lunedì 28 ottobre 2013

mercoledì 23 ottobre 2013

LA STORIA SEGRETA DELLA MARVEL COMICS NARRATA DA SEAN HOWE

Di Diego Del Pozzo
(Mega n.° 195 - Settembre 2013)

Confrontarsi con l’avventurosa e spesso controversa storia della Marvel significa, tra le altre cose, fare un viaggio in oltre settant’anni di storia del capitalismo americano, perché la casa editrice di fumetti di supereroi più famosa al mondo assieme alla DC Comics incarna uno tra i brand più universalmente noti nello scacchiere dell’industria dell’entertainment globale. Non a caso, il 31 agosto 2009, la Walt Disney Company – cioè uno tra i gruppi dominanti al mondo nel settore dell’intrattenimento multimediale – l’ha acquistata per quasi quattro miliardi di dollari, allettata soprattutto dalle potenzialità economiche – con relativo surplus derivante dal merchandising – delle trasposizioni cinematografiche tratte, negli ultimi quindici anni, dai fumetti di personaggi celeberrimi come X-Men, Avengers, Capitan America, Iron Man, Thor, Hulk, Fantastici Quattro, Spider-Man, soltanto alcuni tra gli oltre 8.000 presenti in quel calderone narrativo che risponde al nome di Marvel Universe, tutti potenzialmente pronti per generare film di successo (come, d’altra parte, fa la Warner con i personaggi della sua sussidiaria DC, a partire dai big Batman e Superman).
E proprio il rapporto col cinema è uno tra i più interessanti fili narrativi del bellissimo libro-inchiesta Marvel Comics – Una storia di eroi e supereroi, scritto dal giornalista statunitense Sean Howe e tradotto da poco anche in Italia da Panini Books (452 pagine, 29.90 euro), appena prima che Oltreoceano gli venisse attribuito il prestigioso Eisner Award (l’Oscar dell’industria dei comics) come miglior volume di argomento fumettistico dell’anno. La fascinazione verso il cinema, infatti, accompagna la Marvel quasi per la sua intera storia, dato che già a fine anni Sessanta inizia a guardare con interesse verso Hollywood, alla ricerca di sinergie per realizzare film tratti dai suoi fumetti. Però, fino al 1998 – quando arriva in sala “Blade”, seguito due anni dopo dal primo “X-Men” di Bryan Singer – il rapporto con l’industria cinematografica si caratterizza per flop e cocenti delusioni, progetti opzionati ma mai partiti, diritti ceduti per un tozzo di pane a partner non all’altezza, scritture e riscritture di sceneggiature a dir poco banali, relazioni pericolose con autentici truffatori che si dileguano con le risorse destinate ai film.
A fare da ambasciatore della Marvel a Hollywood, quasi a tempo pieno fin dal 1972, è direttamente Stan Lee, cioè l’uomo che nel 1961 aveva dato il via a quella che passerà alla storia come “Silver Age of Comics”, creando assieme al grande disegnatore Jack Kirby i Fantastici Quattro, Hulk e via via tutti gli altri personaggi marvelliani. Lee, che alla Marvel lavorava dalla fine degli anni Trenta, quando lo zio Martin Goodman fondò la casa editrice col nome Timely, viene destinato dalla proprietà ai rapporti col mondo del cinema e si trasforma così in una sorta di volto pubblico dell’azienda, sempre più lontano dagli aspetti squisitamente editoriali e creativi, nonostante quello “Stan Lee presenta…” che ancora oggi campeggia in apertura di ogni singolo albo Marvel.
Ma nel libro di Sean Howe, proprio Lee non fa una gran figura, raccontato dall’autore dapprima come una sorta di raccomandato dello zio Goodman, che lo assume poco più che teenager e gli consegna a 18 anni le redini dell’azienda, quindi come ambiziosissimo sceneggiatore e direttore editoriale in perenne contrasto con i disegnatori che avanzano (quasi sempre a ragione) diritti legali sulle proprietà di personaggi in realtà creati anche da loro, poi come inconsapevole strumento nelle mani di vertici aziendali più interessati a giochetti di borsa e fusioni societarie che alla creatività. In particolare, Howe analizza con dovizia di particolari, spesso inediti e in alcuni casi persino sconvolgenti, il rapporto lungo tutta una vita tra Stan Lee e Jack Kirby, l’altro creatore del Marvel Universe, al quale però non saranno mai riconosciuti i diritti sui “suoi” personaggi né restituite, tranne che in minima parte, le tavole originali disegnate in decenni di collaborazione.
Ma nel volume trova ampio spazio l’intero scenario dell’editoria fumettistica statunitense, con descrizioni accurate della situazione alla DC Comics (con la quale, da un certo punto in poi, la Marvel inizia a scambiare con regolarità editor, sceneggiatori e disegnatori) e con riferimenti puntuali alla nascita della Image, evento che rivoluzionò il panorama editoriale a stelle e strisce durante gli anni Novanta. I momenti godibili del libro di Howe sono tantissimi: per esempio, i racconti riguardanti il “clan degli strafattoni”, capeggiato negli anni Settanta da Steve Englehart; il bizzarro reclutamento di Scott Lobdell come nuovo sceneggiatore di “X-Men” – all’epoca la testata più venduta d’America – avvenuto al volo, sulla soglia di una porta della redazione, mentre lui si trovava a passare casualmente di lì in quel momento; le lotte di Steve Gerber per non perdere i diritti sul suo adorato personaggio Howard the Duck; le controverse parabole riguardanti la vita e la carriera di autori “indipendenti dentro” come Steve Ditko o Jim Starlin; l’analisi dei veri motivi per cui Roy Thomas preferiva riprendere vecchi personaggi e attualizzarli, piuttosto che crearne di nuovi.
Insomma, grazie alle interviste inedite a oltre 150 persone che, fin dagli anni Trenta, hanno lavorato alla Marvel nelle sue varie incarnazioni, Howe getta nuova luce – non a caso, il titolo originale del libro è Marvel Comics: The Untold Story, cioè la storia inedita – sull’epopea di quella che oggi, come del resto la DC Comics, è riuscita a imporsi come qualcosa di molto più che una semplice casa editrice di fumetti. Howe ne approfondisce peculiarità stilistiche come l’innovativa intuizione in chiave realistica dei “supereroi con superproblemi”, ma soprattutto ne narra e spesso rivela le storie vere, le meschinità e le acerrime rivalità degli uomini che quelle storie hanno realizzato, autori spesso dimenticati e maltrattati, come i tanti che, nel corso dei decenni, si sono visti negare la proprietà delle loro creazioni, da Bill Everett a Chris Claremont, nonostante il loro genio abbia contribuito a rendere la Marvel il colosso dell’intrattenimento globale che è al giorno d’oggi.

sabato 19 ottobre 2013

GRANDE SUCCESSO PER IL CINEMA ITALIANO IN SVEZIA

Grande successo anche quest’anno per il cinema italiano in Svezia, grazie all’Italian Film Festival di Stoccolma, la principale rassegna dedicata alla promozione della cinematografia italiana nei Paesi scandinavi. Diretto dallo storico del cinema Vincenzo Esposito e giunto alla sedicesima edizione, il festival – che si conclude domani sera (domenica 20) presso il cinema Sture, nel centro della capitale svedese – sta facendo segnare il “tutto esaurito” quasi a ogni proiezione, a conferma del notevole interesse che gli appassionati svedesi continuano a nutrire nei confronti del cinema italiano del presente e del passato.
Inaugurato dal nuovo ambasciatore d’Italia in Svezia, Elena Basile, e dal direttore dell’Istituto italiano di cultura, Sergio Scapin, l’Italian Film Festival ospita i due registi Silvio Soldini e Giuliano Montaldo, che hanno presentato al pubblico svedese i loro recenti “Il comandante e la cicogna” e “L’industriale”. Nella sezione Panorama, riservata ai film delle ultime due stagioni, sono inclusi anche “L’intervallo” di Leonardo Di Costanzo, “Posti in piedi in Paradiso” di Carlo Verdone, “Tutti i santi giorni” di Paolo Virzì, “È stato il figlio” di Daniele Ciprì, “Viva la libertà” di Roberto Andò e – nell’ambito della Settimana della lingua italiana nel mondo – la produzione svizzera “Sinestesia” di Erik Bernasconi (interpretata, in italiano, da Alessio Boni, Giorgia Wurth e Leonardo Nigro).
La Retrospettiva di quest’anno, invece, indaga nel cinema di Michele Placido, attraverso una selezione di film da lui diretti o interpretati per altri registi. Così, accanto a celebri regie di Placido come “Un eroe borghese” (1995), “Romanzo criminale” (2005), “Il grande sogno” (2009), “Vallanzasca. Gli angeli del male” (2010) e “Il cecchino” (2012) scorrono anche “Marcia trionfale” (1976) di Marco Bellocchio, “Lamerica” (1994) di Gianni Amelio e “La sconosciuta” (2006) di Giuseppe Tornatore.
L’Italian Film Festival è organizzato dall’Istituto italiano di cultura di Stoccolma e dalla FICC – Federazione italiana dei circoli del cinema, col contributo del Ministero per i beni e le attività culturali – Direzione generale cinema e in collaborazione con l’Ambasciata d’Italia in Svezia, il Centro regionale Campania della FICC, l’associazione culturale Blackout e la scuola di cinema Pigrecoemme di Napoli.

sabato 12 ottobre 2013

INTERVISTA A RICHARD DREYFUSS: "HOLLYWOOD SENZA IDEE..."

Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 11 ottobre 2013)

Sul set di “Caserta Palace Dream”, il cortometraggio diretto da James McTeigue e prodotto da Pasta Garofalo, gli occhi sono tutti puntati su di lui. Ed è inevitabile, perché Richard Dreyfuss è uno tra gli attori-simbolo di una stagione indimenticabile del cinema americano, quella della New Hollywood negli anni Settanta, quando l’interprete originario di Brooklyn inanellava, uno dopo l’altro, ruoli da protagonista in film mitici come “American Graffiti” (1973) di George Lucas, “Lo squalo” (1975) e “Incontri ravvicinati del terzo tipo” (1977) di Steven Spielberg o quel “Goodbye amore mio!” (1977) di Herbert Ross per il quale ottenne l’Oscar come miglior protagonista.
Nel corto di McTeigue, girato in questi giorni nella Reggia di Caserta, Dreyfuss interpreta Luigi Vanvitelli, l’architetto che, su commissione di Carlo di Borbone, progettò l’edificio nel 1751. Con lui, recitano Kasia Smutniak e Valerio Mastandrea, la regina Maria Amalia di Sassonia e re Carlo, con Ennio Fantastichini, Nicola Nocella e Malika Ayane in ruoli secondari. La storia va dal 1751 attraverso l’Ottocento, il 1930, il 1945 fino al 2013, col fantasma di Maria a fare da genius loci oltre i confini del tempo.
Dreyfuss, com’è stato coinvolto nel progetto?
“Sono stato contattato dal regista e mi ha affascinato il fatto che io stesso, molto tempo prima, avessi scritto una storia simile, basata su un amore capace di trascendere lo scorrere del tempo. In quanto a Vanvitelli, non lo conoscevo, così come non conoscevo la Reggia di Caserta. Ma, proprio in questo periodo, sto leggendo molti libri su un gruppo di intellettuali europei dell’epoca, i cameralisti, con i quali Vanvitelli ebbe molto in comune. Della Reggia ignoravo persino che fosse stata utilizzata da Lucas per “Star Wars”, ma mi affascinava questa storia legata alla sua edificazione”.
Lei è un simbolo vivente del cinema americano degli anni Settanta. Com’è oggi Hollywood rispetto ad allora?
“Oggi comandano i soldi e c’è minore libertà espressiva, mentre allora si puntava sulla creatività e sulla voglia di collaborare. All’epoca, si partiva dalle storie e dai personaggi, mentre oggi contano gli effetti speciali. Inoltre, strumenti come twitter hanno ridotto la capacità dei più giovani di confrontarsi con la complessità e ciò si vede anche nei film. A un giovane attore, insomma, oggi direi di fare un altro mestiere”.
Ma sempre più registi e attori hollywoodiani lavorano in serie tv di qualità proprio per la maggiore libertà creativa. Lei che ne pensa?
“In effetti, nelle serie tv che si producono alla Hbo c’è più libertà e voglia di sperimentare rispetto ai prodotti industriali medi hollywoodiani. Il centro della questione, però, non è dire liberamente le parolacce in tv, oppure mostrare sesso esplicito. Noi non abbiamo fatto battaglie da giovani per ottenere questo, ma per far sì che il cinema e la televisione riuscissero a raccontare i problemi della vita reale. E, purtroppo, oggi questo non accade nemmeno nelle serie televisive”.
Sembra che non le piaccia molto la piega che il mondo ha preso in questi anni.
“Viviamo in un’epoca di incertezze, nella quale non riusciamo più a ragionare sul medio-lungo periodo. Veniamo dopo Freud, Einstein, Marx e Darwin, che hanno sgretolato le certezze millenarie dell’uomo. E, oggi più che mai, il due per cento di ricchi continua a dominare il mondo a discapito dell’altro novantotto per cento. Negli Stati Uniti se ne sta accorgendo anche un centrista come Obama, nonostante abbia la maggior parte del Paese dalla sua parte: a ostacolarne l’azione, infatti, è proprio quel due per cento”.
La sua vita è stata ricca di alti e bassi, come poche altre a Hollywood. Che cosa prova quando la ripercorre con la mente?
“A me è sempre piaciuto più diventare una star del cinema piuttosto che esserlo davvero. Posso definirmi un cacciatore, perché ho sempre inseguito le cose che mi interessavano, prima perdendole e poi riconquistandole, vincendo, poi perdendo, poi vincendo di nuovo. E se fossi stato diverso mi sarei annoiato terribilmente”.
Che cosa c’è nel suo immediato futuro?
“Non dirigerò mai un film. Invece, ho finito di recitare da poco in “Cas & Dylan”, il debutto alla regia di Jason Priestley. Ma, soprattutto, ho appena terminato il mio primo romanzo, “Appomattox”, come il luogo dell’ultima battaglia della Guerra civile americana. Non svelo la trama, ma ci sarà un lieto fine, perché oggi c’è bisogno più che mai di veri happy end”.
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L’embrione di “Caserta Palace Dream”, il nuovo cortometraggio d’autore prodotto da Pasta Garofalo nell’ambito del progetto pluriennale “Garofalo firma il cinema”, si celava nella mente e nel cuore di James McTeigue fin da quando, nel 2000, lavorò come primo assistente di George Lucas sul set campano di “Star Wars episodio 2 – L’attacco dei cloni” e s’innamorò della Reggia di Caserta, che ospitò le riprese com’era già successo tre anni prima per il precedente episodio della celeberrima saga fantascientifica.
Così, già dopo i primi contatti col vulcanico direttore commerciale della Garofalo, Emidio Mansi (la mente dietro i progetti cinematografici della storica azienda di Gragnano), e con Benedetto Condreas dell’agenzia di comunicazione PesceRosso (che per il pastificio gragnanese cura l’ormai consolidato format cinéphile), l’idea di ambientare la sesta produzione firmata Garofalo per la prima volta fuori Napoli, ma all’interno di un sito storico-monumentale tra i più conosciuti al mondo, ha avuto la meglio su tutte le altre. “Quando mi hanno chiesto di dirigere questo corto in Campania – racconta McTeigue in una pausa delle riprese che si sono concluse ieri sera nel parco della Reggia – sono immediatamente andato indietro con la memoria a quando, anni fa, ero stato qui per lavorare con Lucas. Da allora, infatti, avevo il desiderio di fare un film che sapesse mostrare questo luogo incredibile, progettato da un architetto straordinario come Vanvitelli, la cui musa ispiratrice era la moglie del re Carlo III, cioè Maria. E da questo mio desiderio è nata l’idea di raccontare la Reggia attraverso una storia d’amore senza tempo, che potesse attraversare epoche storiche differenti e giungere fino a oggi. Su questo spunto, poi, abbiamo deciso di utilizzare Maria come una sorta di presenza fantasmatica capace di pervadere ancora oggi quegli stessi spazi”.
Ad attrarre il regista di “V. per Vendetta” e “The Raven”, però, è stato anche un altro elemento, lo stesso che a suo tempo convinse un maestro del cinema come Terry Gilliam, che per Garofalo ha girato il corto “The Wholly Family”, poi premiato addirittura con il prestigioso European Film Award. “Mi è stata offerta – conclude McTeigue – un’opportunità unica, che per l’industria di Hollywood è sempre più una rarità: la possibilità, cioè, di scrivere, realizzare e dirigere un film con la più completa libertà artistica, grazie a un’azienda davvero visionaria come Pasta Garofalo”. “Caserta Palace Dream” – interpretato da Richard Dreyfuss, Kasia Smutniak, Valerio Mastandrea, Ennio Fantastichini, Nicola Nocella e Malika Ayane – sarà pronto entro la fine dell’anno, ma Garofalo lo lancerà nel corso del 2014 e, dopo l’Efa conquistato con Gilliam, stavolta punterà direttamente all’Oscar 2015.

LA STORIA DI "TAXI DRIVER" RIPERCORSA IN UN LIBRO

Di Diego Del Pozzo

C'è una frase dello sceneggiatore Paul Schrader che, più e meglio di tante altre, restituisce il senso di un progetto filmico epocale come "Taxi Driver", all'epoca osteggiato dai vertici di quasi tutti gli Studios hollywoodiani e di lì a poco – era il 1976 – destinato a entrare nel mito, oltre che nella storia del cinema: "Eravamo abbastanza giovani – sottolinea Schrader – da voler fare qualcosa che durasse. De Niro mi disse, mentre discutevamo se il film avrebbe fatto soldi o no, che secondo lui era un film che la gente avrebbe continuato a vedere fra cinquant'anni, e il fatto che l'anno dopo qualcuno lo vedesse o no non aveva nessuna importanza. E' questo l'atteggiamento che abbiamo adottato, ed ecco perché non siamo scesi a compromessi su nulla".
Si può leggere questa frase all'interno del bel libro "Taxi Driver. Storia di un capolavoro", scritto da Geoffrey Macnab e pubblicato due anni fa da minimum fax (184 pagine, 14 euro).
"Taxi Driver", il capolavoro di Martin Scorsese, è uno tra i film che hanno rivoluzionato la storia del cinema. Il personaggio di Travis Bickle (Robert De Niro, nel ruolo che lanciò la sua carriera), il veterano del Vietnam che diventa tassista newyorkese, riassume in sé il malessere di un'America ancora traumatizzata dalla guerra e dal Watergate: schiavo della pornografia e del junk food, ossessionato dalle armi, Bickle è l'opposto dell'eroe hollywoodiano tradizionale, ma all'epoca colpì al cuore il pubblico di tutto il mondo ed ebbe una eco senza precedenti nella cronaca e nella cultura.
Questo libro ricostruisce il complesso background sociale e culturale del film; ne racconta da dietro le quinte la realizzazione (dando voce direttamente al regista, allo sceneggiatore, agli attori e alla troupe); ne illustra la fortuna nei decenni successivi all'uscita (fino alla recente produzione di un videogame ispirato al film e alle voci di un imminente remake a opera di Lars von Trier) e cerca di spiegare come mai, a distanza di oltre 35 anni, "Taxi Driver" non abbia perso nulla del suo fascino e della sua potenza.
Consigliatissimo!