Di Diego Del Pozzo
venerdì 26 maggio 2017
WELCOME, AGAIN, TO TWIN PEAKS!
Di Diego Del Pozzo
In occasione della messa in onda italiana ufficiale dell'attesissima nuova stagione-evento di Twin Peaks, stasera alle ore 21.15 su Sky Atlantic HD (canale 110 del pacchetto Sky), ripubblico qui il paragrafo dedicato alla serie originale del 1990-1991 nel mio libro (oggi fuori catalogo) Ai confini della realtà. Cinquant'anni di telefilm americani (Lindau, 2002). Buona lettura! (d.d.p.)
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L’arrivo degli anni ‘90 segna una piccola rivoluzione per quel che riguarda i serial di genere familiare, non necessariamente comici. La decade, infatti, è aperta da una «gemma oscura» che porta sotto l’obiettivo «l’altra faccia» della famiglia a stelle e strisce, il suo lato oscuro e terribile. Per effettuare questo tuffo nell’Incubo Americano, basta spostarsi da Columbus, Ohio, dove vive la famiglia Keaton, fino a una piccola e tranquilla cittadina (immaginaria) quasi al confine col Canada: Twin Peaks. Qui il regista David Lynch e il produttore Mark Frost ambientano un progetto televisivo per molti versi rivoluzionario rispetto alla tradizione della serialità catodica statunitense: «I segreti di Twin Peaks» («Twin Peaks»), in onda sulla ABC per due stagioni dall’aprile 1990 al giugno 1991 e considerato all’epoca come il primo grande esempio di televisione “d’autore”.
Il cartello di benvenuto nella placida cittadina recita un beneaugurante «Welcome to Twin Peaks», lungo una strada statale alberata che costeggia pescosi laghi di montagna. Siamo a poco più di cinque miglia dal confine canadese e la piccola Twin Peaks sembra un autentico paradiso, orgoglioso delle sue antiche tradizioni e di una prosperità economica nata e sviluppatasi sul commercio del legname; una realtà, insomma, fatta di concretezza del lavoro materiale quotidiano e di legami familiari decisamente solidi, di torte di mele e feste scolastiche al chiaro di luna. Sembra proprio di trovarsi lontano dalle nevrosi degli anni ‘90, catapultati come d’incanto – con lo stesso effetto straniante subìto dal Marty McFly protagonista di «Ritorno al futuro» («Back to the Future», 1985, di Robert Zemeckis) – in un classico contesto suburbano degli anni ‘50. Ma tutto ciò non è altro che una mera facciata.
Con «I segreti di Twin Peaks», infatti, David Lynch smaschera definitivamente – perché, si badi bene, lo fa in televisione – le ipocrisie del «Sogno americano», che ha prosperato per decenni proprio sull’immaginario derivante dalle sit-com televisive come «Lucy ed io». Lo fa manipolando e mixando sapientemente gli stilemi di generi che rimandano alla «Golden Age» della tv statunitense, come la soap e il poliziesco, rovesciando del tutto i concetti cardine delle sit-com tradizionali (il riso in pianto, la gioia in dolore…) e rifacendosi per diversi altri elementi a classici del grande schermo come «Passaggio a Nord-Ovest» («Northwest Passage», 1940, di King Vidor) e, soprattutto, «I peccatori di Peyton» («Peyton Place», 1957, di Mark Robson), richiamato fin dal titolo. «Un pesante marchio di Lynch è la predilezione per gli anni ‘50, a cui tutti i suoi film in qualche modo rimandano. Non a caso, è il periodo in cui il regista stesso usciva dall’infanzia. […] In “I segreti di Twin Peaks” la galleria dei personaggi comprende vari modelli – dal ribelle solitario a quelli riuniti in gang, dalla capricciosa figlia di papà agli amanti clandestini, dagli avidi uomini d’affari ai poliziotti integerrimi – fortemente radicati nell’immaginario collettivo degli anni ‘50. Il modo in cui Lynch rievoca questo periodo merita una riflessione: dando sfogo agli impulsi sotterranei, repressi, ipocritamente negati dell’America di allora, permette anche ai suoi valori autentici – il suo spirito d’avventura, il suo ingenuo pragmatismo, il non arrendersi – di risultare senza apparenza di inganno» (Alessandro Camon, «David Lynch e I segreti di Twin Peaks»; supplemento a «Ciak», n. 1, 1991, pag. 61). Ma qui, comunque, ciò che l’autore vuole mostrare sui teleschermi è soprattutto il lato oscuro della famiglia yankee, quello meno confessabile, con tutte le perversioni e violenze (fisiche e psicologiche) tenute sempre serrate sotto chiave nei prodotti seriali del passato. E dunque, a innervare il tessuto sociale di Twin Peaks – come si scopre con l’evolversi degli episodi – ci sono forti conflitti generazionali, persino incestuosi all’interno delle varie famiglie; ammirate reginette di bellezza del liceo locale che, in realtà, si rivelano ninfomani e cocainomani; storie d’amore infarcite di tradimenti, anche multipli; rispettabili uomini d’affari che nascondono trame inconfessabili; psicoanalisti drogati e insospettabili avvocati schizofrenici, con i nervi distrutti e persino posseduti da entità maligne.
La chiave di ingresso per entrare in questo mondo oscuro e dalla doppia morale è rappresentata dal ritrovamento del cadavere di Laura Palmer (Sheryl Lee), la bionda e apparentemente irreprensibile reginetta del liceo cittadino, il cui corpo nudo emerge all’improvviso dalle acque del lago. L’avvenimento luttuoso dà il via a una serie di vicende destinate a sgretolare, letteralmente, la «placida» Twin Peaks, passata al setaccio nel corso delle sue indagini – con fare quasi da entomologo – dal giovane agente FBI Dale Cooper (Kyle MacLachlan).
A uno sguardo superficiale, «I segreti di Twin Peaks» può apparire, dunque, come un serial poliziesco, anche se piuttosto anomalo. In realtà, ciò che interessa davvero a Lynch non è la risoluzione del mistero in cui ha calato l’attonito spettatore, bensì «l’annegamento» del suo pubblico in un clima, un’atmosfera di malsana inquietudine, da cui sembra non esserci via di scampo. «“Chi ha ucciso Laura Palmer?” – scrive ancora Alessandro Camon nel suo saggio (Ivi, pagg. 51-52) – non è tanto il quiz da risolvere, quanto la formula iniziatica che permette l’accesso a un mondo di mistero. Il “piacere”, il motivo di interesse, si sposta dall’attesa della soluzione alla moltiplicazione delle domande, dall’estinguersi dei segreti al loro allargarsi verso sempre più numerosi aspetti della vita dei personaggi. Saperne di più, insomma, significa rendersi conto che anche quanto appare normale cela il mistero». E il riferimento alle sit-com degli anni ‘50 – con la loro «realtà normale», edulcorata e semplificata – diventa, a questo punto, quasi obbligatorio e fortemente eversivo.
D’altra parte, il rovesciamento perseguito da Lynch diventa ancora più evidente se si pensa all’uso ossessivo che egli fa di alcuni elementi tipici del suo modo di narrare, come, per esempio, le lacrime: come, infatti, nelle sit-com classiche il sorriso – a volte anche un po’ forzato – è centrale e onnipresente; così, all’opposto, in «I segreti di Twin Peaks» si piange tanto e l’identità stessa dei vari personaggi è definita proprio attraverso il dolore. «Raramente, o forse mai, si sono viste versare tante lacrime (cinque scene con uomini che piangono nella prima mezz’ora sono una specie di record): una situazione melodrammatica – sottolinea ancora Camon (Ivi, pag. 53) – tipica della soap opera viene proposta qui con tanta intensità da risultare quasi insostenibile. Ancora una volta, siamo al limite di quella che potremmo chiamare “pornografia del dolore”». E ancora, mentre la morte è addirittura bandita dalle situation comedy (ed è mostrata rigorosamente fuori campo visivo nelle soap), qui funge da punto di partenza e «motore» stesso dell’intera vicenda (Laura Palmer è già stata uccisa, all’inizio), ne è l’antefatto, il presupposto che muove tutti i personaggi.
Anche i conflitti generazionali, sempre ben occultati nelle sit-com degli anni ‘50 (in modo persino stridente, rispetto a un contesto sociale attraversato dai fermenti – ben incarnati pure dalla prima ondata del rock ’n roll – destinati a concretizzarsi nella seconda metà degli anni ‘60), sono morbosamente portati in scena da Lynch, fino all’eccesso dell’incesto, come ben esemplificano perlomeno un paio di sequenze: nella prima, Leland Palmer (Ray Wise) si getta sulla bara della figlia Laura mentre sta per essere calata sottoterra, facendo spezzare il meccanismo della carrucola e costringendo la cassa a sussultare su e giù sotto il proprio peso, come durante un atto sessuale; nel secondo caso, poi, la sensuale Audrey Horne (Sherilyn Fenn) decide di andare a lavorare nel bordello di cui è cliente anche suo padre, il miliardario Benjamin (Richard Beymer), che nella seconda serie non potrà fare a meno d’incontrarla.
E anche dal punto di vista strutturale, «I segreti di Twin Peaks» propone non poche innovazioni rispetto al passato. La dimensione temporale della narrazione, innanzitutto, è essa stessa allucinogena e allucinata, poiché l’eterno presente della serialità catodica è costantemente sabotato con reiterati cortocircuiti tra passato e futuro che vi fanno irruzione, come flash quasi subliminali, mutandolo di segno (e di senso). La musica «eccentrica» di Angelo Badalamenti «agisce» spesso per contrasto rispetto alle immagini (si pensi all’importante sequenza dell’episodio pilota, ambientata nel Roadhouse, con Julee Cruise che canta un brano romantico e struggente mentre, sullo sfondo, è in atto una violenta scazzottata). L’ipnotica lentezza con cui Lynch gira, poi, contravviene qualunque regola del prime time televisivo (la fascia oraria in cui va in onda «Twin Peaks»), tutto improntato solitamente a ritmi concitati e serrati, per paura di annoiare e, quindi, far perdere potenziali clienti agli inserzionisti dei vari programmi. E proprio lo stacco per la pubblicità è spesso previsto – altra piccola, grande «rivoluzione» – su immagini programmaticamente prive di tensione drammatica e anzi fini a se stesse (il contrario, insomma, del cliffhanger).
Altro elemento peculiare di «I segreti di Twin Peaks» – e che si rivelerà seminale, per i serial televisivi degli anni successivi – è, poi, costituito dall’irruzione di «schegge» impazzite di fantastico nel tessuto realistico della quotidianità (basti pensare, tra i tanti possibili esempi, ai soli personaggi di Killer Bob e dell’Uomo-da-un-altro-spazio). Così, in un suo bel libro-intervista, Chris Rodley fa notare allo stesso David Lynch come «[…] da “Twin Peaks” in poi si è verificato un evidente incremento di programmi concentrati sul paranormale, gli UFO e altre stranezze: “Wild Palms”, “American Gothic”, “X-Files”. A quanto pare “Twin Peaks” ha inaugurato un filone. […] Determinati argomenti o determinate storie non figuravano regolarmente nella programmazione televisiva, né erano popolari come lo sono oggi. Col senno di poi, potremmo affermare che “Twin Peaks” ha contribuito a creare una certa bramosia per questo genere di materiale» (Chris Rodley, «Lynch secondo Lynch», Baldini & Castoldi, Milano 1998, pag. 256). In particolare, come visto nelle pagine dedicate a «X-Files», sembra abbastanza stretto il legame con quest’ultima serie, come dimostrano le atmosfere e l’ambientazione dell’episodio pilota del telefilm ideato da Chris Carter (che, tra l’altro, vede uno dei due protagonisti, David Duchovny, impegnato in una comparsata «en travesti» proprio all’interno di «I segreti di Twin Peaks»). Insomma, pescando nel vastissimo territorio dell’immaginario compreso tra Stephen King e «Peyton Place», David Lynch porta, per la prima volta all’interno dei tinelli domestici, «un incrocio multidirezionale tra testi diversissimi e generi disparati, usando come unico collante il fanta-horror. E usandolo, si badi bene, con una durezza di linguaggio così efficace che, pur non frequentando per ovvi motivi lo “splatter” (non ci si dimentichi mai della specifica natura del pubblico televisivo), più di un passaggio risulta particolarmente disturbante» (Danilo Arona, «Nuova guida al Fantacinema», PuntoZero, Bologna 1997, pag. 56).
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giovedì 25 maggio 2017
LA BONELLI LANCIA "MERCURIO LOI"!
Di Diego Del Pozzo
Dopo tanta attesa, è appena arrivata nelle edicole italiane la prima serie regolare mensile della Sergio Bonelli Editore interamente ambientata in Italia. Si tratta di “Mercurio Loi”, creata e scritta da uno sceneggiatore molto amato dagli appassionati come Alessandro Bilotta assieme al disegnatore Matteo Mosca. Proprio Bilotta la presenta oggi a Napoli, in mattinata durante un seminario alla Scuola Internazionale di Comics e nel pomeriggio presso la fumetteria Star Shop.
Un'immagine da "Mercurio Loi" n.° 1 |
Ambientata nella Roma del 1825-1826 governata dal Papa con la severità di un monarca, la serie ha come protagonista un professore di storia stravagante ed estroso, gentiluomo brillante e ironico, un po’ dandy e un po’ flâneur ante litteram, coinvolto mese dopo mese in vicende misteriose, macchinazioni diaboliche, società segrete e leggende che risalgono alla notte dei tempi. Circa un mese fa, durante Napoli Comicon, la Bonelli ha presentato un volume cartonato a colori di grande formato (128 pagine, 25 euro) con la ristampa della prima avventura di Mercurio Loi, già pubblicata due anni fa in bianco e nero all’interno della serie antologica “Le storie”. Da martedì (23 maggio), invece, è in edicola il primo numero della serie regolare, intitolato “Roma dei pazzi”. Tutte le copertine sono di Manuele Fior, autore di fama internazionale per la prima volta alle prese col mondo Bonelli.
Ho intervistato il creatore della serie, Alessandro Bilotta, proprio in occasione del Comicon, per un servizio pubblicato in quei giorni dal quotidiano “Il Mattino”. Questa qui di seguito, però, è la versione integrale della nostra conversazione.
Alessandro, come ti è venuta in mente una serie a fumetti ambientata nella Roma dello Stato Pontificio?
“Volevo collocare “Mercurio Loi” in un periodo storico non contemporaneo, ma che fosse misterioso e suggestivo. E, senza andare troppo indietro nei secoli, la Roma dei primi decenni dell’Ottocento m’è sembrata perfetta, col papa re quasi tiranno, ossessionato dai cospiratori, sempre pronto ad autorizzare tagli di teste, anche per crimini banali, come la prostituzione. A quei tempi, l’ordine era mantenuto attraverso il coprifuoco, segnalato con un colpo di cannone da Castel Sant’Angelo. Ma questo clima oscuro e un po’ inquietante si scontrava costantemente col carattere tipico dei romani, di sufficienza e assoluta diffidenza nei confronti di qualsiasi dittatore”.
Che tipo di ricerche hai fatto, per ricostruire il mondo di “Mercurio Loi”?
“Sono dovuto andare direttamente alle fonti storiche, consultando molti materiali in archivi e biblioteche, perché mi sono reso conto che nella cultura popolare quest’epoca è quasi del tutto assente. Ci sono “Il marchese del Grillo” di Monicelli o i film di Luigi Magni ambientati in quel periodo, ma soltanto “Nell’anno del signore” si svolge proprio nel 1825. Quest’assenza, però, è stata anche un po’ la mia fortuna, perché così ho potuto creare qualcosa di nuovo, con grande rigore storico anche nei dettagli degli abiti e dei luoghi”.
Alessandro Bilotta |
Quali saranno, dunque, le atmosfere caratteristiche della serie?
“Di grande realismo storico, come detto, ma ovviamente avventurose e anche un po’ sopra le righe, con un pizzico di surreale e metaforico e qualche riflessione filosofica. La mia idea di partenza era addirittura quella di creare una serie quasi supereroica, con cattivi molto cattivi, misteri, cospirazioni, personaggi mascherati, sette segrete. I veri personaggi storici resteranno sullo sfondo, in modo da evitare di essere troppo didascalico”.
Ma chi è il tuo Mercurio Loi?
“Si tratta di un personaggio piuttosto originale per quelli che sono gli standard bonelliani, a partire dall’aspetto fisico, tutt’altro che perfetto. Mercurio, infatti, l’ho costruito proprio a partire dai suoi difetti fisici, dandogli un’aria furba e sinistramente ambigua, manifestazione della sua indole. Per lui, professore di storia all’università, conta molto tutto ciò che è sfida di intelligenza e cultura, da affrontare però sempre con un’ironia molto marcata, che spesso sa trasformare in arma per ottenere ciò che vuole. Accanto a lui agisce Ottone, un suo allievo in odore di carboneria, molto più che una semplice spalla, quanto piuttosto l’altra faccia di un’unica medaglia”.
Com’è composto lo staff della serie?
“Per il momento, ai testi ci sono soltanto io. Poi, in futuro, capirò se avrò la necessità di farmi affiancare da altri sceneggiatori. Matteo Mosca è il creatore grafico del personaggio e l’autore delle prime storie. Si tratta del disegnatore col quale ho lavorato di più nella mia vita e, dunque, m’è sembrato subito la scelta più logica. Oltre a lui, ho coinvolto altri ottimi disegnatori bonelliani come, per esempio, Sergio Gerasi o Andrea Borgioli. Il copertinista regolare della serie, invece, è Manuele Fior, un artista molto apprezzato in Italia e all’estero, il cui tratto surreale è perfetto per la capacità di abbinare concretezza di un disegno ben strutturato scenograficamente e suggestioni irreali”.
Al Comicon di quest’anno, eri anche candidato al tuo terzo Premio Micheluzzi per la sceneggiatura di “La macchina umana”, un numero recente di “Dylan Dog” amatissimo dai lettori…
“A quella storia tengo davvero molto, perché la considero il mio manifesto sul personaggio, il modo nel quale io lo vedo oggi. Per me, infatti, Dylan dovrebbe sempre mantenere vive le sue caratteristiche più esistenziali e quello sguardo verso l’angoscia e l’orrore più claustrofobico, magari legato alla contemporaneità. Di case infestate e serial killer abbiamo scritto abbastanza. A me, invece, interessa un approccio più filosofico al personaggio e al suo mondo, che poi fondamentalmente è il nostro”.
Un approccio che utilizzi anche nel tuo apprezzatissimo ciclo de “Il pianeta dei morti”...
“Sì, assolutamente. Anche nelle storie de “Il pianeta dei morti”, il franchise di Dylan che porto avanti da qualche anno sugli appositi speciali annuali, con ambientazione in un futuro post-apocalittico nel quale l’umanità è ridotta a zombie, m’interrogo in realtà sul nostro presente e sulle angosce dell’animo umano. Tra l’altro, il decadimento fisico del protagonista, i suoi sensi di colpa e la metafora zombie mi permettono di approfondire molto bene questi temi. E anche i lettori sembrano apprezzare questo approccio, dato che il grande successo del ciclo sta facendo ragionare la Bonelli sulla possibilità di cambiarne la periodicità, da annuale a semestrale”.
L’appuntamento annuale del Comicon serve anche per fare il punto della situazione sullo stato di salute del fumetto in Italia. Tu che ne pensi?
“Bisogna distinguere i piani. Dal punto di vista editoriale, la situazione mi sembra abbastanza chiara, con un’unica grande azienda, la Bonelli, che pubblica ogni mese migliaia di pagine di fumetto inedite e ha una sua struttura industriale di un certo livello. Non a caso, tutti gli autori italiani cercano di allacciare rapporti con questa casa editrice, dato che le altre realtà sono molto più piccole e meno strutturate anche economicamente. Per il resto, gli altri grossi editori italiani sono soprattutto traduttori di materiali esteri, principalmente dagli Stati Uniti e dal Giappone. Dal punto di vista creativo, invece, oggi c’è davvero tantissimo, con molti artisti di alto livello, come non se ne vedevano da anni. Forse, dal mio punto di vista, mi piacerebbe confrontarmi con più sceneggiatori dalle forti ambizioni narrative. Ne vedo troppo pochi e questo un po’ mi dispiace”.
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giovedì 11 maggio 2017
UN MIO RICORDO DI MINO ARGENTIERI
Di Diego Del Pozzo
Chiunque abbia seguito i corsi universitari di Storia del cinema con Mino Argentieri all'Orientale di Napoli conosce molto bene le "mitiche" dispense che riproduco qui sotto. Oggi il Comune di Napoli, su iniziativa dell'assessore alla cultura Nino Daniele, ricorda Mino a poco meno di due mesi dalla sua scomparsa (avvenuta il 22 marzo), nel corso di un incontro aperto ai suoi ex studenti, amici, collaboratori. E ho pensato che poteva essere bello lasciare anche qui un mio ricordo personale dell'uomo che - come scrissi al momento della sua morte - ha cambiato per sempre il corso della mia vita.
All'epoca, infatti, al mio terzo anno di università all'Orientale, da studente presso la Facoltà di Scienze politiche, ero già impegnato nella mia tesi di laurea in Storia sociale con un altro professore per me molto importante come lo storico Paolo Frascani (un'avvincente tesi sul commercio ad Aversa durante l'Ottocento!!!) e la mia vita futura mi sembrava già piuttosto indirizzata verso la ricerca storica o, chissà, l'insegnamento di materie collegate. Poi, però, appena iniziai a seguire il corso di Mino (che ero riuscito a inserire, biennalizzandolo, nel piano di studi, sfidando la burocrazia universitaria, poiché era un esame di un'altra Facoltà), impazzii letteralmente, mollai tutto e capii che cosa avrei voluto fare davvero nella vita. Così, andai da Frascani (che, per fortuna, all'epoca era anche il preside di Scienze politiche e che poi mi sarei ritrovato, piacevolmente, come presidente in commissione di laurea) e mi scusai con lui, spiegandogli le mie ragioni. Fui anche fortunato, perché lui era il classico storico illuminato, tra l'altro figlio di un grande critico teatrale e cinematografico come Federico Frascani. Quindi, anche per la stima profonda nei confronti di Mino, non mi creò nessun problema e mi autorizzò a procedere subito in quel nuovo percorso di laurea, che poi rappresentò semplicemente l'inizio di ciò che mi avrebbe aspettato in futuro. Senza aver conosciuto Mino, dunque, quasi certamente la mia vita professionale oggi sarebbe completamente diversa.
Il ricordo che voglio condividere qui, però, è di tutt'altro genere e riguarda un uomo che, alla soglia dei 70 anni, scoprì il videoregistratore e iniziò a costruirsi la propria videoteca, con l'entusiasmo di un fanciullo. Per tutta la vita, infatti, Mino aveva sempre visto i film al cinema e quelli necessari alle sue ricerche recandosi alla Cineteca nazionale oppure presso qualche altra istituzione amica, quasi sempre comunque direttamente in pellicola. Nonostante ciò, per tutta la sua carriera universitaria a Napoli, durata più di 25 anni, aveva provveduto a far registrare ai tecnici dei nostri laboratori audiovisivi, con una precisione vicina alla pignoleria, qualsiasi film venisse trasmesso dai canali televisivi pubblici, privati, free e poi a pagamento, riuscendo così a creare da zero quello che, negli anni, era diventato il più grande archivio audiovisivo universitario italiano (credo che al suo picco abbia oltrepassato i 20mila titoli!!!), oggi purtroppo andato completamente perduto nel disinteresse generale. Si trattava di videocassette Beta e poi Vhs che noi studenti potevamo visionare, oltre che nelle aule durante i corsi regolari, anche nelle tante postazioni video presenti ai laboratori. E tanti di noi (compreso il sottoscritto) hanno costruito così la propria cultura cinematografica, trascorrendo intere giornate a divorare film in quella che, in pratica, era diventata la nostra seconda casa!
Ebbene, il ricordo riguardante Mino e la nascita della sua videoteca casalinga va situato intorno alla metà degli anni Novanta, all'epoca degli ultimi anni della sua frequentazione napoletana da pendolare in arrivo col treno da Roma due volte alla settimana, a cavallo tra la mia laurea e gli anni appena successivi nei quali collaboravo informalmente con la sua cattedra e, comunque, continuavo a gravitare lì intorno semplicemente per fare due chiacchiere con lui e, magari, costruire assieme qualche progetto culturale o qualche saggio per la sua storica rivista "Cinemasessanta".
Accadde, dunque, che Mino comprò finalmente un videoregistratore. E accadde che io e un altro paio di amici o ex amici, laureati come me presso la sua cattedra, gli spiegammo che a Napoli esisteva un mercatino nei pressi della stazione dove si potevano trovare autentiche chicche cinéphile a prezzi irrisori (ovviamente, parlo della Duchesca!). Lì dentro, infatti, arrivavano regolarmente tutte le collane vhs da edicola che in quegli anni proliferavano (chi ricorda le tante de "L'Unità" veltroniana?), ma anche migliaia di altri titoli acquistati dai bancarellai alle aste fallimentari e, dunque, venduti poi a prezzi bassissimi (spesso con tanto di scontrino). Non roba falsa, insomma, ma materiali provenienti da circuiti distributivi alternativi, seppur legali.
Ricordo come fosse oggi la prima volta di Mino in mezzo alla Duchesca. Fermo di fronte a quelle bancarelle stracolme di film di tutti i tipi si guardava intorno con l'eccitazione di un bambino, con gli occhi che sbirciavano ovunque, da un western classico americano a un raro Mizoguchi d'epoca, da una commedia italiana dei telefoni bianchi a Truffaut e Welles, dall'Hitchcock del periodo muto ad Antonioni e Germi. Ogni volta non credeva ai suoi occhi e, ben presto, fece diventare quell'appuntamento una tappa irrinunciabile di quello che divenne un percorso fisso dalla stazione all'università (rigorosamente a piedi, per poter chiacchierare più a lungo, senza fretta). La giornata iniziava con me che lo aspettavo alla stazione di Aversa (l'ultima prima di Napoli) e lui che, sul treno proveniente da Roma, s'affacciava al finestrino e mi salutava per indicarmi la carrozza nella quale era seduto. Proseguivamo assieme per quell'ultimo quarto d'ora di tragitto, fino alla stazione centrale di Napoli, dove ci attendevano gli altri nostri compagni di passeggiata. La prima tappa era presso una minuscola bancarella spuntata all'improvviso in piazza Garibaldi (lui definiva l'omone che la gestiva "il nostro amico") e misteriosamente sempre fornita di chicche rarissime (una volta, Mino mi fregò sul tempo un'ultima copia in vhs fuori commercio de "L'arpa birmana"!). Poi, sempre camminando lentissimi e fermandoci ogni due minuti per chiacchierare meglio, ci tuffavamo nell'affollato e chiassoso mercatino della Duchesca, da dove Mino fuoriusciva ogni volta con la sua borsa ben più pesante rispetto a poco prima. L'itinerario, quindi, proseguiva lungo l'intero Rettifilo (corso Umberto I, per i non napoletani) fino ai laboratori situati a piazza Borsa (dove ora si trova la fermata Università della metropolitana nuova). Qui, Mino provvedeva a fare lezione e ricevimento, mentre noi lo attendevamo per l'immancabile pizza e poi per riaccompagnarlo alla stazione, dove avrebbe preso il treno per ritornare a Roma, sempre a piedi e sempre immersi in nuove lunghe e avvincenti chiacchierate su qualsiasi argomento.
Ecco come Mino, a 70 anni suonati ma con l'entusiasmo di un giovane innamorato (del cinema), costruì la propria videoteca!
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venerdì 10 marzo 2017
CELEBRIAMO I VENT'ANNI DI "BUFFY"
Il lungo testo che segue - col quale rianimo questo blog dopo più di un anno - è tratto dal mio libro Ai confini della realtà. Cinquant'anni di telefilm americani, edito da Lindau a giugno 2002 e oggi, purtroppo, fuori catalogo. Lo ripubblico qui per celebrare a modo mio i vent'anni dalla messa in onda americana del primo episodio di Buffy (10 marzo 1997), certamente una tra le serie più importanti (e, ancora oggi, più fraintese) della televisione americana. Questo capitolo, intitolato Buffy, Dawson e l'orrore della crescita, rappresenta la prima analisi critica organica pubblicata in lingua italiana sull'epocale serie di Joss Whedon ed è stato riproposto anche nella sezione antologica compresa nel volume di Veronica Innocenti e Guglielmo Pescatore Le nuove forme della serialità televisiva. Storia, linguaggio e temi, pubblicato da Archetipolibri a gennaio 2008 (pagg. 166-173). Buona lettura!
(d.d.p.)
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Buffy, Dawson e l'orrore della crescita
Di Diego Del Pozzo
(tratto da Ai confini della realtà. Cinquant'anni di telefilm americani, Lindau, 2002 - Pagg. 133-142)
Un filone particolarmente
fiorente nel panorama della fiction seriale programmata dai network nel corso
degli anni ’90 è quello basato sulle commistioni tra gli stilemi del
fanta-horror e quelli del genere giovanilistico.
Il decennio, d’altra parte,
è inaugurato da due telefilm che aspettano soltanto di essere uniti insieme,
per produrre qualcosa di nuovo e mai visto prima: da un lato, l’oscuro “I
segreti di Twin Peaks” di David Lynch e Mark Frost (più volte evocato e di cui
parleremo nel prossimo capitolo); dall’altro, il «glamorous» “Beverly Hills
90210” (id., 1990) di Darren Star. Il primo serial è responsabile del «ritorno
di fiamma», da parte dei network, nei confronti del fantastico, e anticipa
atmosfere e inquietudini di “X-Files” e di tutto ciò che verrà dopo; il secondo
genera uno spin-off altrettanto popolare come “Melrose Place” (id., 1992), fa
scoppiare fenomeni d’isteria collettiva tra gli adolescenti dell’intero pianeta
– che, particolare decisivo, «consumano» come mai prima il vastissimo
merchandising legato alla serie – e, in un certo senso, crea i presupposti per
la nascita di uno show ben più maturo ma tematicamente affine come “Dawson’s
Creek” (id., 1998).
Un decisivo punto di svolta
arriva nel 1996, quando Wes Craven – partendo da un’ottima sceneggiatura del
giovane Kevin Williamson – dirige “Scream” (id.), film che si propone come
riflessione metanarrativa (iper-citazionista) sul genere horror e che, al tempo
stesso, cerca di rinnovare il filone attraverso commistioni col college movie e
la commedia per teenagers (secondo molti detrattori, però, segna anche la
definitiva morte dell’orrore cinematografico). Il clamoroso successo della
pellicola – confermato da altre due di poco successive, ancora scritte da
Williamson: il sequel-remake “Scream 2” (id., 1997) e “So cosa hai fatto” (“I
Know What You Did Last Summer”, 1997) – si rivela decisivo per convincere i
vertici dei network a sfruttare fino in fondo un filone che potrebbe rivelarsi
estremamente redditizio. Col senno di poi, appare seminale anche un film
stroncatissimo all’epoca della sua uscita: “Classe 1999” (“Class of 1999”),
diretto nel 1990 da Mark L. Lester e incentrato sulla lotta degli studenti del
Liceo «Ronald Reagan» contro tre ferocissimi professori-cyborg. Non a caso, proprio
Kevin Williamson ne scrive una sorta di remake (ben superiore all’originale,
però) con “The Faculty” (id., 1998), diretto da Robert Rodriguez e nel quale i
docenti sono sostituiti silenziosamente da «ultracorpi» alieni che progettano
di far partire l’invasione della Terra dal più classico college americano.
In particolare, comunque, mostrano
ottimo tempismo i dirigenti del network della Warner Bros., The Wb, poiché
mettono subito in produzione diverse serie televisive basate su spunti di
questo tipo e sulla presenza di giovani interpreti sexy e accattivanti. Il
genere produce immediatamente la nascita di un nuovo tipo di Stardom, con
giovani interpreti che si specializzano in film e telefilm di questo tipo:
Sarah Michelle Gellar, Neve Campbell, Jennifer Love Hewitt, Courteney Cox, Rose
McGowan, Ryan Phillippe, Freddie Prinze Jr., Alyson Hannigan, David Arquette,
per citare soltanto i più noti. Si inaugura, così, una vera e propria tendenza,
con diverse serie di nuova concezione che si riallacciano a una tradizione
pluridecennale, rileggendola all’insegna di una postmodernità caratterizzata
dal definitivo smascheramento della loro funzione di prodotti seriali
d’intrattenimento e, conseguentemente, da una buona dose d’ironia. In
quest’ambito lo stesso Kevin Williamson si vede approvare un suo progetto – di
genere realistico, però – che poi diventerà “Dawson’s Creek”. Il primo
telefilm basato sul mix tra tematiche adolescenziali e atmosfere horror,
citazionismo metalinguistico e (auto)ironia postmoderna, in ogni caso, è
realizzato da un giovane sceneggiatore-produttore di nome Joss Whedon.
Buffy
Qualche anno prima, infatti,
Whedon sceneggia un trascurabilissimo film intitolato “Buffy - L’ammazzavampiri”
(“Buffy the Vampire Slayer”, 1992), diretto da Fran Rubel Kuzui e interpretato
da Kristy Swanson, Donald Sutherland e Rutger Hauer. Nonostante il fallimento
totale del progetto, però, lo sceneggiatore intuisce le potenzialità di storia
e personaggi e ne rileva i diritti di sfruttamento. Inizia,
così, a lavorare sull’idea di una serie televisiva basata su presupposti simili
a quelli del film ma che, al tempo stesso, sia in grado di utilizzare gli
elementi che hanno appena decretato il successo delle saghe di “Scream” e “So
cosa hai fatto”.
La Warner approva il
progetto di Whedon e, nel 1997, trova uno spazio nel suo palinsesto per gli
episodi della stagione inaugurale del nuovo telefilm: “Buffy”. Rispetto al
film di cinque anni prima, le novità immediatamente percepibili riguardano il
cast principale: per il ruolo della sedicenne protagonista Buffy Summers,
infatti, è scelta la biondina Sarah Michelle Gellar; al suo fianco, sono
inseriti altri giovani attori tra i più interessanti della loro generazione, da
Nicholas Brendon (Xander Harris) ad Alyson Hannigan (Willow Rosenberg), da
Charisma Carpenter (Cordelia Chase) a David Boreanaz (il vampiro buono Angel),
capeggiati da due più maturi come Kristine Sutherland (Joyce, la mamma di
Buffy) e l’inglese Anthony Stewart Head nel ruolo del bibliotecario Rupert
Giles. Le azzeccatissime scelte di casting sono uno tra i principali punti di
forza dello show, grazie alla «chimica» perfetta che si crea tra i vari
interpreti e, conseguentemente, tra i diversi personaggi. Con questo ruolo,
Sarah Michelle Gellar diventa un’autentica star e una delle giovani attrici più
richieste a Hollywood.
L’antefatto della nuova
serie riprende le vicende viste nel film, con l’irrequieta Buffy Summers
costretta a lasciare Los Angeles, assieme alla mamma divorziata, dopo essere
stata cacciata dalla scuola che frequentava, per aver dato fuoco alla palestra.
In realtà, la ragazza è riuscita faticosamente a sventare una strage da parte
di un gruppo di vampiri, dopo aver scoperto di essere la «Slayer», la
Cacciatrice: cioè colei che è predestinata – e ne esiste soltanto una per ogni
generazione – a combattere i vampiri e le forze delle tenebre e a difendere il
genere umano. Buffy, dunque, lascia Los Angeles anche per voltare le spalle a
un destino che, probabilmente, percepisce come troppo gravoso per la sua
giovane età. È ovvio, però, che i suoi problemi siano soltanto all’inizio, dato
che già nel pilot del telefilm – «Benvenuti al college» («Welcome to the
Hellmouth») – scopre che la tranquilla cittadina di provincia dove si è appena
stabilita con la mamma, la ridente Sunnydale, è soprannominata «Hellmouth»,
«Bocca dell’Inferno», perché edificata in un punto di convergenze mistiche che
la rendono particolarmente appetibile per vampiri e demoni assortiti, i quali
proprio da lì potrebbero partire alla conquista della Terra. Più che mai,
dunque, Buffy deve rinunciare alla spensieratezza tipica della sua età e
prendere sulle proprie spalle un fardello che non ha mai chiesto di portare. A
guidarla nella sua crociata c’è il bibliotecario Rupert Giles che, in realtà,
appartiene a una millenaria società occulta, gli Osservatori, il cui compito è
di fare da maestri alle cacciatrici. Gli amici del cuore di Buffy, la rossa
timida e «secchiona» Willow e l’ingenuo e generoso Xander, scoprono ben presto
l’identità della ragazza e l’affiancano spesso nelle sue battaglie notturne.
Dopo pochi episodi, al gruppo s’unisce la ricca e viziata Cordelia e,
soprattutto, il misterioso e affascinante Angel, un vampiro (ha quasi trecento
anni) che – in seguito alla maledizione scatenatagli contro da una zingara – ha
riacquistato la propria anima e, quindi, è dilaniato interiormente dalla
sofferenza per gli orrori che ha provocato nei secoli passati. Tra Angel e
Buffy, tra il vampiro e l’ammazzavampiri, nasce ben presto una problematica
storia d’amore.
Con “Buffy”, Joss Whedon –
che, per il cinema, ha sceneggiato “Toy Story - Il mondo dei giocattoli” (“Toy
Story”, 1995) e “Alien - La clonazione” (“Alien Resurrection”, 1997) – mostra
tutta la sua abilità di scrittore seriale e realizza un telefilm
linguisticamente molto sofisticato, ben oltre l’aspetto esteriore da prodotto
medio televisivo (che, anzi, serve per far avvicinare allo show il più elevato
numero possibile di spettatori). Peculiare del suo lavoro di scrittura e
supervisione per la serie è la capacità di caratterizzare con poche pennellate
personaggi che appaiono sempre credibili anche nelle situazioni più assurde (e
la serie ne è piena), di scrivere dialoghi scoppiettanti e ironici, capaci di alleggerire
la tensione senza provocare mai alcuna caduta di ritmo, soprattutto di far
sviluppare archi narrativi lunghissimi e perfettamente coerenti tra loro anche
a distanza di anni. Solitamente, infatti, ogni stagione di “Buffy” –
attualmente è in corso la sesta, dopo il polemico cambio di network di cui
parleremo più avanti – è caratterizzata da un’unica lunga trama, della quale
diventa motore il «cattivo» di turno: finora, nelle cinque annate già
terminate, la Cacciatrice se l’è vista col Maestro, un pericoloso «signore del
male» che cerca di liberarsi dalla sua prigione sotterranea (primo anno); con
la coppia di vampiri formata da Spike (James Marsters) e Drusilla
(un’inquietante Juliet Landau), affiancati da Angel che torna momentaneamente
al suo lato oscuro (secondo anno); con il sindaco di Sunnydale, che utilizza le
energie arcane insite nella città per preparare la propria ascensione a demone
(terza stagione); con il super-cyborg Adam, assemblato con pezzi di demoni
uccisi dagli uomini di un’organizzazione governativa occulta denominata
«Progetto Iniziativa» (quarta stagione); addirittura, con la perversa dea Glory
(Clare Kramer), pronta ad aprire le porte che separano la Terra dal suo mondo
popolato da terribili divinità di stampo lovecraftiano (quinta annata). Per fermare
Glory, Buffy sacrifica se stessa, uccidendosi pur di impedire l’apertura del
portale extradimensionale, nel centesimo episodio («The Gift») che è anche
l’ultimo trasmesso dalla Warner, prima del passaggio al network Upn, durante l’estate
2001.
Dopo alcuni mesi di roventi
polemiche tra i vertici dei due canali televisivi – i quali si punzecchiano,
per tutta l’estate, sugli organi di stampa americani, definendo il proprio
canale concorrente, rispettivamente, «Without Buffy» (The Wb: «Senza Buffy») e
«Used Parts Network» (Upn: «Network dei pezzi usati»), a ulteriore
testimonianza del successo e della stima che, anche a livello dirigenziale, circonda
la creatura di Joss Whedon – “Buffy” riprende, dunque, la sua programmazione
sulle frequenze del network Paramount, che lo strappa alla concorrenza e
l’affianca al lancio della nuova “Enterprise”: all’inizio della sesta stagione,
in un nuovo ottimo pilot lungo due ore, Buffy torna in vita e si proietta verso
nuove avventure, in un serial potenziato dal cospicuo aumento del budget e che,
per quanto riguarda l’avvio della nuova annata, fa nascere addirittura
lusinghieri paragoni – da parte della critica dotata di minori pregiudizi – con
le serie di qualità prodotte dalla HBO. L’esempio migliore arriva dalla
recensione di Ken Tucker su «Entertainment Weekly» del 27 settembre 2001:
«Prese insieme, le due ore del pilot mostrano come si possa narrare una
leggenda come se fosse la prima volta. Chi avrebbe mai pensato che la modesta
Upn, tanto citata da quando è diventata la nuova casa di “Buffy”, avrebbe
rialzato la testa e si sarebbe proposta allo stesso livello della HBO? Oggi,
infatti, possiede una serie dotata della stessa forza emozionale di “I Soprano”
(sì, con buona pace dei più snob tra voi)». Toni entusiastici sono pure quelli
usati dalla rivista «Spectrum» (n. 27, agosto 2001), secondo cui «nomination
agli Emmy Awards o no, “Buffy” è diventato uno show straordinario e deve essere
considerato tra i migliori serial fantastici di tutti i tempi».
Tra gli altri personaggi
ricorrenti che fanno il loro esordio nel corso delle varie stagioni, vanno
segnalati ancora almeno Oz (Seth Green), un giovane chitarrista che, per
qualche tempo, diventa il ragazzo di Willow e che ha la condanna d’essere
affetto da licantropia (sì, è proprio un lupo mannaro); Faith (Eliza Dushku),
un’altra cacciatrice che, però, si lascia corrompere dal fascino delle tenebre;
Riley Finn (Marc Blucas), il fidanzato di Buffy durante la quarta serie; Anya
Emerson (Emma Caulfield), un’ex demonessa che, tornata umana dopo aver perso i
propri poteri, diventa la nuova innamoratissima compagna di Xander; Tara (Amber
Benson), la ragazza con la quale Willow inizia una relazione sentimentale
omosessuale; Dawn (Michelle Trachtenberg), la misteriosa sorella minore di
Buffy, apparsa, senza alcun preavviso, all’inizio della quinta stagione.
E proprio i modi
dell’ingresso in scena del personaggio di Dawn sono indicativi
dell’intelligenza con cui Whedon gioca con tutti gli stereotipi tipici del
racconto seriale televisivo, rovesciandoli a suo favore: nella sequenza finale
del primo episodio del quinto anno, «Il morso del vampiro» («Buffy Vs.
Dracula»), infatti, la protagonista è inquadrata assieme alla sorella e si
comporta come se l’avesse avuta sempre accanto, nonostante fino a quel momento
gli spettatori l’avessero conosciuta come figlia unica. Sciatteria degli
autori? Come mai, in quattro anni, non è mai fatto nemmeno un accenno a questa
sorellina e adesso tutti si comportano come se fosse sempre esistita? Si
potrebbe pensare che, d’altra parte, simili situazioni accadono con molta
frequenza, all’interno delle fiction seriali, dove i personaggi appaiono e
scompaiono come se entrassero e uscissero da porte girevoli sempre in
movimento. La realtà, però, è ben diversa, come emerge dagli episodi
successivi: Dawn, infatti, non è altro che «energia pura» incarnata e capace di
rimodellare la percezione stessa del reale e quella di coloro che la
circondano; una misteriosa «chiave» che può mettere in contatto la Terra con
altri piani dimensionali. Viene incanalata in un involucro umano e inviata alla
Cacciatrice dagli ultimi adepti di una setta antichissima, affinché possa
essere adeguatamente protetta dalle mire della folle dea Glory. Dunque, ancora
una volta, la spiegazione c’è, assolutamente incredibile ma perfettamente
coerente con quelle che sono le premesse della serie e col patto di
«sospensione dell’incredulità» che l’autore stringe con il suo pubblico. E
ancora una volta, in “Buffy”, il fantastico riesce ad agire in profondità sulle
strutture stesse del reale e del quotidiano, proponendosi come chiave
interpretativa per una sua rilettura.
La copertina del mio libro del 2002 |
Sunnydale, dunque, sembra
la classica cittadina californiana di provincia, il tipico sfondo di tante
serie americane impostate sul dominio dei buoni sentimenti: i problemi delle
metropoli sono lontani; le famiglie – tutte rigorosamente bianche – vivono
nelle loro villette unifamiliari con steccato e cagnolino, al liceo si prepara
l’annuale ballo di fine corso, il Bronze è l’unico locale decente dove ci
s’incontra la sera con gli amici, per bere qualcosa e ascoltare buona musica. Questa
realtà, però, ne nasconde un’altra più oscura – proprio come in “I segreti di
Twin Peaks” – che rappresenta il suo doppio quasi inevitabile; quando cala la notte,
infatti, a Sunnydale arriva il momento dell’orrore: i vampiri emergono dalle
proprie tombe – il cimitero cittadino è il vero ambiente ricorrente della
serie, assieme al liceo e al Bronze – per attaccare i vivi e attentare alle
esistenze della Cacciatrice e dei suoi amici. Nella seconda parte dell’episodio
italiano «Il sentiero degli amanti» (cioè quello che, in originale, si intitola
«The Wish», dato che per un discreto periodo la programmazione italiana della
serie, su Italia 1, viene fatta accorpando due episodi alla volta sotto l’unico
titolo del primo segmento e, per questo motivo, le puntate che vanno in onda
come seconde non hanno un loro titolo italiano), il duplice volto di Sunnydale
è reso esplicito attraverso una storia che si svolge in una cupa realtà
alternativa, nella quale Buffy non è mai giunta in città e il Maestro e i suoi
adepti hanno il controllo assoluto: con un tocco gustosissimo, persino Willow e
Xander, i due personaggi più positivi dello show, diventano feroci vampiri
punkeggianti.
Quella della Willow
vampira – personaggio che ritorna anche in un altro episodio, mostrando la
bravura di Alyson Hannigan – è soltanto una tra le tante variazioni proposte da
Whedon nel corso della serie. Non mancano, infatti, le puntate nelle quali lo
sceneggiatore-produttore si diverte a sperimentare sulla struttura tradizionale
del suo telefilm: un ottimo esempio è quello di «L’urlo che uccide» («Hush»),
in cui alcune creature magiche, simili al Nosferatu del film di Murnau, rubano
la voce all’intera cittadina, creando lo spunto per l’unico episodio
interamente muto nella storia della (parlatissima) televisione americana;
oppure, «Superstar» (id.), che vede l’inetto liceale Jonathan trasformarsi, per
incanto, nell’ammirato supereroe di Sunnydale; o ancora, «La casa stregata»
(«Where the Wild Things Are»), discusso segmento col quale Whedon – lasciando
Buffy e Riley a letto a fare l’amore, per l’intero episodio – risponde
ironicamente alle pressioni del network, piovutegli addosso dopo la strage nel
liceo di Columbine (la serie, infatti, propone spesso situazioni di violenza
estrema, inserite in contesti scolastici). Il culmine della sperimentazione,
però, arriva con la sesta stagione, nel corso della quale l’autore apre a una
puntata tutta realizzata come un musical classico: piena di numeri di danza e
con i dialoghi interamente cantati. Ottime variazioni – narrativamente
fondamentali nell’economia della serie, però – sono anche quelle degli episodi
retrospettivi nei quali vengono rivelate le origini dei personaggi di Angel e
Spike, prima delle loro vampirizzazioni: il più bello è il doppio «L’inizio
della storia» («Becoming»), a cavallo tra seconda e terza stagione, che inizia
nell’Irlanda del 1753 e si conclude nella Los Angeles degli anni ’90, al tempo
delle vicende narrate dal film del 1992.
Buffy, in realtà, è una
serie che si regge su poche idee, nemmeno troppo originali, poiché già negli
anni ’50 i drive-in si riempiono di giovani coppie urlanti, di fronte alle
sequenze di irresistibili pellicole horror-giovanilistiche come, per esempio, “I
Was a Teenage Werewolf” (1957) di Gene Fowler Jr. e “La strage di Frankenstein”
(“I Was a Teenage Frankenstein”, 1957) di Herbert L. Strock. Tali idee sono sviluppate,
però, in modo egregio. «I vampiri e i cacciatori di vampiri immaginati
da Joss Whedon […] hanno la loro genesi in un’infanzia e un’adolescenza
solitaria, trascorsa con il naso affondato nei fumetti di supereroi, nelle
storie dell’orrore, nei racconti fantastici. Un bagaglio di
riferimenti che con Bram Stoker e i vampiri classici hanno una parentela un po’
annacquata, ma che mantengono la stessa forza evocativa: il potere del sangue,
la vita oltre la morte, le doti sovrumane di pochi, isolati, affascinanti e
misteriosi mostri» (Luisella Angiari, Dai cinevampiri ai televampiri, «Duel»,
n. 87, marzo-aprile 2001, p. 68).
Il riferimento più diretto,
da questo punto di vista, appare proprio quello ai fumetti di supereroi, genere
fantastico-avventuroso da sempre molto in voga negli Stati Uniti. In particolare,
la serie di Whedon è ricalcata sugli stessi schemi narrativi e formali di
quella fumettistica dell’Uomo Ragno, il popolare personaggio creato da Stan Lee
e Steve Ditko per la Marvel Comics nel 1962: la cosa, però, è dichiarata, dato
che in più d’un episodio personaggi «normali», come Xander, si rivolgono a
Buffy dicendole: «Mi sembri proprio l’Uomo Ragno». Lo Spiderman dei fumetti è
l’emblema di quelli che l’ideatore del Marvel Universe, Stan Lee, definisce
«supereroi con superproblemi», con uno slogan che indica la volontà di proporre
ruoli meno monolitici e unidimensionali rispetto al classico Superman. La
grande novità della Marvel degli anni ’60, infatti, è quella di dare ai propri
personaggi poteri che sono vissuti come una condanna più che come un dono e
che, inevitabilmente, condizionano la quotidianità dei loro alter ego. Lo
stesso Spiderman, per esempio, è soltanto un adolescente come tanti, Peter
Parker, appassionato di scienze e fotografo per diletto: da quando viene morso
da un ragno radioattivo acquisisce la forza e l’agilità dell’insetto e diventa
un essere più che umano che, però, deve rinunciare a un pizzico di
spensieratezza e a tante cose che per ogni adolescente possono sembrare
normali, perché – secondo un altro celebre slogan ideato da Lee per il suo
personaggio – «da grandi poteri derivano grandi responsabilità». Le avventure
dell’Uomo Ragno sono ambientate in una New York quotidiana e descritta in modo
molto realistico, sono arricchite da figure di contorno sempre ben delineate,
sono caratterizzate da un perfetto mix di tragedia e ironia. Inoltre,
propongono una continuity interna alla
serie, nel senso che i vari personaggi crescono, mutano, imparano dalle
precedenti esperienze: e questa è un’altra differenza enorme rispetto ai
classici supereroi della «Golden Age of Comics» (gli anni ’30).
Ebbene, in Buffy, questi
elementi sono riproposti fedelmente. Dal punto di vista strutturale, anzitutto,
con una continuità nelle trame e un’accentuazione esasperata dei meccanismi
della serialità. Da quello dei contenuti e dell’ambientazione, poi, con lo
stridente contrasto tra l’ambiente liceale diurno e le tensioni di quello
notturno, quando Sunnydale diventa un campo di battaglia; la coesistenza tra
superpoteri e problemi dovuti alla crescita; la solitudine dell’eroe (eroina)
che deve far fronte alle proprie responsabilità; la sua fragilità dovuta alla
difficoltà di accettare la propria particolarissima condizione; un gruppo di
amici che spesso non capiscono fino in fondo cosa voglia dire essere predestinati;
il complicato rapporto con l’altro sesso e quello tormentato con il mondo degli
adulti. Anche la scelta di trasformare l’eroe in eroina si spiega meglio
attraverso un riferimento fumettistico, dato che una tra le tendenze dominanti
nell’industria statunitense anni ’90 dei comic books è – come visto nel
precedente capitolo – quella degli albi imperniati sulle cosiddette «bad
girls». Il cerchio si chiude, quindi, allorquando Buffy Summers diventa un
personaggio a fumetti, in una serie sceneggiata dallo stesso Joss Whedon che,
così, può soddisfare una sua antica passione. Anche il carattere disegnato,
come quello televisivo, mantiene gli stessi tratti di ragazza pienamente calata
nella realtà sociale degli Stati Uniti che s’affacciano al 2000.
Merita qualche parola a
parte, per concludere, il controverso rapporto sentimentale tra Buffy e Angel,
tra la vita-apportatrice-di-morte e la morte-in-vita, soprattutto in
riferimento agli eventi di due particolari episodi della seconda stagione:
«Sorpresa» (Surprise») e «Un attimo di felicità» («Innocence», scritto e
diretto proprio da Whedon), caratterizzati dal nuovo ritorno di Angel al suo
lato oscuro, quello del terribile vampiro Angelus, in seguito al riattivarsi
della maledizione zingara che gli preannunciava la perdita dell’anima appena
avesse assaporato un solo attimo di felicità. E il momento arriva quando il
non-morto fa l’amore con la Cacciatrice, nel preciso momento del raggiungimento
dell’orgasmo sessuale. L’evento lascia trasparire, però, un’ideologia alquanto
reazionaria, quasi a suggerire che l’amore tra adolescenti può andar bene
solamente finché non si trasforma in sesso. D’altra parte, la stessa Willow, a
sua volta desiderosa della «prima volta», è fidanzata con un focoso lupo
mannaro: anche qui, quasi un monito rivolto agli adolescenti, a far attenzione
alle brutte sorprese in campo sessuale.
Il personaggio di Angel,
comunque, diventa amatissimo dal pubblico dello show e, con il finire della
seconda stagione, raggiunge la stessa Buffy in cima alle preferenze. È
per questo motivo che, dalla fine dell’annata successiva, Whedon e il
co-sceneggiatore David Greenwalt creano uno spin-off tutto dedicato al
personaggio interpretato da David Boreanaz (“Angel”, 1999; ancora inedito in
Italia). L’ambientazione è differente, dato che il vampiro buono (nel frattempo
ha riacquistato la propria anima) lascia Sunnydale per Los Angeles, dove apre
un’anomala agenzia investigativa per aiutare tutti quelli che normalmente sono
trascurati dalle forze dell’ordine: diventa così una sorta di campione dei
derelitti e dei perseguitati, in avventure dal sapore chandleriano e,
naturalmente, vissute sempre «ai confini della realtà». Lo aiutano la bella
Cordelia, che a sua volta lascia la serie principale e si scopre dotata della
capacità di avere visioni premonitrici; Wesley Wyndam-Pryce (Alexis Denisoff),
un ex osservatore che, per pochissimo tempo, aveva sostituito Giles accanto a
Buffy; il cupo cacciatore di vampiri Charles Gunn (J. August Richards). Questa,
però, è davvero un’altra storia.
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