martedì 31 marzo 2009

E JARRE RACCONTO' LAWRENCE IN 5 MINUTI...

Di Vincenzo Esposito

"E' stata una delle mie grandi esperienze cinematografiche: vedere il sipario che si apre, ascoltare l'overture, e poi trovarmi al cospetto di un capolavoro". Così ricorda Martin Scorsese la prima volta che ha visto Lawrence d'Arabia al cinema, nel 1962. Maurice Jarre ha scritto musiche straordinarie per centinaia di film, sebbene Lawrence rimarrà per sempre il suo inimitabile capolavoro, talmente perfetto che il regista David Lean decise di concedergli un privilegio che mai prima di allora era stato accordato a un compositore di musiche per il cinema: quello di far precedere le note alle immagini, come ha ricordato lo stesso Scorsese. La "pre-credit overture" fu un'invenzione mozzafiato della coppia Lean-Jarre; luci soffuse in sala, e musica, solo musica.
Così inizia Lawrence: niente immagini, e nemmeno i soliti credits, bensì cinque minuti di schermo nero riempiti da una esemplare sintesi dell'intera colonna sonora che accompagnerà il film. L'intento - estremamente ambizioso - era quello di "annunciare" il plot narrativo attraverso i suoni.
Le prime note sono affidate ai tamburi: un florilegio di percussioni selvagge, tribali, misteriose e distanti, che sembrano emergere direttamente dalla sabbia del deserto del Nefud. Poi, lentamente, in crescendo, si fa spazio la musica del Tema di Lawrence: sensuale, epica, complessa eppure semplice, come in fondo è stata tutta l'opera di Maurice Jarre. Il fascino ambiguo del personaggio principale è già tutto rinchiuso in queste poche note.
Di nuovo l'eco lontana e polverosa delle percussioni mediorientali, che questa volta annuncia il tema antitetico a quello di Lawrence, l'Arab Theme: brutale, disperato, come poteva essere il popolo arabo alle prese con una lotta di liberazione che avrebbe dovuto affrancarlo dal giogo occidentale. Libertà, libertà! sembra gridare la musica di Maurice Jarre.
Ma ecco: una tipica marcetta militare britannica rompe l'incanto, e il sogno arabo dell'autonomia finisce ancor prima di cominciare. L'Impero è tornato! La situazione si fa confusa.
Nell'ultimo movimento della overture ritornano il Tema di Lawrence e il Tema arabo, insieme, accavallati, cementati dalla marcia militare; che, infine, ristabilisce l'ordine spargendo veleno. Le percussioni di sabbia sono risucchiate lentamente nello spazio oscuro che avevano invano cercato di attraversare. Lawrence, il falso liberatore, ha gettato la maschera per svelare il suo vero volto: quello dell'imperialismo del XX secolo!
Il film può finalmente cominciare, anche se Jarre e la sua musica miracolosa lo hanno già raccontato.

lunedì 30 marzo 2009

ADDIO A MAURICE JARRE

Di Diego Del Pozzo

Lo avevamo rievocato proprio pochi giorni fa, in un articolo dedicato al "cinema oscuro" di Georges Franju, del quale fu giovane compositore di fiducia fino al trasferimento a Hollywood.
Ebbene, stamattina abbiamo appreso la triste notizia della scomparsa di Maurice Jarre, il leggendario autore di tante indimenticabili colonne sonore per film come, tra gli altri, Il dottor Zivago e Lawrence d'Arabia. Per il suo lavoro, Jarre è stato premiato, nel corso di una carriera ricchissima di soddisfazioni, con ben tre premi Oscar.
Il compositore e musicista, che aveva 84 anni, si è spento nella notte tra sabato e domenica a Los Angeles, dove viveva lottando da diverso tempo contro il cancro. L'annuncio della scomparsa è stato dato oggi dal suo manager, il figlio Jean-Michel Jarre, a sua volta compositore e tra i pionieri della musica elettronica.
Maurice Jarre ha musicato oltre 200 film, creando colonne sonore raffinatissime e dal forte impatto sonoro. Compositore prediletto di David Lean - il regista dei tre film per i quali Jarre ha conquistato l'Oscar: Lawrence d'Arabia (1962), Il dottor Zivago (1965), Passaggio in India (1984) - e collaboratore di altri cineasti di grande importanza (bastino i nomi di Georges Franju, John Huston, Luchino Visconti, Fred Zinnemann, Elia Kazan, Alfred Hitchcock, Terence Young, Peter Weir), Jarre ha iniziato a comporre colonne sonore cinematografiche già negli anni Cinquanta. Nel corso della carriera ha privilegiato la musica per orchestra anche se, nel corso degli anni Ottanta, ha scritto pure brani elettronici poi inseriti nelle sue partiture, anche sotto la spinta delle ricerche del figlio Jean-Michel.
Tra i film da lui musicati, oltre a quelli già citati, vanno segnalati almeno l'hitchcockiano Topaz, Gli ultimi fuochi di Kazan, L'uomo che volle farsi re e L'uomo dai sette capestri di Huston, La caduta degli dei di Visconti, L'attimo fuggente di Weir, Il tamburo di latta di Volker Schlondorff, Attrazione fatale e Allucinazione perversa di Adrian Lyne. Per la televisione, il suo lavoro più famoso resta la partitura per il Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli.

domenica 29 marzo 2009

BREVI CENNI SU PHILIP DICK E IL REALE

Di Diego Del Pozzo

Col senno di poi - cioè dopo aver conosciuto il "Cyberpunk", la "Reality Tv", quasi trent'anni di cinema hollywoodiano (e non solo), i territori immateriali di Internet e della Realtà Virtuale, le campagne mediatiche tipiche del nostro tempo - è possibile considerare Philip K. Dick come lo scrittore che, a partire dalla sua originalissima e provocatoria visione della fantascienza, ha segnato indelebilmente l'immaginario a cavallo tra secondo e terzo millennio.
L'ossessione tematica che fa da filo conduttore dell'intera sua opera, infatti, può essere sintetizzata in un'unica, basilare domanda: "Cos'è reale?". E nel suo inevitabile, spaventoso corollario: "Cos'è umano?". Il "problema del reale" viene declinato da Dick attraverso la presenza, nei suoi romanzi e racconti, di realtà mutevoli sempre pronte a disgregarsi da un momento all'altro, non appena emerge ciò che si cela "dietro il velo".
Appare ovvio - spostando l'attenzione sulla seconda domanda – che anche la realtà psichica dei personaggi di Dick è soggetta a repentini mutamenti, magari dovuti a semplici e minimi spostamenti del loro punto di vista o allo smascheramento di un impianto mnemonico artificiale.
L'esempio perfetto arriva da quella che lo stesso scrittore definisce "[...] una delle poche idee originali con cui ho contribuito alla fantascienza. […] Ossia che un tizio possa essere un androide senza saperlo". Questa innovazione al concetto asimoviano di androide appare, per la prima volta, in un racconto del 1953, "Impostore", tradotto in italiano da Fanucci nell'antologia Rapporto di minoranza e altri racconti; in seguito, essa sarà ripresa tante altre volte dall'autore, come nel celebre romanzo del 1968 Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, che ispirerà il film di Ridley Scott Blade Runner (1982) e, più o meno indirettamente, una infinità di successive pellicole hollywoodiane su/con inconsapevoli robot umanissimi e umani robotizzati.
Insomma, per Dick l'androide non imita l'uomo perché, da più di un punto di vista, è già (più che) umano. E attraverso i "suoi" simulacri Dick "pre-sente", negli anni Cinquanta e Sessanta, la crisi epocale delle nozioni di individuo e di soggetto tipica dei giorni nostri.

venerdì 27 marzo 2009

DA DOMANI A NAPOLI "L'ARTE DELLA FELICITA'"

Di Diego Del Pozzo

S'inaugura domani mattina, al Teatro Mercadante di Napoli, la quinta edizione de "L'arte della felicità", la manifestazione cultural-filosofica organizzata dalle associazioni Achab e Shinè in numerosi luoghi della cultura in città: dall'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici a Villa Pignatelli, da Castel Sant'Elmo all'Istituto francese "Grenoble".

Ad aprire ufficialmente l'interessante iniziativa (qui accanto, il logo), che andrà avanti fino a domenica 5 aprile, sarà la proiezione di una video-inchiesta fotografica intitolata "Io ho paura", realizzata dalla scuola di cinema Pigrecoemme e dedicata ai bambini e agli adolescenti di Napoli e di Gaza. A seguire, sempre al Mercadante, il filosofo e scrittore spagnolo Fernand Savater parlerà sul tema "Edgar Allan Poe ed altri messaggeri della paura".
Proprio "La paura", infatti, è il tema scelto per l'edizione di quest'anno di una manifestazione che, ormai, si è ben radicata nel panorama culturale di Napoli e della Campania, grazie a un programma denso di eventi e arricchito dalla presenza di ospiti prestigiosi, italiani e internazionali. Tra gli oltre cinquanta di quest'anno, per esempio, spiccano i nomi del docente di studi indo-tibetani buddhisti Robert Thurman, del regista Gabriele Salvatores, dell'economista Loretta Napoleoni, della psicanalista Luce Irigaray, dei filosofi Massimo Cacciari, Umberto Galimberti e Aldo Masullo.
Nel cartellone, oltre a workshop, confronti, meditazioni e conversazioni a partecipazione gratuita, si segnala una interessante rassegna cinematografica programmata nei cinema napoletani Modernissimo e Ambasciatori da domenica 29 marzo a giovedì 2 aprile: tra i film proposti, "Shining" di Stanley Kubrick, "Bram Stoker's Dracula" di Francis Ford Coppola ed "Essi vivono" di John Carpenter.

giovedì 26 marzo 2009

IL CINEMA OSCURO DI GEORGES FRANJU

Di Diego Del Pozzo

Georges Franju è il tipico cineasta cosiddetto "di culto" sul quale tanti appassionati hanno letto saggi voluminosi e approfonditi, ma del quale, invece, in pochi hanno realmente visto i film, eccezion fatta, probabilmente, per il celebre Occhi senza volto (Les yeux sans visage, 1959), pellicola cui va addebitato il frettoloso inserimento del suo autore tra i maestri della paura.
In realtà, il cinema di Georges Franju è fatto apposta per evitare le etichette; e la sua predilezione per temi e atmosfere tangenti l'horror rappresenta semplicemente uno tra i tanti aspetti di una personalità complessa e dalle mille sfaccettature, non inquadrabile in "scuole" o correnti e senza parentele dirette e possibili filiazioni.
La carriera di Franju può essere divisa in tre fasi distinte: la prima caratterizzata dall'attività di documentarista con cortometraggi assolutamente personali per stile e visione, nonostante fossero realizzati su commissione (tra questi, spiccano tre autentici "pugni nello stomaco": Le sang des betes, 1948; Hotel des invalides, 1952; Les poussieres, 1954); la seconda con gli otto lungometraggi per il cinema; la terza con un'attività televisiva che lega assieme fiction e documentario. Ciascuno dei tre periodi mostra una inestinguibile volontà da parte dell'autore di mettere a fuoco il fantastico e lo stravagante all'interno del quotidiano, mixando tra loro la passione surrealista con ascendenze espressioniste, sempre all'insegna del binomio violenza/tenerezza e sempre in netta contrapposizione al formalismo gratuito e ai seducenti e provocatori effetti del genere horror.
Già il lungometraggio d'esordio di Franju, La fossa dei disperati (La tete contre les murs, 1958), conferma la sua particolarissima "poetica": lo schermo è letteralmente squarciato da improvvisi lampi di follia. La storia del giovane rinchiuso ingiustamente in manicomio dal padre serve da pretesto per dare all'autore la possibilità di ricreare un universo da incubo nel quale sogno e realtà si sovrappongono continuamente. La musica di Maurice Jarre è fondamentale per "costruire" questo mondo d'ombra - ombre nella mente dei protagonisti e sulla pellicola - dagli ascendenti addirittura langhiani.
Con il successivo Occhi senza volto, Franju prosegue nella sua ricerca formale e contenutistica, firmando uno dei film più sgradevoli del primo secolo di vita del cinema: autentica gemma nera, oscura e maledetta, Occhi senza volto è un film da brividi sulla dicotomia essere/apparire e su come sia possibile "succhiare" l'identità di un altro e assorbirla in sé. Sono onnipresenti, nella dimora dello scienziato protagonista, gli specchi - continuamente coperti dalla sfortunata fanciulla che odia la maschera inanimata che le nasconde le cicatrici facciali (e quelle dell'anima) - che riflettono innanzitutto la contorta interiorità dei protagonisti: i morti dovrebbero essere lasciati riposare e, invece, proprio "attraverso lo specchio" tornano a disturbare i vivi. Struggente la sequenza finale di questo capolavoro melò-horror, con la bambola/fantasma/cavia che - indossando la sua vestaglietta bianca e con una colomba posata sul braccio - s'allontana nel bosco sul sottofondo dei carillon di Jarre.
Dopo Plein feux sur l'assassin (1960) e Il delitto di Thérèse Desqueyroux (Thérèse Desqueyroux, 1962) - due lavori che lo confermano cineasta visivo e antiletterario per antonomasia, capace di sfruttare al meglio tutte le potenzialità espressive del mezzo, nonostante spesso abbia attinto dalla grande letteratura francese (Zola, Mauriac, Hervé Bazin, Cocteau) - Franju trova il modo di rendere esplicito il suo amore per il cinema delle origini, soprattutto nelle sue forme più popolari e schiettamente spettacolari. D'altra parte, il nostro è co-fondatore della Cinémathèque Française, nel 1936, insieme con Henry Langlois. Tra gli autori più ammirati c'è senz'altro Louis Feuillade, con i suoi serial cinematografici che tennero col fiato sospeso gli appassionati d'inizio secolo.
E l’omaggio a Feuillade da parte di Franju si fa esplicito in L'uomo in nero (Judex, 1963), pellicola che riprende uno tra i più celebri eroi di quel cinema ingenuo ma visivamente originalissimo. Lo stesso Franju s'è intrattenuto più d'una volta sulla sua versione di Judex, nella quale "se c'è magia - ha spiegato - è perché, dall'inizio alla fine, l'azione è nascosta dallo spettacolo: si tratta di un film di pura forma e, spero, di forma pura; dentro c'è sentimento, ma soprattutto illusione". Franju, infatti, proprio come Judex, è un mago: e la magia del film risiede unicamente nelle immagini, che forniscono allo spettatore l'unico filo conduttore di una vicenda tirata fuori di peso dai sogni del regista; tra uccelli (onnipresenti, anche come simboli), boschi notturni, case isolate, finestre illuminate e passaggi segreti, belle acrobate di circo che s'arrampicano implausibilmente su muri altissimi, l'universo narrativo di Franju diventa spettacolo allo stato puro col "meraviglioso" che riempie l'inquadratura in modo naturale (fondamentali in tal senso, ancora una volta, le musiche di Maurice Jarre).
I successivi Thomas l'imposteur (1964) e L'amante del prete (La faute de l'abbé Mouret, 1970) sono tratti da due romanzi, rispettivamente di Jean Cocteau ed Emile Zola. In entrambi i film, al centro della visione del cineasta c'è nuovamente il labile confine che separa la finzione dalla realtà. E, in entrambi i film, Franju spinge di nuovo a fondo sul pedale del meraviglioso, del poetico.
Con Nuits rouges (1973), poi, il regista firma il suo secondo lavoro a colori (il primo era stato proprio L'amante del prete). Ancora una volta, qui Franju omaggia gli amati serial "alla Feuillade", nonostante Nuits rouges sia girato a colori. Per molti aspetti, l'operazione imbastita dal cineasta francese con opere come questa e L'uomo in nero può essere avvicinata ai campioni di tanto cinema statunitense degli anni Ottanta-Novanta, ai film "citazionisti con l'anima" di registi come Joe Dante, Tim Burton e quanti altri hanno insistentemente guardato al gusto "camp" di fumetti, b-movies e romanzetti di fantascienza e horror di trent'anni prima, cercando di restituirne le fragranze pop e di ricreare quel sense of wonder che li fece innamorare da ragazzi.

mercoledì 25 marzo 2009

"EUROPA '51" IN UN DVD DEGNO DI COTANTO FILM

Di Diego Del Pozzo

Da qualche giorno è in videoteca un bellissimo dvd che restituisce dignità, finalmente, a un capolavoro ingiustamente sottovalutato di quello straordinario regista che è Roberto Rossellini: si tratta dell'edizione in doppio disco, restaurata e rimasterizzata, di Europa '51, forse il più controverso tra i film rosselliniani.
Distribuita dalla Dolmen Home Video, nella meritoria collana dedicata alla Cristaldi Film, questa edizione di Europa '51 propone la versione "lunga" proiettata il 12 settembre 1952 alla tredicesima Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia e mai distribuita nelle sale (dove approdò, invece, una versione più breve), arricchendola con una serie di imperdibili contenuti speciali.
Per celebrare degnamente questa uscita tanto significativa, mi piace ricordare Roberto Rossellini attraverso le parole di un altro gigante del cinema mondiale: Francois Truffaut.
Ecco qui di seguito, dunque, due emozionanti stralci tratti da altrettante raccolte degli scritti di Truffaut.
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Francois Truffaut, Il piacere degli occhi, Marsilio, 1988.
"Roberto Rossellini è, con André Bazin, l'uomo più intelligente che ho conosciuto. Egli comprende ed assimila talmente in fretta e così tante cose che a cercare di stargli dietro ti lascia senza fiato. Ma bisogna sforzarsi perché si può progredire solo correndo nella sua scia. Fortunatamente per me, Roberto ama le sue creature; altrimenti, quando sono al suo fianco, mi sentirei spaventosamente pesante, stupido, goffo e maldestro. Roberto mi ha insegnato che il soggetto di un film è più importante dell'originalità dei titoli di testa, che una buona sceneggiatura deve stare in dodici pagine, che bisogna filmare i bambini con maggior rispetto di qualsiasi altra cosa, che la macchina da presa non ha più importanza di una forchetta e che bisogna potersi dire, prima di ogni ripresa: O faccio questo film o crepo".
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Francois Truffaut, I film della mia vita, Marsilio, 1978.
"Molti anni della mia vita sono legati a Roberto Rossellini, ma non è oggi che voglio rievocarli. Roberto Rossellini era l'uomo di cinema più intelligente, più colto e anche il meno estetizzante. Se è vero che l'artista si nutre della sua stessa nevrosi, allora Rossellini non era un artista, perché non ho incontrato mai nessuno meno narcisista. Detestava la finzione, gli intrighi, i romanzi. Non amava che le opere storiche e scientifiche. Curioso e dotato del gusto dell'informazione, detestava tutto ciò che è vago, sfumato, non formulato, suicida. Come Jean-Paul Sartre, pensava che tutto è comunicabile. Era anche un amico caloroso e buono. Tra la gente celebre che ho conosciuto, era forse il solo che si interessava prima degli altri che di se stesso".

martedì 24 marzo 2009

L'ENNESIMO CAPOLAVORO DI CLINT EASTWOOD

Di Diego Del Pozzo

L'altra sera sono andato a vedere "Gran Torino", il nuovo film di Clint Eastwood. Ebbene, che dire se non che si tratta certamente del capolavoro definitivo di questo sempre più straordinario autore cinematografico?
Secondo me, infatti, questo può essere considerato legittimamente come il film che chiude il cerchio del cinema eastwoodiano e che trasforma, una volta e per sempre, l'originario tema della vendetta - praticatissimo nei suoi western e nei thriller dei decenni Sessanta e Settanta - in una laicissima pietas, nell'intima volontà di riscattare se stessi con un atto finale e assoluto di amore verso il prossimo e di fede nei confronti del futuro e di coloro che dovranno-potranno costruirlo. Laicissima pietas che si rifà a una religiosità lontana dai dogmi e dai riti ufficiali e che, piuttosto, va intesa come capacità inesausta di guardare dentro se stessi, nel buio della propria anima, trasformando, infine, le proprie debolezze in punti di forza e i propri pregiudizi in comprensione e condivisione non "buoniste" ma intimamente sentite e alimentate dalle esperienze che hanno forgiato corpo e spirito lungo un'intera vita.
Il settantottenne Eastwood si avvicina, ormai, a questi temi con una delicatezza che ha saputo sviluppare nel corso di una carriera senza eguali, che a partire dagli anni Novanta lo ha visto letteralmente rinascere: nell'autunno della sua vicenda esistenziale, infatti, ha saputo colorare di tonalità autunnali tutto il suo cinema recente, da considerarsi come unico e coerente ripensamento (crepuscolare) del proprio corpus filmico e, al tempo stesso, del Paese (gli Stati Uniti d'America) nel quale esso si è sviluppato e al quale esso si è così a lungo dedicato.
La messa in scena di questi temi ricorrenti - si vedano, per esempio, "Un mondo perfetto", "Mystic River", "Million Dollar Baby" - avviene, come sempre, all'insegna di una classicità scarna ma regale, che lo ricollega idealmente alla grande scuola degli Hawks e dei Ford, per certi versi superandone addirittura gli esiti poetici, in particolar modo per ciò che concerne la costruzione di personaggi indimenticabili come quest'ultimo, l'operaio in pensione ed ex reduce della Corea Walt Kowalski, capace di aprirsi, quasi al termine della sua parabola esistenziale, all'alterità e alla comprensione della diversità, superando i pregiudizi di una vita intera e lasciandosi "contaminare" dall'indubbia ricchezza del confronto con un'espressione culturale diversissima dalla sua.
E' un personaggio, questo Walt Kowalski, che - come il film nel suo complesso, in rapporto alla filmografia dell'autore - rappresenta, a sua volta, la summa dell'intera carriera attoriale eastwoodiana, incarnandone in tal modo l'evoluzione tematica dai giustizieri spietati degli anni Sessanta e Settanta fino alle figure crepuscolari dell'ultimo quindicennio (da "Gli spietati" in poi): non a caso, Clint ha scelto proprio questo ruolo - quello di un uomo forse già morto all'inizio della pellicola, un autentico dead man walking - per congedarsi dal grande schermo almeno come attore. D'ora in poi, infatti, proseguirà unicamente - speriamo ancora per molto tempo - la carriera registica.
Sempre a proposito del Kowalski di "Gran Torino" - è il nome della "mitica" Ford che si vedeva anche nella serie tv di "Starsky & Hutch" e che qui il protagonista elegge a proprio feticcio - mi piace sottolineare, ancora, gli straordinari e raffinatissimi parallelismi esistenti tra questo personaggio e quello che Eastwood interpreta nell'altrettanto dolente e misticheggiante "Million Dollar Baby": in entrambi i casi, infatti, sono messi al centro della scena nient'altro che due amarissimi "padri manca(n)ti", capaci di atti d'amore "definitivi" verso coloro che, alla fine, scelgono come i loro veri figli; quei figli che, durante le rispettive esistenze, non hanno mai voluto/saputo (ri)conoscere e amare come, in realtà, avrebbero voluto/potuto fare.
In extremis, però, anche questi due uomini, così apparentemente duri perché incarogniti dalle miserie della vita, scopriranno in se stessi la capacità di amare in modo assoluto, in un caso offrendo quel riposo che le convenzioni sociali continuavano a negare e nell'altro caso donando il proprio corpo come laica eucaristia foriera di salvezza.

lunedì 23 marzo 2009

BEST MUSIC OF 2008...

Di Diego Del Pozzo

Sono trascorsi già quasi tre mesi dall'inizio del 2009 e, ormai, ogni rivista specializzata (cartacea e on line) ha pubblicato la propria classifica della musica più interessante dello scorso anno.
Così, adesso, a mente fredda e quasi certo di aver passato in rassegna un po' tutti i dischi degni di interesse usciti nel corso del 2008, propongo anche io le classifiche - divise in più categorie - della musica che più ho amato l'anno scorso.
Miglior album
1) The Racounters – Consolers of the Lonely
2) Black Mountain – In the Future
3) Wovenhand – Ten Stones
4) Neil Diamond – Home Before Dark
5) Tv on the Radio – Dear Science
6) Howlin Rain – Magnificient Fiend
7) John Hiatt – Same Old Man
8) The Hold Steady – Stay Positive
9) Baustelle – Amen
10) Portishead – 3
Miglior canzone
1) Cat Power – Metal Heart
2) The Racounters – You Don’t Understand Me
3) Tv on the Radio – DLZ
4) Black Mountain – Angels
5) Neil Diamond – Pretty Amazing Grace
6) Howlin Rain – Lord Have Mercy
7) Wovenhand – Not One Stone
8) Fleet Foxes – Your Protector
9) Ryan Adams and the Cardinals - Magick
10) Buddy Guy – Too Many Tears (con Derek Trucks e Susan Tedeschi)
Miglior artista (singolo o band)
1) Jack White
2) Cat Power
3) Black Mountain
4) Rick Rubin (produttore)
5) Fleet Foxes
Miglior album live
1) Buena Vista Social Club – Live at Carnegie Hall
2) Willie Nelson & Wynton Marsalis – Two Men with the Blues
3) The Rolling Stones – Shine a Light
4) Crosby, Stills, Nash & Young – CSNY Déjà vu Live
5) David Gilmour – Live in Gdansk
Miglior ristampa
1) Dennis Wilson – Pacific Ocean Blue (Deluxe Edition: 2 cd)
2) Johnny Cash – At the Folsom Prison (Deluxe Edition: 2 cd + dvd)
3) U2 – Boy (2 cd)
4) Whiskeytown – Strangers Almanac (Deluxe Edition: 2 cd)
5) Warren Zevon – Warren Zevon (Deluxe Edition: 2 cd)

IL SUBBUTEO ARRIVA IN EDICOLA!!!

Di Diego Del Pozzo

Che bella sorpresa! E' ciò che ho pensato stamattina quando, appena entrato nella mia edicola di fiducia, ho visto in bella mostra i cartoni verdi con la prima uscita di una nuova, imperdibile iniziativa editoriale, che farà scendere qualche lacrimone nostalgico a chi è stato bambino a cavallo tra anni Settanta e Ottanta.
La Fabbri, infatti, in collaborazione con i settimanali mondadoriani "Tv Sorrisi e Canzoni" e "Panorama", ha avviato una bellissima collana dedicata al... Subbuteo. Sì, proprio il calcio da tavolo col quale tanti di noi sono cresciuti e attraverso il quale hanno imparato ad amare ancora di più anche il calcio vero.
Quella della Fabbri, dal titolo "Subbuteo - La leggenda", è una collana che si preannuncia davvero imperdibile per i veri appassionati (e non soltanto): quaranta uscite settimanali al prezzo di 9.99 euro cadauna, col primo numero venduto all'eccezionale cifra di 4.99. In ciascuna uscita c'è, ovviamente, una squadra, perfettamente riprodotta e assolutamente fedele alle originali che si vendevano una volta, sia per colorazione che per materiali, accompagnata da un fascicoletto e, a partire dalla prossima settimana, dagli altri accessori necessari per giocare: regolamento, porte, bandierine, palloni, con la possibilità di raccogliere trenta punti - uno in ciascuna delle prime trenta uscite - che danno la possibilità di ricevere gratuitamente un bellissimo campo da gioco professionale (quello, per intenderci, gommato e srotolabile: wow!), accessorio che potrà essere anche acquistato in edicola a 24.99 euro (prezzo incredibile, se si tiene conto che nei negozi lo stesso panno da gioco costa tra i 55 e i 70 euro, a seconda dell'onestà del gestore).
Un'altra intelligente caratteristica dell'iniziativa, a giustificare anche il sottotitolo "La leggenda", è quella di essere dedicata, almeno nelle sue prime uscite, alle squadre nazionali che hanno fatto la storia del calcio mondiale: dal Brasile 1970 del primo numero all'Italia 2006 della settimana prossima, da Germania e Olanda 1974 all'Uruguay 1950, dalle due nazionali italiane bicampioni mondiali nel 1934 e 1938 a quella trionfatrice a Spagna 1982 e a quella campione europea nel 1968, fino all'Argentina 1986 di Maradona e - chicca per veri intenditori - all'Unione Sovietica 1966. Ciascuna squadra sarà sempre accompagnata da un fascicoletto che ne narra le gesta reali e ne presenta schemi e formazione, oltre che arricchita da - udite, udite! - due serie di numeri adesivi originali (una bianca e una nera) da poter attaccare sulle schiene dei giocatori in miniatura.
Pur non essendo ancora stato annunciato il seguito, poi, è plausibile che nella seconda parte delle quaranta uscite ci sarà spazio, dopo le nazionali, anche per le squadre di club "leggendarie".
La mia speranza è che una iniziativa tanto intelligente e così ben curata possa incontrare anche il favore di nuove generazioni di subbuteisti, conquistandoli così alla causa del gioco di simulazione sportiva più bello e appassionante di tutti i tempi.
In un periodo storico oscuro come quello che stiamo vivendo, questa sì che può essere definita un'autentica operazione di "divulgazione culturale"!