domenica 17 novembre 2013

DI "RITRATTI ABUSIVI" E NUOVO CINEMA ITALIANO DEL REALE

Di Diego Del Pozzo

Il cinema italiano del reale continua a mietere successi nei principali festival specializzati, con la speranza che non si tratti di una voglia delle giurie di sentirsi alla moda - della serie "real is cool" - ma di un sincero riconoscimento allo sguardo di una generazione di cineasti indipendenti che, proprio attraverso il documentario, pare aver recuperato la capacità di narrare sullo schermo cinematografico le complessità di ciò che ci circonda, in un momento storico nel quale le certezze (anche linguistiche) si fanno sempre più labili.
Così, dopo il successo di "Sacro GRA" di Gianfranco Rosi alla Mostra di Venezia, ieri sera la giuria del Festival di Roma presieduta da James Gray ha deciso di premiare come miglior film "Tir", affascinante mix di finzione e realtà realizzato dal documentarista Alberto Fasulo, che ha coinvolto l'attore Branko Zavrsan, facendogli interpretare (ma, forse, il termine è improprio) un autista di tir in giro per l'Europa per tre mesi, dopo averlo fatto assumere a tempo determinato da una ditta di trasporti italiana.
Un panorama del Parco Saraceno da "Ritratti abusivi"
Sempre a Roma 2013, in un'edizione che ha visto anche Vincenzo Marra tornare a raccontare Napoli dal di dentro col suo "L'amministratore", s'è distinto un altro film indipendente, selezionato in Prospettive Doc Italia e realizzato dal quarantenne filmaker casertano Romano Montesarchio: s'intitola "Ritratti abusivi" ed è il lavoro col quale Montesarchio è ritornato a girare sul litorale domizio, dopo il suo bel documentario del 2008 "La Domitiana". Prodotto da Figli del Bronx assieme a Rai Cinema, col montaggio di Roberto Perpignani in collaborazione con Davide Franco (anche aiuto regia), "Ritratti abusivi" si concentra su un microcosmo umano sconosciuto e straordinariamente interessante, dal punto di vista narrativo e, naturalmente, sociologico: quello che vive la propria quotidianità tra i ruderi sempre più abbandonati del Parco Saraceno, un complesso edilizio abusivo costruito nel Villaggio Coppola di Pinetamare a Castelvolturno negli anni Sessanta e, poi, caduto in totale degrado dopo che gli americani della Nato di stanza in zona decisero di trasferirsi altrove.
Fu proprio allora che i costruttori Coppola decisero di murare porte e finestre dei vari edifici, per impedirne un’occupazione abusiva che, invece, si realizzò a tempo di record e che dura ancora oggi, nel disinteresse delle Istituzioni locali e nazionali. “Da questo punto di vista - mi racconta Montesarchio pochi giorni prima del festival capitolino - il mio film è anche la storia del fallimento di uno Stato che ha permesso la cementificazione selvaggia di decine di chilometri di costa campana e che, in più, ha fatto sì che le architetture geometriche e rigorose di quei luoghi generassero un caos umano fatto di persone che occupano abusivamente un parco a sua volta abusivo”.
Quella di Romano Montesarchio, in una sorta di enclave quasi extraterritoriale, è stata un’autentica full immersion, durata oltre un anno, “proprio per entrare in modo delicato nelle quotidianità di coloro che poi avrei ripreso, per conquistare la loro fiducia e, al tempo stesso, per fargli comprendere bene quali erano i miei intenti. Poi, tra riprese e postproduzione, ho lavorato a questo progetto per un totale di due anni e mezzo. Ho trascorso mesi - aggiunge il regista - a spostarmi tra una casa e l’altra, tra intonaci ammuffiti, finestre improvvisate e arredamenti surreali: elementi di un mondo a parte che, nonostante tutto, esprime una vitalità quasi da paese dei balocchi, con luci sempre accese, le porte delle case sempre aperte come antri, balconi spesso privi di ringhiere e somiglianti a trampolini sospesi sul mare. Insomma, quella del Parco Saraceno è una realtà che reclama di essere vista da dentro, proprio per dare la possibilità di meravigliarsi per l’inverosimile felicità dei suoi abitanti”.
Tra gli elementi più sorprendenti del film, infatti, vi è proprio l’inattesa felicità di tanti residenti in un luogo così degradato. “Ed è un elemento assolutamente naturale - spiega Montesarchio - e non provocato dalla mia presenza: molti di loro sono davvero felici, anche se non godono di servizi essenziali come la corrente elettrica o l’acqua corrente, che da abusivi si sono procurati in modo abusivo. D’altra parte, come spiega bene un vulcanico personaggio soprannominato ‘o ‘mericano, di fronte a loro c’è il mare, a poche centinaia di metri il centro sportivo del Napoli, ognuno vive in famiglie solidissime e, cosa molto importante per chi si trova in stato d’indigenza, non esistendo per lo Stato nessuno di loro paga le tasse”.
"Ritratti abusivi" rende le vite degli abitanti del Parco Saraceno materia narrativa incandescente, arricchita da una visionarietà di sguardo capace di caricare quelle quotidianità ai margini di ulteriore senso puramente cinematografico, senza mai andare a discapito di un'autenticità "bigger than life" proprio perché assolutamente realistica. Se non fosse un documentario, il film di Montesarchio sarebbe un apologo fantascientifico sulle transmutazioni della società occidentale all'epoca di una globalizzazione che continua a rimasticare e vomitare se stessa abbandonando al loro destino intere parti di mondo "abusive" e, dunque, di fatto non esistenti. Guardando "Ritratti abusivi" si piange, si ride, si resta sbigottiti, si prova rabbia, ci s'innamora. Insomma, ci si sente vivi, come sempre dovrebbe essere di fronte alla potenza immaginifica del buon cinema.
Il film si apre e si chiude con un raro filmato pubblicitario anni Sessanta di Villaggio Coppola, reso poi inquietante e quasi orwelliano (a proposito di science fiction...) dal futuro destino di degrado e abbandono dell’area e, dunque, dal concreto "farsi" del documentario. “Di quel filmato - conclude il regista - esiste un’unica copia in pellicola, conservata dall’esercente del locale cinema Bristol. Quando ho deciso di usarlo lui ne è stato felice, perché mi ha detto che così avrei salvato la memoria di quelle immagini che, altrimenti, sarebbe andata perduta. Lo stesso si può dire per l’umanità che vive in questa terra di frontiera sconosciuta ai più, che ho provato a restituire attraverso autentici ritratti di ciascuno, dichiarati fin dal titolo, facendoli parlare direttamente allo spettatore per raccontare le loro verità senza filtri né sovrastrutture. E spero che, dopo il successo veneziano di “Sacro Gra”, il documentario possa conquistare sempre più spazio anche nei cinema, perché sono sicuro che, pure in Italia, esistono tanti spettatori desiderosi di confrontarsi con film capaci di raccontare il reale”.

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