venerdì 26 maggio 2017

WELCOME, AGAIN, TO TWIN PEAKS!


Di Diego Del Pozzo

In occasione della messa in onda italiana ufficiale dell'attesissima nuova stagione-evento di Twin Peaks, stasera alle ore 21.15 su Sky Atlantic HD (canale 110 del pacchetto Sky), ripubblico qui il paragrafo dedicato alla serie originale del 1990-1991 nel mio libro (oggi fuori catalogo) Ai confini della realtà. Cinquant'anni di telefilm americani (Lindau, 2002). Buona lettura! (d.d.p.)
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L’arrivo degli anni ‘90 segna una piccola rivoluzione per quel che riguarda i serial di genere familiare, non necessariamente comici. La decade, infatti, è aperta da una «gemma oscura» che porta sotto l’obiettivo «l’altra faccia» della famiglia a stelle e strisce, il suo lato oscuro e terribile. Per effettuare questo tuffo nell’Incubo Americano, basta spostarsi da Columbus, Ohio, dove vive la famiglia Keaton, fino a una piccola e tranquilla cittadina (immaginaria) quasi al confine col Canada: Twin Peaks. Qui il regista David Lynch e il produttore Mark Frost ambientano un progetto televisivo per molti versi rivoluzionario rispetto alla tradizione della serialità catodica statunitense: «I segreti di Twin Peaks» («Twin Peaks»), in onda sulla ABC per due stagioni dall’aprile 1990 al giugno 1991 e considerato all’epoca come il primo grande esempio di televisione “d’autore”.
Il cartello di benvenuto nella placida cittadina recita un beneaugurante «Welcome to Twin Peaks», lungo una strada statale alberata che costeggia pescosi laghi di montagna. Siamo a poco più di cinque miglia dal confine canadese e la piccola Twin Peaks sembra un autentico paradiso, orgoglioso delle sue antiche tradizioni e di una prosperità economica nata e sviluppatasi sul commercio del legname; una realtà, insomma, fatta di concretezza del lavoro materiale quotidiano e di legami familiari decisamente solidi, di torte di mele e feste scolastiche al chiaro di luna. Sembra proprio di trovarsi lontano dalle nevrosi degli anni ‘90, catapultati come d’incanto – con lo stesso effetto straniante subìto dal Marty McFly protagonista di «Ritorno al futuro» («Back to the Future», 1985, di Robert Zemeckis) – in un classico contesto suburbano degli anni ‘50. Ma tutto ciò non è altro che una mera facciata.
Con «I segreti di Twin Peaks», infatti, David Lynch smaschera definitivamente – perché, si badi bene, lo fa in televisione – le ipocrisie del «Sogno americano», che ha prosperato per decenni proprio sull’immaginario derivante dalle sit-com televisive come «Lucy ed io». Lo fa manipolando e mixando sapientemente gli stilemi di generi che rimandano alla «Golden Age» della tv statunitense, come la soap e il poliziesco, rovesciando del tutto i concetti cardine delle sit-com tradizionali (il riso in pianto, la gioia in dolore…) e rifacendosi per diversi altri elementi a classici del grande schermo come «Passaggio a Nord-Ovest» («Northwest Passage», 1940, di King Vidor) e, soprattutto, «I peccatori di Peyton» («Peyton Place», 1957, di Mark Robson), richiamato fin dal titolo. «Un pesante marchio di Lynch è la predilezione per gli anni ‘50, a cui tutti i suoi film in qualche modo rimandano. Non a caso, è il periodo in cui il regista stesso usciva dall’infanzia. […] In “I segreti di Twin Peaks” la galleria dei personaggi comprende vari modelli – dal ribelle solitario a quelli riuniti in gang, dalla capricciosa figlia di papà agli amanti clandestini, dagli avidi uomini d’affari ai poliziotti integerrimi – fortemente radicati nell’immaginario collettivo degli anni ‘50. Il modo in cui Lynch rievoca questo periodo merita una riflessione: dando sfogo agli impulsi sotterranei, repressi, ipocritamente negati dell’America di allora, permette anche ai suoi valori autentici – il suo spirito d’avventura, il suo ingenuo pragmatismo, il non arrendersi – di risultare senza apparenza di inganno» (Alessandro Camon, «David Lynch e I segreti di Twin Peaks»; supplemento a «Ciak», n. 1, 1991, pag. 61). Ma qui, comunque, ciò che l’autore vuole mostrare sui teleschermi è soprattutto il lato oscuro della famiglia yankee, quello meno confessabile, con tutte le perversioni e violenze (fisiche e psicologiche) tenute sempre serrate sotto chiave nei prodotti seriali del passato. E dunque, a innervare il tessuto sociale di Twin Peaks – come si scopre con l’evolversi degli episodi – ci sono forti conflitti generazionali, persino incestuosi all’interno delle varie famiglie; ammirate reginette di bellezza del liceo locale che, in realtà, si rivelano ninfomani e cocainomani; storie d’amore infarcite di tradimenti, anche multipli; rispettabili uomini d’affari che nascondono trame inconfessabili; psicoanalisti drogati e insospettabili avvocati schizofrenici, con i nervi distrutti e persino posseduti da entità maligne.
La chiave di ingresso per entrare in questo mondo oscuro e dalla doppia morale è rappresentata dal ritrovamento del cadavere di Laura Palmer (Sheryl Lee), la bionda e apparentemente irreprensibile reginetta del liceo cittadino, il cui corpo nudo emerge all’improvviso dalle acque del lago. L’avvenimento luttuoso dà il via a una serie di vicende destinate a sgretolare, letteralmente, la «placida» Twin Peaks, passata al setaccio nel corso delle sue indagini – con fare quasi da entomologo – dal giovane agente FBI Dale Cooper (Kyle MacLachlan).
A uno sguardo superficiale, «I segreti di Twin Peaks» può apparire, dunque, come un serial poliziesco, anche se piuttosto anomalo. In realtà, ciò che interessa davvero a Lynch non è la risoluzione del mistero in cui ha calato l’attonito spettatore, bensì «l’annegamento» del suo pubblico in un clima, un’atmosfera di malsana inquietudine, da cui sembra non esserci via di scampo. «“Chi ha ucciso Laura Palmer?” – scrive ancora Alessandro Camon nel suo saggio (Ivi, pagg. 51-52) – non è tanto il quiz da risolvere, quanto la formula iniziatica che permette l’accesso a un mondo di mistero. Il “piacere”, il motivo di interesse, si sposta dall’attesa della soluzione alla moltiplicazione delle domande, dall’estinguersi dei segreti al loro allargarsi verso sempre più numerosi aspetti della vita dei personaggi. Saperne di più, insomma, significa rendersi conto che anche quanto appare normale cela il mistero». E il riferimento alle sit-com degli anni ‘50 – con la loro «realtà normale», edulcorata e semplificata – diventa, a questo punto, quasi obbligatorio e fortemente eversivo.
D’altra parte, il rovesciamento perseguito da Lynch diventa ancora più evidente se si pensa all’uso ossessivo che egli fa di alcuni elementi tipici del suo modo di narrare, come, per esempio, le lacrime: come, infatti, nelle sit-com classiche il sorriso – a volte anche un po’ forzato – è centrale e onnipresente; così, all’opposto, in «I segreti di Twin Peaks» si piange tanto e l’identità stessa dei vari personaggi è definita proprio attraverso il dolore. «Raramente, o forse mai, si sono viste versare tante lacrime (cinque scene con uomini che piangono nella prima mezz’ora sono una specie di record): una situazione melodrammatica – sottolinea ancora Camon (Ivi, pag. 53) – tipica della soap opera viene proposta qui con tanta intensità da risultare quasi insostenibile. Ancora una volta, siamo al limite di quella che potremmo chiamare “pornografia del dolore”». E ancora, mentre la morte è addirittura bandita dalle situation comedy (ed è mostrata rigorosamente fuori campo visivo nelle soap), qui funge da punto di partenza e «motore» stesso dell’intera vicenda (Laura Palmer è già stata uccisa, all’inizio), ne è l’antefatto, il presupposto che muove tutti i personaggi.
Anche i conflitti generazionali, sempre ben occultati nelle sit-com degli anni ‘50 (in modo persino stridente, rispetto a un contesto sociale attraversato dai fermenti – ben incarnati pure dalla prima ondata del rock ’n roll – destinati a concretizzarsi nella seconda metà degli anni ‘60), sono morbosamente portati in scena da Lynch, fino all’eccesso dell’incesto, come ben esemplificano perlomeno un paio di sequenze: nella prima, Leland Palmer (Ray Wise) si getta sulla bara della figlia Laura mentre sta per essere calata sottoterra, facendo spezzare il meccanismo della carrucola e costringendo la cassa a sussultare su e giù sotto il proprio peso, come durante un atto sessuale; nel secondo caso, poi, la sensuale Audrey Horne (Sherilyn Fenn) decide di andare a lavorare nel bordello di cui è cliente anche suo padre, il miliardario Benjamin (Richard Beymer), che nella seconda serie non potrà fare a meno d’incontrarla.
E anche dal punto di vista strutturale, «I segreti di Twin Peaks» propone non poche innovazioni rispetto al passato. La dimensione temporale della narrazione, innanzitutto, è essa stessa allucinogena e allucinata, poiché l’eterno presente della serialità catodica è costantemente sabotato con reiterati cortocircuiti tra passato e futuro che vi fanno irruzione, come flash quasi subliminali, mutandolo di segno (e di senso). La musica «eccentrica» di Angelo Badalamenti «agisce» spesso per contrasto rispetto alle immagini (si pensi all’importante sequenza dell’episodio pilota, ambientata nel Roadhouse, con Julee Cruise che canta un brano romantico e struggente mentre, sullo sfondo, è in atto una violenta scazzottata). L’ipnotica lentezza con cui Lynch gira, poi, contravviene qualunque regola del prime time televisivo (la fascia oraria in cui va in onda «Twin Peaks»), tutto improntato solitamente a ritmi concitati e serrati, per paura di annoiare e, quindi, far perdere potenziali clienti agli inserzionisti dei vari programmi. E proprio lo stacco per la pubblicità è spesso previsto – altra piccola, grande «rivoluzione» – su immagini programmaticamente prive di tensione drammatica e anzi fini a se stesse (il contrario, insomma, del cliffhanger).
Altro elemento peculiare di «I segreti di Twin Peaks» – e che si rivelerà seminale, per i serial televisivi degli anni successivi – è, poi, costituito dall’irruzione di «schegge» impazzite di fantastico nel tessuto realistico della quotidianità (basti pensare, tra i tanti possibili esempi, ai soli personaggi di Killer Bob e dell’Uomo-da-un-altro-spazio). Così, in un suo bel libro-intervista, Chris Rodley fa notare allo stesso David Lynch come «[…] da “Twin Peaks” in poi si è verificato un evidente incremento di programmi concentrati sul paranormale, gli UFO e altre stranezze: “Wild Palms”, “American Gothic”, “X-Files”. A quanto pare “Twin Peaks” ha inaugurato un filone. […] Determinati argomenti o determinate storie non figuravano regolarmente nella programmazione televisiva, né erano popolari come lo sono oggi. Col senno di poi, potremmo affermare che “Twin Peaks” ha contribuito a creare una certa bramosia per questo genere di materiale» (Chris Rodley, «Lynch secondo Lynch», Baldini & Castoldi, Milano 1998, pag. 256). In particolare, come visto nelle pagine dedicate a «X-Files», sembra abbastanza stretto il legame con quest’ultima serie, come dimostrano le atmosfere e l’ambientazione dell’episodio pilota del telefilm ideato da Chris Carter (che, tra l’altro, vede uno dei due protagonisti, David Duchovny, impegnato in una comparsata «en travesti» proprio all’interno di «I segreti di Twin Peaks»). Insomma, pescando nel vastissimo territorio dell’immaginario compreso tra Stephen King e «Peyton Place», David Lynch porta, per la prima volta all’interno dei tinelli domestici, «un incrocio multidirezionale tra testi diversissimi e generi disparati, usando come unico collante il fanta-horror. E usandolo, si badi bene, con una durezza di linguaggio così efficace che, pur non frequentando per ovvi motivi lo “splatter” (non ci si dimentichi mai della specifica natura del pubblico televisivo), più di un passaggio risulta particolarmente disturbante» (Danilo Arona, «Nuova guida al Fantacinema», PuntoZero, Bologna 1997, pag. 56).

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