Qui sotto riporto il paragrafo che nel 2002 dedicai a Friends nel mio libro Ai confini della realtà. Cinquant'anni di telefilm americani, edito da Lindau. Con la riproposizione di questo testo, celebro anch'io i venticinque anni dalla prima messa in onda della serie che, lo ricordo a chi legge, all'epoca dell'uscita del libro era ancora in programmazione. Buona lettura!
(d.d.p.)
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La definitiva dissoluzione della famiglia: Friends
Di Diego Del Pozzo
(tratto da Ai confini della realtà. Cinquant'anni di telefilm americani, Lindau, 2002 - Pagg. 177-180)
Stati Uniti, anni ’90: la famiglia tradizionale, in pratica, non esiste più. Il tessuto sociale sempre più disgregato ha la sua prima «vittima» proprio nel nucleo che – nella percezione comune – ne rappresenterebbe il punto di partenza e il fine ultimo: quello familiare costituito da padre, madre, figli, magari simpatici animaletti. Record di divorzi, figli sempre prima fuori dalle mura domestiche per studiare oppure (provare a) lavorare, intere vite da single coerenti con la scelta di privilegiare le carriere rispetto agli affetti, unioni omosessuali e «famiglie di fatto» provocano una mutazione completa nella percezione stessa dell’istituzione che, dai tempi dei padri fondatori al secondo dopoguerra, si credeva inattaccabile.
Anticipato, per certi versi, dall’ottima serie di Marshall Herskovitz e Edward Zwick Thirty Something (id., 1987), il programma televisivo che meglio fotografa tale situazione è, naturalmente, una sit-com, genere «casalingo» per eccellenza: si tratta di Friends (id., 1994), creato da David Crane e Marta Kauffman, prodotto dalla Warner Bros. per la NBC, che lo trasmette a partire dal 22 settembre 1994. È fin dall’inizio un grande successo di critica e, soprattutto, di pubblico, a dimostrazione di quanto lo show sia ben inserito nel proprio tempo. Attualmente, addirittura, l’audience media per ogni episodio si aggira sui 25 milioni di spettatori e fa entrare Friends regolarmente nella «Top Five» dei programmi più visti degli Stati Uniti.
Al centro del telefilm c’è, appunto, una famiglia allargata in perfetto stile anni ’90. La compongono i sei giovani protagonisti: la cameriera bionda Rachel Karen Green (interpretata da Jennifer Aniston), il nevrotico paleontologo divorziato Ross Geller (David Schwimmer), la sua maniacale sorella cuoca (nonché coinquilina di Rachel) Monica Velula Geller (Courteney Cox), la svampita e bizzarra cantautrice «new age» Phoebe Buffay (Lisa Kudrow), il simpatico Chandler Bing (Matthew Perry) con problemi nei confronti dell’altro sesso e il suo belloccio coinquilino aspirante attore Joey Tribbiani (Matt LeBlanc). I ragazzi, trentenni, vivono a New York, nella zona del Village, dove si trovano, l’uno di fronte all’altro, l’appartamento di Rachel e Monica e quello di Joey e Chandler, ma anche il ritrovo abituale del gruppo: il Central Perk, il locale dove si esibisce Phoebe e il cui stesso nome è fonte di divertenti giochi di parole.
Friends ridà nuova linfa al genere sit-com e ne detta le regole per l’immediato futuro, nell’unico modo ormai possibile: giocando col pluridecennale passato della commedia televisiva, con i suoi cliché e «tipi» ormai entrati nella quotidianità degli spettatori. «Amori, amicizie, lavoro, rapporti con i genitori, omosessualità vengono presentati a un pubblico smaliziato con la tecnica del sottotesto esplicito, cioè mettendo in evidenza i meccanismi e giocando con i generi frequentati» (Andrea Bordoni, Matteo Marino, Tutto quello che avreste voluto sapere su… Friends, Lindau, Torino 2000, p. 9.). È così che le tematiche classiche della sit-com, quella della famiglia in primis, vengono rielaborate all’insegna della contemporaneità. Quindi, diventa normale lo spostamento di fuoco, evidentissimo fin da un titolo che «testimonia l’affermarsi della tendenza di mettere in primo piano le famiglie clan, gruppi di amici solidali che si sostengono e si consigliano nei momenti di bisogno, dividendo gioie e problemi» (Ivi).
D’altra parte, il processo è chiarissimo: la famiglia-tipo americana degli anni ’50 – i Nelson, più che i Ricardo – inizia a scricchiolare sinistramente vent’anni dopo, quando Happy Days la descrive con la sensibilità settantesca e, per esempio, fa entrare nel salotto buono il classico teppista con tanto di giubbotto di pelle nera (anche se Fonzie è un bullo dal cuore d’oro); nel decennio ’90, infine, il gruppo di amici – che già nella serie di Garry Marshall diventava, spesso, la causa scatenante di piccole frizioni tra i Cunningham – si sostituisce completamente al nucleo familiare tradizionale: la ribelle Joanie – più che suo fratello Richie – è cresciuta, ha abbandonato il giovane marito Chachi e lasciato Milwaukee per New York, dove cerca di arrangiarsi come può, sia in campo lavorativo che in quello affettivo; la famiglia è lontana e, in caso di bisogno, può contare soltanto sui propri fedeli amici. Il carattere di sequel generazionale di Happy Days, d’altra parte, Friends lo dichiara fin dal primo episodio, «Matrimonio mancato» («The One Where Monica Gets a New Roommate»), dove Rachel – poco dopo essere fuggita dall’altare (ancora in abito bianco) ed essersi rifugiata in casa di Monica – s’immalinconisce guardando l’ultima puntata del telefilm di vent’anni prima, cioè proprio quella in cui Joanie e Chachi si sposano. I tempi sono cambiati, dunque: mentre prima si convolava a nozze felici, adesso è il momento di ridefinire amore e amicizia su basi completamente differenti.
La post-modernità di Friends, in ogni caso, si evince anche da altri particolari: dai titoli di ciascun episodio, per esempio, che iniziano sempre con «The One Where…» («Quello dove…») oppure «The One With…» («Quello con…»), proprio per giocare con la situazione-tipo del fan che, quando ricorda un episodio della sua serie preferita, non lo fa mai attraverso il titolo ma dall’avvenimento contenuto in quel segmento (nel caso di Happy Days, un buon esempio potrebbe essere «Quello con la sfida tra Mork e Fonzie»); oppure, dalle tante comparsate di notissimi attori hollywoodiani, spesso nei panni di se stessi (tra i tanti, basti citare Julia Roberts, Robin Williams, Isabella Rossellini). Ma anche la celeberrima sigla I’ll Be There for You cantata dai Rembrandts, oltre che come classica canzone d’amore può essere letta pure come invito rivolto ai telespettatori più o meno fedeli, per chieder loro di sintonizzarsi sullo show anche la settimana successiva. I versi, infatti, tradotti in italiano, recitano: «Sarò là per te, come lo sono stato prima; sarò là per te, perché anche tu sei là per me»; quasi un aforisma teorico sul senso ultimo della serialità.
Insomma, per quanto riguarda i telefilm d’ambientazione e argomento familiare – dal punto di vista linguistico e del reciproco gioco di specchi con la società statunitense – Friends chiude il cerchio e suggerisce nuove direzioni.
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