(Il Mattino - 25 aprile 2013)
Come si spiega, signora Disney, l’inesauribile successo europeo e italiano dei fumetti disneyani, molto maggiore rispetto agli Stati Uniti e certificato dai 3000 numeri del settimanale “Topolino”?
“Non riesco a spiegarmelo razionalmente. L’Italia, tra l’altro, propone storicamente la più importante scuola mondiale di fumettisti Disney, fin da quando, negli anni ’30, papà siglò il contratto con Arnoldo Mondadori, per permettergli di realizzare le versioni italiane ufficiali dei suoi personaggi. Al museo abbiamo alcune foto di quegli incontri, con la firma che arrivò sulla barca di Mondadori”.
Il museo che lei ha dedicato a suo padre ne mette in evidenza anche l’aspetto privato. Ma chi era Walt Disney tra le mura domestiche?
“Era un uomo normale, persino ordinario, ma che sapeva cosa gli piaceva e cosa voleva. Non riusciva a stare fermo nemmeno per un istante e, appena poteva, si dedicava a lavori manuali. Una volta, per esempio, realizzò nel nostro giardino una riproduzione in scala del trenino che poi avrebbe messo al centro dei parchi Disneyland. Sì, perché l’idea di aprire quei luoghi di divertimento lui ce l’aveva da quando era ragazzo”.
E come papà? Le raccontava le favole della buonanotte?
“Era tenerissimo. Però, a leggerci le favole a letto era nostra madre. Papà, invece, ci ha portato ogni mattina in auto a scuola, dall’asilo fino alla high school. E durante quei tragitti scatenava tutta la sua fantasia: ci raccontava ciò a cui stava lavorando o che stava progettando, ma anche le storie dei suoi personaggi, dalla sua versione di Pinocchio a Biancaneve, da Topolino a Paperino. Credo che fosse anche una sorta di test per sviluppare nuove storie. Anche a tavola, le cene erano arricchite dai suoi racconti su tutto ciò che lo teneva impegnato in quel preciso momento, anche perché papà non ha mai avuto uno studio in casa e, dunque, gli script che gli venivano sottoposti li leggeva in mezzo a noi”.
Qual è il classico Disney al quale è più affezionata?
“Probabilmente “Bambi”, al cui geniale art director Tyrus Wong dedicheremo la prossima mostra al museo. Però, il mio ricordo più vivido è legato alla prima volta che vidi “Biancaneve e i sette nani”. Avevo tre anni e mezzo e mio padre lo proiettò apposta per me nel cinema dello studio Disney, poche settimane prima dell’uscita. Ma di fronte alla sequenza della trasformazione della regina in strega provai una paura enorme, iniziai a piangere e urlare, tanto da dover essere portata fuori alla luce. Fu un’emozione fortissima”.
Lei, da bambina, andava spesso a cinema con suo padre?
“In realtà, io non andavo a cinema, perché i film li vedevo nelle sale degli Studios hollywoodiani. Ho un bellissimo ricordo, per esempio, de “La febbre dell’oro” di Chaplin, anche se non ero una cinefila. Amavo, però, i cartoons disneyani, anche se all’inizio non rimasi tanto colpita da Topolino. Soltanto da adulta mi resi conto che quel personaggio, di fatto, è proprio mio padre”.
Qual è la principale eredità di Walt Disney, secondo lei?
“Gioia e felicità, perché lui è stato un narratore che voleva divertire la gente. Poi, dal punto di vista artistico, la sua influenza è enorme. Grazie alla Cal Arts, la struttura tecnico-didattica da lui fondata in California, si sono formati, nel corso dei decenni, tanti artisti e animatori che, ancora oggi, reggono le sorti dell’industria, a partire da autori geniali come John Lasseter e Tim Burton”.
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