(Il Mattino - 16 gennaio 2013)
mercoledì 16 gennaio 2013
ADDIO A NAGISA OSHIMA, MAESTRO DEL CINEMA TRA EROS E THANATOS
Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 16 gennaio 2013)
(Il Mattino - 16 gennaio 2013)
Il grande regista giapponese Nagisa Oshima, scomparso ieri a 80 anni per una polmonite dopo anni di malattia e di silenzio desolato, è tra i più fraintesi maestri della settima arte, a causa di un particolare titolo della sua densa filmografia, lo scandaloso «Ecco l’impero dei sensi», che a metà anni ‘70 lo catapulta sulla ribalta in Occidente, facendolo bollare, in molti Paesi tra i quali l’Italia (che però lo aveva scoperto nel 1971 con una retrospettiva a Pesaro), con lo sgradevole epiteto di «pornografo».
E, invece, quel film del 1975 – che, peraltro, proprio nei cinema italiani esce particolarmente massacrato dalla censura – descrive in realtà la progressiva separazione tra individuo e contesto sociale, resa dolorosamente fisica attraverso la messa in scena esplicita del binomio eros-thanatos, amore e morte, andando a comporre l’ennesimo capitolo dell’indagine, quasi entomologica, tra le pieghe della società giapponese, portata avanti dall’autore fin dagli esordi nel 1959.
La critica francese, che lo scopre per prima e lo accoglie come un maestro quando lui decide di trasferirsi a Parigi, lo celebra oggi come il Godard del Sol Levante. E, in effetti, il segno estetico e intellettuale della nouvelle vague francese è fortissimo in questo ragazzo ribelle, nato a Kyoto il 31 marzo 1932 e cresciuto dalla madre dopo la morte in guerra del padre.
I primi successi di Oshima risalgono al 1960, con «Il cimitero del sole» e, soprattutto, «Racconto crudele della giovinezza», titolo seminale e manifesto del nuovo cinema giapponese, al cui rinnovamento lo stesso autore originario di Kyoto contribuisce fondando il Gruppo dei Sette. Già da questi film emergono consapevolezza linguistica, soluzioni visive ardite e sperimentali, stile personale, che rendono più efficaci le incursioni nel corpo ancora sanguinante di una nazione in perenne trasformazione e rapidissimo quanto nevrotico sviluppo, dopo la sconfitta della Seconda guerra mondiale e il trauma della bomba atomica.
Discendente da una famiglia di samurai, laureato in legge e leader studentesco all’università, Nagisa Oshima non nasconde simpatie politiche di sinistra, tendenti all’anarchismo. Sempre nel 1960, «Notte e nebbia nel Giappone» s’interroga sugli errori strategici della sinistra nell’opporsi al trattato nippo-americano e, a causa del suo radicalismo, viene sequestrato portando l’autore a fondare una propria casa di produzione. Negli anni, Oshima resta comunque coerente con una posizione artistica che, al tempo stesso, è atto politico di intransigenza morale e di onestà intellettuale.
Detto del film-scandalo «Ecco l’impero dei sensi» – le cui riprese di sesso esplicito e masochismo sessuale sono talmente sconvolgenti da sconsigliarne il montaggio in patria, pena il sequestro e una condanna per oltraggio alla morale – e ricordato il dittico formato da «L’impiccagione» (1968) e «La cerimonia» (1971), nei quali distrugge i rituali della quotidianità familiare giapponese, nel 1978 il regista vince il premio per la regia a Cannes per «L’impero della passione», mentre cinque anni più tardi dirige David Bowie e Ryuichi Sakamoto in «Furyo», tra le più profonde e riuscite indagini sul rapporto prigioniero-carceriere, con implicazioni omosessuali e inversione dei ruoli. Con «Max mon amour» (1986) porta, quindi, un’icona come Charlotte Rampling tra le braccia di uno scimpanzé.
L’ultima sua grande regia è «Tabù – Gohatto», nel 1999, dopo diversi anni di reclusione per la malattia. E, ancora una volta, grazie a una storia di passione omosessuale tra samurai magistralmente interpretata da Takeshi Kitano, Oshima mette in scena l’eterno duello tra amore e morte, sesso e potere.
venerdì 4 gennaio 2013
INTERVISTA A FRANCO NERO: DJANGO IERI, OGGI E DOMANI
Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 4 gennaio 2013)
(Il Mattino - 4 gennaio 2013)
Sulla scia del clamore suscitato dall’uscita negli Stati Uniti di “Django unchained”, il nuovo film di Quentin Tarantino che riprende lo spaghetti-western del 1966 con Franco Nero, nelle prossime settimane questo classico cult movie diretto da Sergio Corbucci “uscirà nei cinema di ben 70 città americane”. A rivelarlo è proprio Nero, premiato nei giorni scorsi durante “Capri, Hollywood” e presente stasera a Roma all’anteprima di gala della pellicola dell’amico Tarantino, che in questa occasione riceverà da Ennio Morricone il premio alla carriera della settima edizione del Festival internazionale del film diretto da Marco Muller.
Franco Nero in "Django Unchained" di Quentin Tarantino |
Assieme al regista americano saranno presenti alla proiezione anche gli attori Jamie Foxx e Christoph Waltz, che nel corso della serata incontreranno alcune star italiane dell’epoca d’oro dello spaghetti-western: Giuliano Gemma, Gianni Garko, Bud Spencer, Enzo G. Castellari, Giulio Questi, Sergio Donati, Alberto De Martino, Rosalba Neri, Lucio Rosato, Ruggero Deodato, Lars Bloch, Franco Giraldi, Ursula Andress, Sergio Martino, Ernesto Gastaldi, Nori Corbucci e, naturalmente, lo stesso Franco Nero, che oltre a essere stato il protagonista del “Django” originale è presente con un cameo anche nel nuovo “Django unchained”. “Quentin è un esperto del cinema di genere italiano – racconta Nero – e mi ha fortemente voluto sul set durante le riprese del suo film, trattenendomi con ogni scusa anche ben oltre il tempo necessario per girare la mia piccola scena. Lui ama davvero il western di Corbucci, lo conosce a memoria e ha costretto tutti a riguardarlo più volte, tenendo spesso in sottofondo sul set la colonna sonora del 1966”.
Dopo l’anteprima romana, “Django unchained” uscirà nelle sale italiane il 17 gennaio, distribuito da Warner Bros. Pictures Italia (come da accordo con Sony Pictures). “Sono davvero orgoglioso di avervi partecipato”, aggiunge Franco Nero, che poi interviene sulle accuse di razzismo rivolte a Tarantino, qualche giorno fa, dal regista afroamericano Spike Lee: “Non sono d’accordo, perché per me Quentin ha voluto fare un film politico, nel quale sono sottolineate le condizioni degli schiavi neri nell’America della Frontiera. Anche l’uso ripetuto del termine “nigger” si rifà fedelmente a quanto avveniva all’epoca”.
Certo è che, tra il 1966 e il 2013, il personaggio di Django ha accompagnato l’attore italiano per tutta la carriera. “Direi che mi ha addirittura perseguitato, perché – scherza Nero – all’epoca era diventato il nome col quale mi registravano negli alberghi di tutto il mondo. Peccato, però, che oggi in Italia non si facciano più quei film, perché erano la vera linfa dell’industria cinematografica. Noi producevamo 400 pellicole all’anno e i produttori che guadagnavano con i film più commerciali poi reinvestivano quei soldi su progetti più artistici. Oggi, invece, i produttori sono burocrati di Rai o Mediaset e i veri artisti sono castrati. Per questo, rispetto all’epoca d’oro – conclude l’attore – dico che oggi il cinema italiano ha la febbre alta, sta male. Basti pensare a quanto si sia ridotto il numero degli schermi, da 13.000 a circa 3.700; o a come sono quasi sparite le coproduzioni, che invece negli anni Sessanta e Settanta erano state così importanti per l’industria cinematografica italiana”.
Intanto, prendono sempre più sostanza le voci che vorrebbero Franco Nero tornare a vestire i panni del pistolero Django in un nuovo film, “Django lives!”, che potrebbe essere girato già quest’anno, nello Utah, prodotto da Eric Zaldivar e Mike Malloy con la regia di Michael A. Martinez.
Iscriviti a:
Post (Atom)