mercoledì 14 novembre 2018

STAN LEE, CREATORE DI UNIVERSI

Di Diego Del Pozzo

Dopo averne scritto ieri a caldo per il quotidiano Il Mattino, ritorno ancora una volta sulla morte di Stan Lee, uno tra i talenti creativi più influenti dell’intero Novecento, il creatore (assieme a Jack Kirby) dell’universo narrativo Marvel, gigantesca epica contemporanea senza eguali nella storia delle narrazioni seriali, in continua evoluzione da decenni al ritmo di centinaia di nuove pagine ogni mese e, da qualche anno, anche crossmediale e in quanto tale presente, in pratica, ovunque. Ritorno a parlarne perché ci tengo a spiegare bene alcune cose anche personali, giusto per capirci, nonostante in questi giorni io abbia già letto tanti testi molto simili a questo. Ma con quella Marvel lì la questione è anche generazionale…
Senza girarci troppo intorno, dunque: Stan Lee è stato il singolo essere umano che ha esercitato la maggiore influenza sulla mia formazione culturale (e sottolineo culturale), in un momento di crescita decisivo come quello della tarda infanzia e adolescenza. Io, infatti, sono uno di coloro che, nella seconda metà degli anni Settanta e inizio Ottanta, sono cresciuti leggendo i fumetti dei supereroi della Marvel delle origini, cioè le meravigliose storie che, dal numero d’esordio di Fantastic Four del 1961 in poi, costituiscono le fondamenta narrative e ideologiche di quello straordinario universo di fantasia. Sto parlando, naturalmente, delle edizioni italiane tradotte dalla casa editrice Corno di Luciano Secchi (il mitico Max Bunker), sulle quali buona parte della mia generazione ha formato il proprio gusto e, in definitiva, la propria visione del mondo.
Immaginate, infatti, lo shock di un ragazzino dell’epoca che, passando dall’ingenuo divertimento dei fumetti Disney a quelli Marvel, all’improvviso si trova di fronte a una famiglia disfunzionale composta da due fidanzati (in seguito marito e moglie) dotati del potere di allungare e deformare il proprio corpo (lui) e di rendersi invisibile e controllare potenti campi di forza (lei), con l’aggiunta del fratello minore della ragazza, capace di trasformarsi in una torcia umana, e del miglior amico di lui, mutato in un orrendo mostro di pietra dalla forza bruta ma dall’animo nobile come pochi altri. Tutti e quattro questi strani eroi – resi vivi e realistici ma anche epici dai testi di Stan Lee e dai disegni di Jack Kirby – acquisiscono i loro poteri in seguito a un incidente spaziale e, a differenza dei vari Superman e Batman della Distinta Concorrenza (la DC Comics), vivono tali poteri più come una maledizione che come un dono, non esitando nemmeno per un secondo, in ogni caso, a metterli al servizio del bene.
E immaginate quello stesso ragazzino confrontarsi per la prima volta con la storia di un timido liceale, intelligentissimo ma insicuro e introverso, deriso dai compagni più alla moda e imbranato con le ragazze (soprattutto con quelle che gli piacciono). Ecco, a un certo punto quello stesso liceale viene morso da un ragno radioattivo e acquisisce forza e agilità sovrumane, integrandole con lancia-ragnatele costruiti da lui grazie alle sue conoscenze scientifiche, in modo da poter sparare una tela di ragno sintetica creata artigianalmente nella sua cameretta-laboratorio. Però, come sarebbe accaduto a qualsiasi adolescente immaturo nel mondo reale (perché – attenzione! – sia le storie dei Fantastici Quattro che dell’Uomo Ragno si svolgono a New York, non in fantomatiche Metropolis o Gotham City), il primo impulso del neo-superessere è di utilizzare i propri poteri per divertirsi e racimolare qualche dollaro. Ed è qui che la geniale mente creativa di Stan Lee, assieme a quella di un altro gigante della nona arte come il disegnatore Steve Ditko, inserisce lo scarto decisivo che rende Spiderman e i supereroi Marvel speciali e unici: un rapinatore, che il giovane superessere non ha catturato per puro menefreghismo, pochi giorni dopo gli uccide l’adorato zio e padre putativo e lo cambia per sempre, insegnandogli dolorosamente sulla propria pelle che “da un grande potere derivano grandi responsabilità”. Sì, da un grande potere derivano grandi responsabilità. Chi detiene il potere, dunque, dovrebbe ricordarsi di utilizzarlo sempre responsabilmente, senza lasciarsene sedurre, ma mettendolo al servizio della collettività e, soprattutto, dei deboli e indifesi. Che cosa c’è, allora come soprattutto oggi, di più politico di questo semplice e fortissimo monito?
E che cosa c’è di più politico dell’invito ad andare oltre i propri limiti e le proprie debolezze, ma anche a guardare gli altri senza pregiudizi e senza lasciarsi ingannare dall’aspetto o dal colore della pelle o da ciò in cui credono? Così, in quei fumetti Marvel degli anni Sessanta e nelle migliaia di altri che seguiranno (e che io continuo a leggere ancora oggi), viene spiegato ai lettori che è possibile essere eroi anche se si è un adolescente di scarsissimo successo sociale (Peter Parker / Spiderman), o un orribile gigante di pietra marrone guardato da tutti con paura (Ben Grimm / La Cosa dei Fantastici Quattro), uno scienziato trasformato in rabbioso mostro verde (Bruce Banner / Hulk), un avvocato non vedente che sopperisce in parte alla sua cecità con gli altri sensi acuiti in modo superumano ma resta comunque incapace di vedere (Matt Murdock / Daredevil), un inventore alcolizzato che per restare in vita deve contare su supporti tecnologici (Tony Stark / Iron Man), un soldato strappato alla morte e riportato in vita in un mondo che da decenni non è più il suo (Steve Rogers / Capitan America), un motociclista che vende l’anima al diavolo per salvare chi gli è caro (Johnny Blaze / Ghost Rider), un chirurgo di fama che non può più operare a causa di un incidente alle mani ma dalla scienza passa alla magia (Stephen Strange / Dottor Strange). Per non parlare del gruppo-simbolo della lotta contro qualsiasi forma di razzismo e intolleranza, cioè i mutanti X-Men, nati con un cromosoma che li differenzia dai normali esseri umani, dona loro poteri pazzeschi ma li fa temere e odiare (proprio perché “diversi”) da quella stessa umanità che loro hanno, in ogni caso, giurato di proteggere! E, si badi, a guidare gli X-Men è un telepate paraplegico vicino alla mezza età, quanto di più lontano possa esserci dall’iconografia-tipo del supereroe.
La visione etico-politica del mondo e delle relazioni tra gli esseri umani che emerge dai fumetti Marvel, però, è soltanto uno tra gli elementi di enorme fascino che quelle opere hanno sempre esercitato su di me. Col senno di poi, infatti, ho capito che proprio a Stan Lee e agli altri grandi autori dell’epoca d’oro marvelliana devo il mio amore per la popular culture, per le narrazioni seriali complesse capaci di articolarsi in modo coerente attraverso gli anni (i decenni, nel caso della Marvel), per la contaminazione tra differenti generi narrativi, per la capacità dei prodotti culturali di intercettare le traiettorie di senso e gli immaginari delle società che li hanno prodotti: tutti amori che, in età adulta, si sono trasformati in oggetti di studio e poi in snodi-chiave della mia vita professionale.
L’importanza di Stan Lee e della sua opera nel panorama della cultura novecentesca, però, non va ovviamente ridotta al mero dato personale, perché mi pare evidente come ciò che è valso per me sia valso per almeno due-tre generazioni di donne e uomini formatisi, tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, su quei raffinati prodotti culturali e poi magari, da adulti, diventati studiosi dei media e della cultura popolare anche (o soprattutto?) grazie a quelle decisive influenze. E il fatto che, nel frattempo, i personaggi Marvel e le loro storie siano diventati crossmediali e, quindi, in grado di incontrare i gusti e gli interessi mediali delle ragazze e dei ragazzi del terzo millennio (tra cinema, serie tv, videogames, web…) non fa altro che renderli ancora più “potenti” e capaci, con ogni probabilità, di produrre il medesimo effetto anche sulle generazioni presenti e future di fruitori, magari portandoli anche a riscoprire – chissà… – quei fumetti dai quali tutto ha avuto inizio.

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