Di Diego Del Pozzo
“It’s a town full of losers
And I’m pulling out of here to win”
(Bruce Springsteen, Thunder Road, 1975)
Guardando Il giovane favoloso di Mario Martone c’è un momento, più di altri, nel quale appare chiaro l’approccio seguito dal regista napoletano nel suo nuovo corpo a corpo artistico con la figura gigantesca e troppo spesso fraintesa di Giacomo Leopardi, dopo le precedenti incursioni teatrali del 2004 con L’opera segreta di Enzo Moscato e del 2011 con le Operette morali. Il momento è un urlo vertiginoso, quasi punk, l’urlo del giovane Giacomo - "Odio questa vile prudenza!" - pronto a mettere a ferro e fuoco con la forza dirompente e sinceramente eversiva della sua parola poetica la grigia Recanati natìa, il polveroso Regno Pontificio dell’epoca, l’Italia ancora di là da venire, l’Europa e il mondo intero: un urlo che significa “rivoluzione”, ma non quella dei coevi patrioti divisi in mille conventicole, bensì una rivoluzione innanzitutto interiore, fatta di libertà e di amore, di diritto alla felicità individuale, di uno sguardo gettato sull’abisso senza mai chiudere gli occhi, di laicismo e apertura intellettuale; una rivoluzione pronta a prender forma proprio dai mille frammenti delle troppe catene forgiate da convenzioni sociali e religiose sentite come sempre più odiose e insopportabili.
E, in tal senso, l’urlo del Giacomo martoniano è lo stesso di chi, ovunque nel mondo, tenti con tutte le sue energie di fuggire dalle province dell’anima, col vento in faccia e un carico di sogni e di speranze, pur consapevole che queste sono destinate a trasformarsi presto in illusioni. A cantare l’eternità di questa umana pulsione, allora, può essere un poeta ventiquattrenne di nobili natali, che a inizio Ottocento evade dalla piccola e bigotta Recanati – “Una città piena di perdenti / E io me ne sto andando per vincere”, verrebbe da dire – fino alla cosmopolita Firenze e poi nelle viscere di una metropoli caleidoscopica e proteiforme come Napoli; ma anche un rocker ventenne del New Jersey che, a fine anni Sessanta del Novecento, scappa dall’asfittica Freehold per andare a guardare l’Infinito sul boardwalk di Asbury Park e poi, lungo il George Washington Bridge e la Grande Mela, porsi alla conquista del “sogno americano” e del mondo.
Si resta persino spiazzati, dunque, di fronte all’afflato quasi springsteeniano del film di Martone, che ha atteso gli anni della maturità per girare il suo lavoro più rabbiosamente rock e che, per farlo, ha rivolto il proprio sguardo soltanto in apparenza di nuovo al passato, estraendone in realtà una tra le figure intellettuali più moderne e in anticipo sui suoi e, forse, sui nostri tempi. Da questo punto di vista, il Giacomo Leopardi de Il giovane favoloso non è “nostro contemporaneo”, come ama suggerire il regista, ma pare addirittura un alieno proveniente dal futuro, a disagio ovunque vi sia ipocrisia e bigottismo, alla perenne ricerca di un Qualcosa che sia in grado di fargli oltrepassare i limiti imposti da un potere ottuso e disumano (“Non riesco a comprendere masse felici composte da individui infelici”), ma anche quelli intrinseci nella sua stessa sofferta fisicità, capace di imprigionarne in maniera ancora più tragica l’infinita profondità dell’intelletto e dell’animo.
In un’operazione di tali raffinatezza e complessità concettuale e progettuale sono due gli elementi che s’impongono come decisivi per ben definire il mood e il senso profondo e intimo di una narrazione che, comunque, fluisce sempre con miracolosa naturalezza: il corpo del protagonista Elio Germano, straordinario nel suo farsi mappa quasi cronenberghiana delle progressive transmutazioni dentro e fuori di sé; e le sonorità elettroniche glaciali ed evocative di Sascha Ring, l’artista tedesco meglio noto come Apparat, capace di ampliare a dismisura, ben oltre i suoi confini spazio-temporali, la portata stessa del racconto martoniano, soltanto in apparenza collocato nell’Italia d’inizio Ottocento, ma in realtà – attraverso la vertigine di senso prodotta dall’impasto di corpi, suoni e sguardi – scagliato a folle velocità in una sorta di lancinante buco nero dell’anima al di là del tempo e dello spazio.
Nel film di Martone, il diritto a un’impossibile felicità e il dissidio tra natura e cultura, tra carne e spirito, tra corporeo e incorporeo si fanno sguardo – poetico come la parola leopardiana – e si risolvono in puro cinema, nel quale squarci visionari ed estatiche contemplazioni s’alternano a fiammeggianti ossessioni e febbrili cortocircuiti sensoriali, con scelte registiche inattese ma di straordinaria consapevolezza linguistica e narrativa che, a partire dalla viva voce di Leopardi e dai suoi scritti, riescono a far letteralmente vibrare la Poesia sullo schermo, rendendola un attimo prima materica e quello dopo evanescente e quasi fantasmatica, spaventosa eco interiore dell’effettiva caratura dell’esistenza umana nell’immensità dell’universo.
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