Valerio Mastandrea in una scena del film |
sabato 22 marzo 2014
FILM (QUASI) INVISIBILI: "LA MIA CLASSE" DI DANIELE GAGLIANONE
Di Diego Del Pozzo
La quasi invisibilità nei cinema italiani di un film come "La mia classe" di Daniele Gaglianone è l'ennesimo esempio di quanto tristi e miopi siano le logiche che regolano la distribuzione cinematografica in Italia.
Coraggioso e originalissimo dal punto di vista linguistico e dei contenuti, infatti, il lavoro più recente di Gaglianone è un riuscito mix tra cinema civile e ardita (quasi folle) sperimentazione metanarrativa, costruito sulle capaci spalle di un magistrale Valerio Mastandrea, nel ruolo del maestro di una scuola di italiano per stranieri, o di se stesso che interpreta questo maestro, o di se stesso che interpreta un attore che interpreta il maestro. Di fronte a lui, in quelli che - come spesso capita nel cinema dell'autore - si configurano come autentici "corpo a corpo" con la realtà, c'è una vera classe di immigrati, provenienti da Paesi e culture differenti e tutti - chi più, chi meno - costretti ad affrontare quotidianità rese problematiche dalle contraddizioni e dalle zone d'ombra (dal cuore di tenebra?) di una nazione sempre più razzista e intollerante com'è l'Italia del terzo millennio.
Nel film, il regista riflette sui limiti della messa in scena e sui suoi sconfinamenti, mandando volutamente in frantumi il rassicurante perimetro di ogni possibile finzione drammaturgicamente controllata, senza però mai andare a discapito di una fluidità narrativa che resta assoluta. Ma, al tempo stesso, Gaglianone dice la sua su temi "forti" e di fiammeggiante attualità come l'inclusione, l'intolleranza e la capacità di essere ancora umani nell'Occidente (post?)neoliberista del 2014.
E lo fa rovesciando il punto di vista e assumendo come proprio lo sguardo su di noi di quelle donne e di quegli uomini provenienti dai tanti possibili Sud del mondo. E sono sguardi che fanno male e che costringono gli spettatori a uscire dalla sala, dopo i titoli di coda, in preda a quella che lo stesso regista opportunamente definisce "sana inquietudine", dalla quale magari provare a ripartire battendo sentieri diversi rispetto a quelli percorsi finora.
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