamorata”), fino a una lucida riflessione sul significato e il ruolo della poesia e dell’arte. Dopo la bellissima frase conclusiva (“Ci sono deliri di lettura che portano così in alto e valgono proprio un orgasmo fisico e vanno oltre…”), la chiusura è per la voce di Ascanio Celestini che, sui titoli di coda, canta una struggente “L’amore stupisce”.
Nel film, Antonietta De Lillo ha fatto confluire le recenti esperienze dei film partecipati realizzati in questi anni (“Il pranzo di Natale” e il nuovo “Oggi insieme, domani anche”, del quale saranno mostrate alcune clip sempre a Torino). “Ma stavolta è stato divertente – spiega – lavorare su materiali miei, trattandoli come se fossero filmati di archivio. Ciò mi ha permesso di pormi nei confronti di quelle immagini quasi da spettatrice esterna, per provare a farle parlare in maniera inedita. Per comporre il ritratto complesso di Alda Merini, poi, mi sono aiutata anche con i dettagli significanti del suo volto, degli occhi, delle mani, di un corpo capace di farsi a sua volta elemento narrativo”.
In un momento felice per il cinema italiano del reale, l’approccio di Antonietta De Lillo al documentario resta originale. “Credo nel concetto di “film partecipato” e – sottolinea la regista – proseguirò anche in futuro su questa strada, tra sguardo al futuro e recupero della memoria. E mi sembra che, anche da parte del pubblico italiano, vi sia voglia di un altro tipo di cinema. Però, al tempo stesso, 10 anni dopo “Il resto di niente” per me è anche giunto il momento per un nuovo film di finzione: terminerò presto la sceneggiatura e vorrei girarlo a Napoli nella seconda metà del prossimo anno”.

domenica 17 novembre 2013

DI "RITRATTI ABUSIVI" E NUOVO CINEMA ITALIANO DEL REALE

Di Diego Del Pozzo

Il cinema italiano del reale continua a mietere successi nei principali festival specializzati, con la speranza che non si tratti di una voglia delle giurie di sentirsi alla moda - della serie "real is cool" - ma di un sincero riconoscimento allo sguardo di una generazione di cineasti indipendenti che, proprio attraverso il documentario, pare aver recuperato la capacità di narrare sullo schermo cinematografico le complessità di ciò che ci circonda, in un momento storico nel quale le certezze (anche linguistiche) si fanno sempre più labili.
Così, dopo il successo di "Sacro GRA" di Gianfranco Rosi alla Mostra di Venezia, ieri sera la giuria del Festival di Roma presieduta da James Gray ha deciso di premiare come miglior film "Tir", affascinante mix di finzione e realtà realizzato dal documentarista Alberto Fasulo, che ha coinvolto l'attore Branko Zavrsan, facendogli interpretare (ma, forse, il termine è improprio) un autista di tir in giro per l'Europa per tre mesi, dopo averlo fatto assumere a tempo determinato da una ditta di trasporti italiana.
Un panorama del Parco Saraceno da "Ritratti abusivi"
Sempre a Roma 2013, in un'edizione che ha visto anche Vincenzo Marra tornare a raccontare Napoli dal di dentro col suo "L'amministratore", s'è distinto un altro film indipendente, selezionato in Prospettive Doc Italia e realizzato dal quarantenne filmaker casertano Romano Montesarchio: s'intitola "Ritratti abusivi" ed è il lavoro col quale Montesarchio è ritornato a girare sul litorale domizio, dopo il suo bel documentario del 2008 "La Domitiana". Prodotto da Figli del Bronx assieme a Rai Cinema, col montaggio di Roberto Perpignani in collaborazione con Davide Franco (anche aiuto regia), "Ritratti abusivi" si concentra su un microcosmo umano sconosciuto e straordinariamente interessante, dal punto di vista narrativo e, naturalmente, sociologico: quello che vive la propria quotidianità tra i ruderi sempre più abbandonati del Parco Saraceno, un complesso edilizio abusivo costruito nel Villaggio Coppola di Pinetamare a Castelvolturno negli anni Sessanta e, poi, caduto in totale degrado dopo che gli americani della Nato di stanza in zona decisero di trasferirsi altrove.
Fu proprio allora che i costruttori Coppola decisero di murare porte e finestre dei vari edifici, per impedirne un’occupazione abusiva che, invece, si realizzò a tempo di record e che dura ancora oggi, nel disinteresse delle Istituzioni locali e nazionali. “Da questo punto di vista - mi racconta Montesarchio pochi giorni prima del festival capitolino - il mio film è anche la storia del fallimento di uno Stato che ha permesso la cementificazione selvaggia di decine di chilometri di costa campana e che, in più, ha fatto sì che le architetture geometriche e rigorose di quei luoghi generassero un caos umano fatto di persone che occupano abusivamente un parco a sua volta abusivo”.
Quella di Romano Montesarchio, in una sorta di enclave quasi extraterritoriale, è stata un’autentica full immersion, durata oltre un anno, “proprio per entrare in modo delicato nelle quotidianità di coloro che poi avrei ripreso, per conquistare la loro fiducia e, al tempo stesso, per fargli comprendere bene quali erano i miei intenti. Poi, tra riprese e postproduzione, ho lavorato a questo progetto per un totale di due anni e mezzo. Ho trascorso mesi - aggiunge il regista - a spostarmi tra una casa e l’altra, tra intonaci ammuffiti, finestre improvvisate e arredamenti surreali: elementi di un mondo a parte che, nonostante tutto, esprime una vitalità quasi da paese dei balocchi, con luci sempre accese, le porte delle case sempre aperte come antri, balconi spesso privi di ringhiere e somiglianti a trampolini sospesi sul mare. Insomma, quella del Parco Saraceno è una realtà che reclama di essere vista da dentro, proprio per dare la possibilità di meravigliarsi per l’inverosimile felicità dei suoi abitanti”.
Tra gli elementi più sorprendenti del film, infatti, vi è proprio l’inattesa felicità di tanti residenti in un luogo così degradato. “Ed è un elemento assolutamente naturale - spiega Montesarchio - e non provocato dalla mia presenza: molti di loro sono davvero felici, anche se non godono di servizi essenziali come la corrente elettrica o l’acqua corrente, che da abusivi si sono procurati in modo abusivo. D’altra parte, come spiega bene un vulcanico personaggio soprannominato ‘o ‘mericano, di fronte a loro c’è il mare, a poche centinaia di metri il centro sportivo del Napoli, ognuno vive in famiglie solidissime e, cosa molto importante per chi si trova in stato d’indigenza, non esistendo per lo Stato nessuno di loro paga le tasse”.
"Ritratti abusivi" rende le vite degli abitanti del Parco Saraceno materia narrativa incandescente, arricchita da una visionarietà di sguardo capace di caricare quelle quotidianità ai margini di ulteriore senso puramente cinematografico, senza mai andare a discapito di un'autenticità "bigger than life" proprio perché assolutamente realistica. Se non fosse un documentario, il film di Montesarchio sarebbe un apologo fantascientifico sulle transmutazioni della società occidentale all'epoca di una globalizzazione che continua a rimasticare e vomitare se stessa abbandonando al loro destino intere parti di mondo "abusive" e, dunque, di fatto non esistenti. Guardando "Ritratti abusivi" si piange, si ride, si resta sbigottiti, si prova rabbia, ci s'innamora. Insomma, ci si sente vivi, come sempre dovrebbe essere di fronte alla potenza immaginifica del buon cinema.
Il film si apre e si chiude con un raro filmato pubblicitario anni Sessanta di Villaggio Coppola, reso poi inquietante e quasi orwelliano (a proposito di science fiction...) dal futuro destino di degrado e abbandono dell’area e, dunque, dal concreto "farsi" del documentario. “Di quel filmato - conclude il regista - esiste un’unica copia in pellicola, conservata dall’esercente del locale cinema Bristol. Quando ho deciso di usarlo lui ne è stato felice, perché mi ha detto che così avrei salvato la memoria di quelle immagini che, altrimenti, sarebbe andata perduta. Lo stesso si può dire per l’umanità che vive in questa terra di frontiera sconosciuta ai più, che ho provato a restituire attraverso autentici ritratti di ciascuno, dichiarati fin dal titolo, facendoli parlare direttamente allo spettatore per raccontare le loro verità senza filtri né sovrastrutture. E spero che, dopo il successo veneziano di “Sacro Gra”, il documentario possa conquistare sempre più spazio anche nei cinema, perché sono sicuro che, pure in Italia, esistono tanti spettatori desiderosi di confrontarsi con film capaci di raccontare il reale”.

mercoledì 13 novembre 2013

SUL SET DEL FILM DI MARTONE SU GIACOMO LEOPARDI

Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 12 novembre 2013)

La giornata cupa e piovosa contribuisce a rendere ancora più suggestivo il set napoletano del nuovo film di Mario Martone, “Il giovane favoloso”, che si gira da ieri all’interno dell’ala monumentale dell’università Suor Orsola Benincasa. Nel film dedicato alla parabola esistenziale di Giacomo Leopardi, infatti, sarà proprio la storica cittadella universitaria a trasformarsi in una Napoli ottocentesca quasi horror messa letteralmente in ginocchio dall’epidemia di colera che la colpì nell’ottobre 1836 e che fece più di 20mila morti soltanto nei primi otto mesi, cioè fino a quel 14 giugno 1837 nel quale Leopardi morì nella casa di vico Pero condivisa con l’amico Antonio Ranieri.
Osservare il set del film di Martone, vuol dire fare un viaggio a ritroso nel tempo, per ritrovarsi calati in uno scenario da incubo fatto di cadaveri ammassati su carri trainati da cavalli, incappucciati che gettano i corpi delle vittime del colera nelle fosse comuni, grassi monaci che danno l’estrema unzione agli sventurati, roghi e fiamme purificatrici agli angoli di vicoli lerci e minacciosi. Lo scenario è quello delle Rampe storiche del Suor Orsola Benincasa, dove una figura longilinea ed elegante vestita di nero scende a passo veloce, coprendosi la bocca con un fazzoletto, come a volersi proteggere dal possibile contagio. Nella finzione filmica, la scalinata della cittadella universitaria diventa un vicolo del centro antico, lungo il quale il nobiluomo incrocia per un attimo una figura maschile di più umili origini. Alle spalle dei due uomini, alcuni personaggi incappucciati portano a braccio una serie di cadaveri e li gettano su un carro già ricolmo di corpi privi di vita, fermo nel cortile adiacente. Tutt’intorno è buio, in terra ci sono ovunque cenere e rifiuti, alcune fiamme bruciano alte, alimentate da un impianto a gas che, naturalmente, resta fuori dall’inquadratura.
Le riprese di questa scena sono piuttosto elaborate e occupano buona parte del pomeriggio di ieri, con una macchina da presa che, piazzata in un angolo a metà scalinata, segue in piano sequenza l’incrocio tra i due uomini, mentre un secondo operatore con camera a mano riprende gli incappucciati e i cadaveri sul carro nel cortile. Nel ruolo di Giacomo Leopardi c’è un Elio Germano totalmente immerso nel personaggio e tanto aderente a esso, fisicamente e psicologicamente, da aver fatto dire a Martone, prima dell’inizio delle riprese di settembre a Recanati, che “senza di lui non saremmo nemmeno andati avanti con la stesura della sceneggiatura, perché mi è sempre sembrato perfetto per il ruolo”.
Regista, attore protagonista e il resto della troupe e del cast sono arrivati a Napoli già da sabato, per una serie di sequenze ambientate nel centro storico, davanti agli Incurabili e nei pressi di via Duomo. Ma, da ieri, il grosso delle riprese è ospitato proprio all’interno del Suor Orsola Benincasa, dove la produzione resterà fino a venerdì e dove si girerà anche nello Spogliatoio falegnami e in una palazzina dismessa vicino all’aula magna, diventati due bassi; nella saletta adiacente alla Sala degli Angeli, dove è ricostruita una sagrestia; nell’aula Schulte, dove è allestita la stanza del poeta recanatese e all’interno del cunicolo dell’archivio, trasformato in un cimitero dell’epoca. Nei prossimi giorni, poi, Martone girerà a piazza Plebiscito, a Porta Capuana, nell’ex Lanificio, nella Biblioteca nazionale, all’Istituto italiano per gli Studi filosofici e sulla sommità del Vesuvio, per un totale di tre settimane di riprese partenopee, che concluderanno la lavorazione.
“Il giovane favoloso” è prodotto da Carlo Degli Esposti per Palomar e Rai Cinema. Per le riprese a Napoli, la produzione s’è avvalsa della collaborazione della Film Commission Regione Campania e dell’Amministrazione comunale. Girato anche a Recanati, Firenze e Roma, il film di Martone è interpretato, oltre che da Elio Germano, anche da Michele Riondino (Antonio Ranieri), Massimo Popolizio (il papà, il conte Monaldo Leopardi), Anna Mouglalis (Fanny Targioni Tozzetti), Isabella Ragonese (la sorella Paolina Leopardi), Paolo Graziosi, Edoardo Natoli e Iaia Forte.