(Il Mattino - 26 aprile 2013)
venerdì 26 aprile 2013
CON "394" IL TEATRO INCONTRA IL CINEMA E SI FA VIAGGIO DELL'ANIMA
Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 26 aprile 2013)
(Il Mattino - 26 aprile 2013)
Col suo emozionante documentario “394 – Trilogia nel mondo” il trentacinquenne regista napoletano Massimiliano Pacifico condivide con lo spettatore un itinerario ondivago su e giù dal palcoscenico, avanti e dietro le quinte, in giro per il mondo, ma anche dentro e intorno all’arte di fare teatro e di condividerne l’essenza col proprio pubblico, ovunque esso si trovi. L’itinerario in questione è quello seguito da Toni Servillo e dalla sua compagnia, tra il 2008 e il 2010, in occasione della fortunatissima tournée della “Trilogia della villeggiatura” di Carlo Goldoni, con tappe internazionali anche in metropoli come Berlino e Mosca, Parigi e New York, Madrid e Istanbul, per un totale di 18 città in 11 nazioni e tre continenti (il numero del titolo è quello delle date complessive di quella tournée, appunto 394).
Adesso, dopo il bel successo dello scorso novembre al festival di Torino, il densissimo cofanetto che Feltrinelli Real Cinema manda in libreria (dvd e libro di 128 pagine a 16.90 euro) potenzia ulteriormente gli effetti del documentario di Pacifico, rendendo disponibili tanti altri materiali inediti, selezionati tra le oltre 150 ore di riprese effettuate al seguito della compagnia, in collaborazione col “complice” Diego Liguori (col quale, nel 2006, il regista firmò il sorprendente cortometraggio “Cricket cup”). Oltre a “394”, infatti, il cofanetto contiene anche un’ampia sezione di extra (più di tre ore), composta da altri filmati realizzati in tournée, sorta di diario di viaggio diviso in capitoli e riordinabile a piacimento. “La chiave del film – racconta Massimiliano Pacifico – è stata quella di evitare qualsiasi interazione con i soggetti che dovevamo riprendere. Infatti, l’uso di interviste e la presenza dichiarata degli autori avrebbe creato in chi veniva ripreso una consapevolezza che non mi interessava. Invece, volevo raccontare momenti autentici e che la macchina da presa testimoniasse in maniera fedele ciò che succedeva alla compagnia durante la tournée. Per fare ciò era necessario filmare sempre, quasi ininterrottamente, per creare una sorta di assuefazione alla nostra presenza, fino a diventare invisibili e far sì che gli attori si dimenticassero di noi”.
Nel dvd, ci sono anche una versione filmata dello spettacolo teatrale (montata con materiali presi da differenti esibizioni) e l’altro documentario “Cafsob”, realizzato quasi in presa diretta a Napoli, in occasione della storica “prima” del 12 dicembre 2007, quando la compagnia decise di recitare senza costumi, trucchi e scenografie, non disponibili a causa dello sciopero degli autotrasportatori che bloccò l’Italia per alcuni giorni (e, nel libro allegato, il produttore Angelo Curti la ricorda come “la serata per me più rischiosa in oltre tre decenni di palcoscenico”). Tutti questi materiali creano l’effetto di un’autentica immersione in profondità. “Ho provato a offrire allo spettatore – aggiunge Pacifico – la possibilità di entrare nel cuore della tournée, in gran parte dal privilegiato punto di vista del dietro le quinte, piuttosto che dalla platea, ricercando una sorta di sguardo inedito sullo spettacolo e i suoi attori. Alla fine, “394” per me è stato come un film di finzione, con una sceneggiatura che più ricca e complessa non avrei mai potuto immaginare o scrivere”.
Prodotto da Teatri Uniti e dal Piccolo Teatro di Milano, come lo spettacolo diretto e interpretato da Toni Servillo, “394 – Trilogia nel mondo” lascia il giusto spazio anche agli altri attori della compagnia (tra i quali Andrea Renzi, Francesco Paglino, Rocco Giordano, Eva Cambiale, Paolo Graziosi, Tommaso Ragno, Anna Della Rosa, Chiara Baffi, Gigio Morra, Salvatore Cantalupo) e, soprattutto, dice una parola nuova sul rapporto tra teatro e cinema. Domani sera, Toni Servillo parlerà anche di questo cofanetto nel corso del programma di Fabio Fazio “Che tempo che fa” su Rai Tre. Poi, venerdì 3 maggio “394” sarà presentato alla Feltrinelli di piazza dei Martiri e, in serata, nella rassegna AstraDoc.
giovedì 25 aprile 2013
NAPOLI COMICON 2013: INTERVISTA A DIANE DISNEY
Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 25 aprile 2013)
(Il Mattino - 25 aprile 2013)
A 80 anni, splendidamente portati, Diane Disney è la depositaria dell’eredità artistica e ideale di papà Walt, al quale ha dedicato quasi quattro anni fa – con un investimento di 112 milioni di dollari – il fantastico Disney Family Museum di San Francisco, scrigno dei desideri e paese delle meraviglie per gli appassionati di tutto il mondo. Un piccolo contrattempo legato alla salute del marito Ron Miller (ex presidente della Disney) le ha impedito all’ultimo minuto di essere a Napoli di persona, per visitare al Pan la mostra “Magica Disney. 3000 volte Topolino” (accompagnata dal notevole catalogo curato da Luca Boschi) e intervenire come ospite d’onore alla quindicesima edizione del Comicon (da oggi a domenica alla Mostra d’Oltremare). La figlia del grande Walt, però, si complimenta a telefono con gli organizzatori della kermesse partenopea. “Avrei voluto toccare con mano – spiega al direttore Claudio Curcio – l’enorme entusiasmo che l’universo Disney continua a suscitare in Italia, anche se da foto e catalogo mi sono fatta un’idea della mostra e ne sono orgogliosa”.
Come si spiega, signora Disney, l’inesauribile successo europeo e italiano dei fumetti disneyani, molto maggiore rispetto agli Stati Uniti e certificato dai 3000 numeri del settimanale “Topolino”?
“Non riesco a spiegarmelo razionalmente. L’Italia, tra l’altro, propone storicamente la più importante scuola mondiale di fumettisti Disney, fin da quando, negli anni ’30, papà siglò il contratto con Arnoldo Mondadori, per permettergli di realizzare le versioni italiane ufficiali dei suoi personaggi. Al museo abbiamo alcune foto di quegli incontri, con la firma che arrivò sulla barca di Mondadori”.
Il museo che lei ha dedicato a suo padre ne mette in evidenza anche l’aspetto privato. Ma chi era Walt Disney tra le mura domestiche?
“Era un uomo normale, persino ordinario, ma che sapeva cosa gli piaceva e cosa voleva. Non riusciva a stare fermo nemmeno per un istante e, appena poteva, si dedicava a lavori manuali. Una volta, per esempio, realizzò nel nostro giardino una riproduzione in scala del trenino che poi avrebbe messo al centro dei parchi Disneyland. Sì, perché l’idea di aprire quei luoghi di divertimento lui ce l’aveva da quando era ragazzo”.
E come papà? Le raccontava le favole della buonanotte?
“Era tenerissimo. Però, a leggerci le favole a letto era nostra madre. Papà, invece, ci ha portato ogni mattina in auto a scuola, dall’asilo fino alla high school. E durante quei tragitti scatenava tutta la sua fantasia: ci raccontava ciò a cui stava lavorando o che stava progettando, ma anche le storie dei suoi personaggi, dalla sua versione di Pinocchio a Biancaneve, da Topolino a Paperino. Credo che fosse anche una sorta di test per sviluppare nuove storie. Anche a tavola, le cene erano arricchite dai suoi racconti su tutto ciò che lo teneva impegnato in quel preciso momento, anche perché papà non ha mai avuto uno studio in casa e, dunque, gli script che gli venivano sottoposti li leggeva in mezzo a noi”.
Qual è il classico Disney al quale è più affezionata?
“Probabilmente “Bambi”, al cui geniale art director Tyrus Wong dedicheremo la prossima mostra al museo. Però, il mio ricordo più vivido è legato alla prima volta che vidi “Biancaneve e i sette nani”. Avevo tre anni e mezzo e mio padre lo proiettò apposta per me nel cinema dello studio Disney, poche settimane prima dell’uscita. Ma di fronte alla sequenza della trasformazione della regina in strega provai una paura enorme, iniziai a piangere e urlare, tanto da dover essere portata fuori alla luce. Fu un’emozione fortissima”.
Lei, da bambina, andava spesso a cinema con suo padre?
“In realtà, io non andavo a cinema, perché i film li vedevo nelle sale degli Studios hollywoodiani. Ho un bellissimo ricordo, per esempio, de “La febbre dell’oro” di Chaplin, anche se non ero una cinefila. Amavo, però, i cartoons disneyani, anche se all’inizio non rimasi tanto colpita da Topolino. Soltanto da adulta mi resi conto che quel personaggio, di fatto, è proprio mio padre”.
Qual è la principale eredità di Walt Disney, secondo lei?
“Gioia e felicità, perché lui è stato un narratore che voleva divertire la gente. Poi, dal punto di vista artistico, la sua influenza è enorme. Grazie alla Cal Arts, la struttura tecnico-didattica da lui fondata in California, si sono formati, nel corso dei decenni, tanti artisti e animatori che, ancora oggi, reggono le sorti dell’industria, a partire da autori geniali come John Lasseter e Tim Burton”.
Come si spiega, signora Disney, l’inesauribile successo europeo e italiano dei fumetti disneyani, molto maggiore rispetto agli Stati Uniti e certificato dai 3000 numeri del settimanale “Topolino”?
“Non riesco a spiegarmelo razionalmente. L’Italia, tra l’altro, propone storicamente la più importante scuola mondiale di fumettisti Disney, fin da quando, negli anni ’30, papà siglò il contratto con Arnoldo Mondadori, per permettergli di realizzare le versioni italiane ufficiali dei suoi personaggi. Al museo abbiamo alcune foto di quegli incontri, con la firma che arrivò sulla barca di Mondadori”.
Il museo che lei ha dedicato a suo padre ne mette in evidenza anche l’aspetto privato. Ma chi era Walt Disney tra le mura domestiche?
“Era un uomo normale, persino ordinario, ma che sapeva cosa gli piaceva e cosa voleva. Non riusciva a stare fermo nemmeno per un istante e, appena poteva, si dedicava a lavori manuali. Una volta, per esempio, realizzò nel nostro giardino una riproduzione in scala del trenino che poi avrebbe messo al centro dei parchi Disneyland. Sì, perché l’idea di aprire quei luoghi di divertimento lui ce l’aveva da quando era ragazzo”.
E come papà? Le raccontava le favole della buonanotte?
“Era tenerissimo. Però, a leggerci le favole a letto era nostra madre. Papà, invece, ci ha portato ogni mattina in auto a scuola, dall’asilo fino alla high school. E durante quei tragitti scatenava tutta la sua fantasia: ci raccontava ciò a cui stava lavorando o che stava progettando, ma anche le storie dei suoi personaggi, dalla sua versione di Pinocchio a Biancaneve, da Topolino a Paperino. Credo che fosse anche una sorta di test per sviluppare nuove storie. Anche a tavola, le cene erano arricchite dai suoi racconti su tutto ciò che lo teneva impegnato in quel preciso momento, anche perché papà non ha mai avuto uno studio in casa e, dunque, gli script che gli venivano sottoposti li leggeva in mezzo a noi”.
Qual è il classico Disney al quale è più affezionata?
“Probabilmente “Bambi”, al cui geniale art director Tyrus Wong dedicheremo la prossima mostra al museo. Però, il mio ricordo più vivido è legato alla prima volta che vidi “Biancaneve e i sette nani”. Avevo tre anni e mezzo e mio padre lo proiettò apposta per me nel cinema dello studio Disney, poche settimane prima dell’uscita. Ma di fronte alla sequenza della trasformazione della regina in strega provai una paura enorme, iniziai a piangere e urlare, tanto da dover essere portata fuori alla luce. Fu un’emozione fortissima”.
Lei, da bambina, andava spesso a cinema con suo padre?
“In realtà, io non andavo a cinema, perché i film li vedevo nelle sale degli Studios hollywoodiani. Ho un bellissimo ricordo, per esempio, de “La febbre dell’oro” di Chaplin, anche se non ero una cinefila. Amavo, però, i cartoons disneyani, anche se all’inizio non rimasi tanto colpita da Topolino. Soltanto da adulta mi resi conto che quel personaggio, di fatto, è proprio mio padre”.
Qual è la principale eredità di Walt Disney, secondo lei?
“Gioia e felicità, perché lui è stato un narratore che voleva divertire la gente. Poi, dal punto di vista artistico, la sua influenza è enorme. Grazie alla Cal Arts, la struttura tecnico-didattica da lui fondata in California, si sono formati, nel corso dei decenni, tanti artisti e animatori che, ancora oggi, reggono le sorti dell’industria, a partire da autori geniali come John Lasseter e Tim Burton”.
lunedì 8 aprile 2013
ADDIO A BIGAS LUNA, IL REGISTA CHE AMAVA L'EROS E LA VITA
Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 7 aprile 2013)
(Il Mattino - 7 aprile 2013)
A Bigas Luna piaceva definirsi biofilo, per sottolineare quanto amasse la vita. In particolar modo, ne amava i tre elementi che, a suo dire, sanno descriverne meglio le affascinanti complessità, le contraddizioni e le mille sfumature: spiritualità, sessualità e cibo.
Il popolare regista spagnolo è scomparso ieri mattina a Tarragona, a 67 anni, al termine di una lunga lotta contro il cancro. Per suo espresso desiderio, hanno fatto sapere i familiari, “non avrà luogo alcun funerale, né omaggio pubblico”. Juan José (Josep Joan in catalano) Bigas Luna era nato a Barcellona il 19 marzo 1946 e, assieme al castigliano Pedro Almodovar (al quale lo univa una divertita e complice rivalità), ha incarnato in sé e nei suoi film il desiderio della Spagna di fine anni Settanta – inizio Ottanta di lasciarsi alle spalle il grigiore della dittatura franchista e riscoprire i colori e i mille sapori di una gioia di vivere chiassosa e caleidoscopica, magari torbida ma densissima di slanci vitalistici.
Dopo una serie di corti sperimentali direttamente collegati alla sua attività di designer, si rivela nel 1978 al festival di Cannes con “La chiamavano Bilbao”, cupa incursione quasi underground nelle ossessioni sessuali e nelle pulsioni omicide di un bizzarro maniaco verso una spogliarellista-prostituta, interpretata da Isabel Pisano, prima tra le tante attrici scoperte nel corso della carriera. “Bilbao”, tra l’altro, è realizzato in parallelo con un altro lungometraggio, “Tatuaje”, tratto dall’omonimo romanzo noir di Manuel Vazquez Montalban. Ed entrambi sono seguiti, l’anno dopo, dall’altrettanto disturbante “Caniche”, su due fratelli incestuosi e zoofili. Con questi primi titoli, il regista originario della Catalogna si caratterizza già per quelle atmosfere tra il surreale e il morboso che lo accompagnano per tutta la carriera, al pari di personaggi smarriti quasi sempre inseriti in strutture narrative ideali per evidenziarne il potenziale autodistruttivo e l’intrinseco pessimismo.
Basti pensare ai progressivi spostamenti del desiderio e alle attrazioni fatali di “Lola” (1985), rilettura in chiave di melodramma sadomasochistico della “Lolita” di Stanley Kubrick, con Angela Molina che s’imprime nella memoria per l’interpretazione della protagonista. O alle continue degradazioni di una donna affascinata dal sesso nel programmaticamente scandaloso “Le età di Lulù” (1990), il film che, a partire dal best seller di Almudena Grandes, trasforma Francesca Neri in una diva internazionale. E ancora agli effetti devastanti del potere della gelosia in “Prosciutto prosciutto”, la pellicola del 1992 con la quale Bigas Luna conquista il Leone d’argento alla Mostra di Venezia e, soprattutto, lancia i due interpreti destinati a imporsi come i nomi di punta del nuovo cinema iberico: l’allora diciottenne Penelope Cruz e il bel tenebroso Javier Bardem. Proprio l’attore poi vincitore dell’Oscar come non protagonista nel 2008 (per “Non è un Paese per vecchi” dei fratelli Coen) torna a farsi dirigere da Luna l’anno dopo, nel cinico e divertito “Uova d’oro”, secondo capitolo di quella “trilogia mediterranea” che termina nel 1994 col visionario “La teta y la luna”, bizzarria pseudofelliniana con Mathilda May dedicata al tema della sessualità pregenitale.
Tralasciando il pessimo “Bambola” (1996) con Valeria Marini (passato alla storia unicamente per un’accoglienza più che turbolenta alla Mostra di Venezia), dell’ultimo Bigas Luna vanno ricordati “L’immagine del desiderio” (1997), Volavérunt (2000) e il sensuale mélo “Son de mar” (2001). Con l’ancora inedito in Italia “Yo soy la Juani” del 2006, infine, il regista catalano lancia l’ultima sua musa, Veronica Echegui, caratterizzata da una sensualità selvaggia e da una trascinante energia, com’è stato spesso per le sue attrici.
I sodalizi artistici con Francesca Neri, Stefania Sandrelli, Anna Galiena, Alessandro Gassman, Valeria Marini testimoniano di un rapporto profondo con l’Italia, dove amava lavorare ma anche rilassarsi. E tra i suoi film-culto, non a caso, ne inseriva sempre uno del prediletto Vittorio De Sica, “L’oro di Napoli”, pellicola schiettamente “commerciale” come quasi tutta la sua produzione, all’insegna dell’amore per il sesso, il cibo, la vita.
martedì 2 aprile 2013
FINE DELLA TERZA STAGIONE (MAGNIFICA!) PER "THE WALKING DEAD"
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