lunedì 28 giugno 2010

COMICS U.S.A.: ALAN MOORE FA DISCUTERE ANCORA

Di Raffaele De Fazio

L'altro giorno rileggevo un'intervista ad Alan Moore nella quale gli veniva chiesto, tra le altre cose, che ne pensasse del fatto che il più recente successo della DC Comics, Blackest Night, si basasse su una sua storiellina di Lanterna Verde di poche pagine scritta nel 1985. Il buon Alan, dal suo ritiro di Northampton, non è mai stato uno che le manda a dire, soprattutto nel suo rapporto con le due majors del fumetto americano; e, anche stavolta, ha bollato come ridicola la scelta di continuare a mungere dalle sue storie di ormai un quarto di secolo fa.
Ovviamente sulla Rete c'è stata la reazione dei molti fan del maxi evento DC, una saga tra l'altro considerata già tra i migliori crossover di sempre, ottimamente orchestrata da Geoff Johns e soci. Alcuni lettori e anche qualche autore si sono detti offesi dalle parole di Moore e lo hanno accusato di parlare di qualcosa che non aveva nemmeno sfogliato, sottolineando come l'intera storia del fumetto supereroistico americano fosse basata sul prendere spunto da eventi delle storie del passato e da queste ripartire per creare nuove avventure. Qualcun altro ha, invece, proferito blasfemie tipo "Non scrive un fumetto buono da più di dieci anni" e "A stare sempre chiuso a Northampton si è rincoglionito".
Ora, premesso che Alan Moore con il semplice ausilio di due candele e un accendino può maledirvi fino alla settima generazione senza muoversi dal salotto di casa sua, credo che il discorso che il grande autore inglese volesse fare fosse ben più profondo della semplice stroncatura di un fumetto. Nell'intervista, infatti, Moore offre una disamina abbastanza obiettiva dell'attuale mercato dei fumetti di supereroi, che giudica fermo nella sua evoluzione. Dopo aver raggiunto negli anni Ottanta un picco qualitativo fino ad allora semisconosciuto, infatti, si è fossilizzato sulle storie e le tematiche di quelle serie senza riuscire più a trovare nuovi spunti e nuove idee, continuando a rimestare in quelle opere, le sue ma anche quelle degli altri autori non solo britannici di quella splendida stagione del fumetto americano. Proseguendo nel discorso, poi, Moore ricorda di come le storie che leggeva da ragazzo fossero piene di trovate intelligenti e idee brillanti, senza che dei tizi inglesi, depressi a causa della politica thatcheriana, gli dicessero come farlo.
Come al solito, dunque, Alan Moore continua a essere la spina nel fianco dell'industria fumettistica americana. E, pur non appartenendo al baraccone statunitense fatto di mega-convention, tour dei negozi e interviste in pubblico, riesce comunque a essere parte integrante del versante artistico e didattico del medium fumetto cercando, assieme a pochi altri illuminati, di spingere sempre un po' più in là la barriera di cosa è possibile fare con questa forma d'arte che, aldilà di loghi sgargianti, confezioni mirabolanti e cineproduzioni multimilionarie, continua ad aver sempre e soltanto bisogno di un foglio, una matita e alcune buone idee per riuscire a comunicare un'emozione o un frammento di conoscenza.

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