giovedì 26 marzo 2009

IL CINEMA OSCURO DI GEORGES FRANJU

Di Diego Del Pozzo

Georges Franju è il tipico cineasta cosiddetto "di culto" sul quale tanti appassionati hanno letto saggi voluminosi e approfonditi, ma del quale, invece, in pochi hanno realmente visto i film, eccezion fatta, probabilmente, per il celebre Occhi senza volto (Les yeux sans visage, 1959), pellicola cui va addebitato il frettoloso inserimento del suo autore tra i maestri della paura.
In realtà, il cinema di Georges Franju è fatto apposta per evitare le etichette; e la sua predilezione per temi e atmosfere tangenti l'horror rappresenta semplicemente uno tra i tanti aspetti di una personalità complessa e dalle mille sfaccettature, non inquadrabile in "scuole" o correnti e senza parentele dirette e possibili filiazioni.
La carriera di Franju può essere divisa in tre fasi distinte: la prima caratterizzata dall'attività di documentarista con cortometraggi assolutamente personali per stile e visione, nonostante fossero realizzati su commissione (tra questi, spiccano tre autentici "pugni nello stomaco": Le sang des betes, 1948; Hotel des invalides, 1952; Les poussieres, 1954); la seconda con gli otto lungometraggi per il cinema; la terza con un'attività televisiva che lega assieme fiction e documentario. Ciascuno dei tre periodi mostra una inestinguibile volontà da parte dell'autore di mettere a fuoco il fantastico e lo stravagante all'interno del quotidiano, mixando tra loro la passione surrealista con ascendenze espressioniste, sempre all'insegna del binomio violenza/tenerezza e sempre in netta contrapposizione al formalismo gratuito e ai seducenti e provocatori effetti del genere horror.
Già il lungometraggio d'esordio di Franju, La fossa dei disperati (La tete contre les murs, 1958), conferma la sua particolarissima "poetica": lo schermo è letteralmente squarciato da improvvisi lampi di follia. La storia del giovane rinchiuso ingiustamente in manicomio dal padre serve da pretesto per dare all'autore la possibilità di ricreare un universo da incubo nel quale sogno e realtà si sovrappongono continuamente. La musica di Maurice Jarre è fondamentale per "costruire" questo mondo d'ombra - ombre nella mente dei protagonisti e sulla pellicola - dagli ascendenti addirittura langhiani.
Con il successivo Occhi senza volto, Franju prosegue nella sua ricerca formale e contenutistica, firmando uno dei film più sgradevoli del primo secolo di vita del cinema: autentica gemma nera, oscura e maledetta, Occhi senza volto è un film da brividi sulla dicotomia essere/apparire e su come sia possibile "succhiare" l'identità di un altro e assorbirla in sé. Sono onnipresenti, nella dimora dello scienziato protagonista, gli specchi - continuamente coperti dalla sfortunata fanciulla che odia la maschera inanimata che le nasconde le cicatrici facciali (e quelle dell'anima) - che riflettono innanzitutto la contorta interiorità dei protagonisti: i morti dovrebbero essere lasciati riposare e, invece, proprio "attraverso lo specchio" tornano a disturbare i vivi. Struggente la sequenza finale di questo capolavoro melò-horror, con la bambola/fantasma/cavia che - indossando la sua vestaglietta bianca e con una colomba posata sul braccio - s'allontana nel bosco sul sottofondo dei carillon di Jarre.
Dopo Plein feux sur l'assassin (1960) e Il delitto di Thérèse Desqueyroux (Thérèse Desqueyroux, 1962) - due lavori che lo confermano cineasta visivo e antiletterario per antonomasia, capace di sfruttare al meglio tutte le potenzialità espressive del mezzo, nonostante spesso abbia attinto dalla grande letteratura francese (Zola, Mauriac, Hervé Bazin, Cocteau) - Franju trova il modo di rendere esplicito il suo amore per il cinema delle origini, soprattutto nelle sue forme più popolari e schiettamente spettacolari. D'altra parte, il nostro è co-fondatore della Cinémathèque Française, nel 1936, insieme con Henry Langlois. Tra gli autori più ammirati c'è senz'altro Louis Feuillade, con i suoi serial cinematografici che tennero col fiato sospeso gli appassionati d'inizio secolo.
E l’omaggio a Feuillade da parte di Franju si fa esplicito in L'uomo in nero (Judex, 1963), pellicola che riprende uno tra i più celebri eroi di quel cinema ingenuo ma visivamente originalissimo. Lo stesso Franju s'è intrattenuto più d'una volta sulla sua versione di Judex, nella quale "se c'è magia - ha spiegato - è perché, dall'inizio alla fine, l'azione è nascosta dallo spettacolo: si tratta di un film di pura forma e, spero, di forma pura; dentro c'è sentimento, ma soprattutto illusione". Franju, infatti, proprio come Judex, è un mago: e la magia del film risiede unicamente nelle immagini, che forniscono allo spettatore l'unico filo conduttore di una vicenda tirata fuori di peso dai sogni del regista; tra uccelli (onnipresenti, anche come simboli), boschi notturni, case isolate, finestre illuminate e passaggi segreti, belle acrobate di circo che s'arrampicano implausibilmente su muri altissimi, l'universo narrativo di Franju diventa spettacolo allo stato puro col "meraviglioso" che riempie l'inquadratura in modo naturale (fondamentali in tal senso, ancora una volta, le musiche di Maurice Jarre).
I successivi Thomas l'imposteur (1964) e L'amante del prete (La faute de l'abbé Mouret, 1970) sono tratti da due romanzi, rispettivamente di Jean Cocteau ed Emile Zola. In entrambi i film, al centro della visione del cineasta c'è nuovamente il labile confine che separa la finzione dalla realtà. E, in entrambi i film, Franju spinge di nuovo a fondo sul pedale del meraviglioso, del poetico.
Con Nuits rouges (1973), poi, il regista firma il suo secondo lavoro a colori (il primo era stato proprio L'amante del prete). Ancora una volta, qui Franju omaggia gli amati serial "alla Feuillade", nonostante Nuits rouges sia girato a colori. Per molti aspetti, l'operazione imbastita dal cineasta francese con opere come questa e L'uomo in nero può essere avvicinata ai campioni di tanto cinema statunitense degli anni Ottanta-Novanta, ai film "citazionisti con l'anima" di registi come Joe Dante, Tim Burton e quanti altri hanno insistentemente guardato al gusto "camp" di fumetti, b-movies e romanzetti di fantascienza e horror di trent'anni prima, cercando di restituirne le fragranze pop e di ricreare quel sense of wonder che li fece innamorare da ragazzi.

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