Secondo me, infatti, questo può essere considerato legittimamente come il film che chiude il cerchio del cinema eastwoodiano e che trasforma, una volta e per sempre, l'originario tema della vendetta - praticatissimo nei suoi western e nei thriller dei decenni Sessanta e Settanta - in una laicissima pietas, nell'intima volontà di riscattare se stessi con un atto finale e assoluto di amore verso il prossimo e di fede nei confronti del futuro e di coloro che dovranno-potranno costruirlo. Laicissima pietas che si rifà a una religiosità lontana dai dogmi e dai riti ufficiali e che, piuttosto, va intesa come capacità inesausta di guardare dentro se stessi, nel buio della propria anima, trasformando, infine, le proprie debolezze in punti di forza e i propri pregiudizi in comprensione e condivisione non "buoniste" ma intimamente sentite e alimentate dalle esperienze che hanno forgiato corpo e spirito lungo un'intera vita.
La messa in scena di questi temi ricorrenti - si vedano, per esempio, "Un mondo perfetto", "Mystic River", "Million Dollar Baby" - avviene, come sempre, all'insegna di una classicità scarna ma regale, che lo ricollega idealmente alla grande scuola degli Hawks e dei Ford, per certi versi superandone addirittura gli esiti poetici, in particolar modo per ciò che concerne la costruzione di personaggi indimenticabili come quest'ultimo, l'operaio in pensione ed ex reduce della Corea Walt Kowalski, capace di aprirsi, quasi al termine della sua parabola esistenziale, all'alterità e alla comprensione della diversità, superando i pregiudizi di una vita intera e lasciandosi "contaminare" dall'indubbia ricchezza del confronto con un'espressione culturale diversissima dalla sua.
E' un personaggio, questo Walt Kowalski, che - come il film nel suo complesso, in rapporto alla filmografia dell'autore - rappresenta, a sua volta, la summa dell'intera carriera attoriale eastwoodiana, incarnandone in tal modo l'evoluzione tematica dai giustizieri spietati degli anni Sessanta e Settanta fino alle figure crepuscolari dell'ultimo quindicennio (da "Gli spietati" in poi): non a caso, Clint ha scelto proprio questo ruolo - quello di un uomo forse già morto all'inizio della pellicola, un autentico dead man walking - per congedarsi dal grande schermo almeno come attore. D'ora in poi, infatti, proseguirà unicamente - speriamo ancora per molto tempo - la carriera registica.
Sempre a proposito del Kowalski di "Gran Torino" - è il nome della "mitica" Ford che si vedeva anche nella serie tv di "Starsky & Hutch" e che qui il protagonista elegge a proprio feticcio - mi piace sottolineare, ancora, gli straordinari e raffinatissimi parallelismi esistenti tra questo personaggio e quello che Eastwood interpreta nell'altrettanto dolente e misticheggiante "Million Dollar Baby": in entrambi i casi, infatti, sono messi al centro della scena nient'altro che due amarissimi "padri manca(n)ti", capaci di atti d'amore "definitivi" verso coloro che, alla fine, scelgono come i loro veri figli; quei figli che, durante le rispettive esistenze, non hanno mai voluto/saputo (ri)conoscere e amare come, in realtà, avrebbero voluto/potuto fare.
In extremis, però, anche questi due uomini, così apparentemente duri perché incarogniti dalle miserie della vita, scopriranno in se stessi la capacità di amare in modo assoluto, in un caso offrendo quel riposo che le convenzioni sociali continuavano a negare e nell'altro caso donando il proprio corpo come laica eucaristia foriera di salvezza.
Il mensile "Duellanti" diretto da Gianni Canova propone questo mese un lungo dossier dedicato al film di Clint, con tanto di bella copertina...
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