(Il Mattino - 12 giugno 2012)
Just Singin' in the Rain... |
È una lunga storia, che comincia trentacinque anni fa, quando qualcuno ti fece sentire il disco di quello che definivano l’erede di Bob Dylan. Da allora vi siete un po’ persi di vista, ma Bruce Springsteen è rimasto uno di quei compagni di scuola che incontrare è una festa. Uno di quelli che la vita ha mandato su un altro binario, e pazienza. O forse sei tu quello che è finito su un binario diverso, perché a vederlo strizzato in quella maglietta dalle maniche troppo corte - lui, Springsteen - pare sempre uguale a se stesso. Il motivo per cui sei al concerto di Firenze si trova accanto a te, si chiama Arturo e idealmente si colloca a metà strada sulla linea di tempo dei trentacinque che ti separano da quel primo ascolto: è nato diciassette anni fa ed è tuo figlio.
Arturo si trova nel pieno di quell’età in cui per convincerlo a partire con un genitore bisogna ricorrere a trucchi anche un po’ meschini. Allettarlo con due biglietti per il concerto di Springsteen, ammettilo, è stato un trucco. In ogni caso, ha funzionato, perché Springsteen è un classico moderno che piace a entrambi. Ora che siete lì, ti rendi conto di non essere nemmeno tanto originale, visto che sei circondato di coppie formate da padri e figli. Facile immaginare che molte di queste strane coppie hanno una storia simile alla vostra.
Non dovete sembrare tanto eccentrici o patetici, se il vicino, poco prima che il concerto cominci, vi ha offerto una canna. Arturo ti guarda, e nella sua esitazione di un attimo tu ti rendi conto che quell’oggetto non gli è sconosciuto: ciò che normalmente ti avrebbe scandalizzato e che invece, in questa serata extratemporale ti sembra un po’ meno preoccupante di quanto dovrebbe.
Tutta colpa di questo signore sessantatreenne che corre e salta come un grillo canterino, si butta a corpo morto in mezzo alla folla, esce in continuazione da sotto la copertura del palco a prendere la stessa pioggia del suo popolo. E quando alla fine di «Born in the Usa» allarga le braccia e solleva il volto sfidando la pioggia ad occhi chiusi, tu finisci di capire che Springsteen non è soltanto musica. È proprio una questione fisica, legata al suo corpo eroico, che dal vivo si offre sprigionando un portento che è difficile immaginare se non lo si vede coi propri occhi, oltre che sentire con le orecchie. Questo è Springsteen, in questo consiste la miscela di furore e leggerezza che lo rendono leggendario: musica che assume consistenza carnale.
Certo, c’entra anche la pioggia, che è cominciata proprio sulle prime note della E Street Band ed è andata rinforzando progressivamente fino a rendere inutili ombrelli e impemeabili, convincendo tutto il pubblico a scaldarsi solo a forza di adrenalina. Dopo due ore di concerto scatta il chissenefrega della pioggia. Dopo tre, l’eroe sul palco chiede al popolo se per caso ne ha abbastanza, e la risposta è un tuono di quarantamila no. Arriva allora il pezzo che aspettavi dall’inizio, il primo che hai conosciuto di Springsteen: «Born to run». E tu a quel punto dimentichi te stesso e sei solo un attimo in mezzo al susseguirsi delle generazioni, ma accanto a te c’è Arturo e questo basta a renderti felice. Lo abbracci, e anche lui ti abbraccia: il miracolo dell’abbraccio da parte di tuo figlio diciassettenne. A quel punto il diluvio è una risorsa, perché ti consente di nascondere una lacrimuccia. Fa bene piangere, di tanto in tanto. E almeno per i prossimi diciassette anni, tu puoi dire di essere a posto.