Proprio la scelta di Abrams da parte della Disney, invece, è stata secondo me la più logica e forse l’unica possibile, nel momento in cui s’è deciso di lavorare su un concetto elementare ma potentissimo come quello di “risveglio”, della Forza certamente, ma anche – fuor di metafora – dell’intera saga filmica, dopo le tante critiche incassate dalla discussa e discutibile “prequel trilogy”. E tale “risveglio” come avrebbe mai potuto concretizzarsi? Soltanto con un ritorno alle origini (cioè ai tre film di fine anni Settanta – inizio Ottanta) e con la riattivazione dello spirito più profondo e autentico di Star Wars. Ma anche con una certa coerenza e attenzione nei confronti dell’identità della multinazionale neo-proprietaria (vi dice nulla un'ottima serie animata per ragazzi come Star Wars Rebels, peraltro esplicitamente citata nel film?), adattando tutto ciò all’oggi in modo da lanciarlo in maniera di nuovo convincente e affascinante verso un domani radioso.
In tutte queste cose, J.J. Abrams è un maestro riconosciuto, come dimostrato anche dal rilancio – seppur decisamente meno rischioso e complicato – del franchise cinematografico di Star Trek. E, infatti, anche stavolta il regista intimamente spielberghiano di Super 8 ha saputo destreggiarsi da par suo col fantastico materiale messogli a disposizione, centrifugando una miriade di influenze e riferimenti per ricavarne un mix seducente, perfetto per proporsi al pubblico come familiare e personale allo stesso tempo. Per farlo, Abrams ha abbinato lo sguardo puro da fan-ragazzino innamorato delle cinefiabe e dei racconti epici con l’approccio fatto di straordinaria consapevolezza linguistica tipico dello studioso preparato e pignolo, ma anche con quello dello showrunner abituato a ideare progetti seriali che tengano conto pure delle esigenze industriali e promozionali dei committenti, giocando a volte in maniera ardita con tali esigenze e diktat esterni. Il suo punto di partenza – per lui che, in ogni caso, è anche un gran furbone – è coinciso con un’idea molto chiara, direi persino banale per chi appena ne conosca la produzione precedente: Star Wars – Episodio VII: Il risveglio della Forza sarebbe stato al tempo stesso un sequel, un reboot e un remake; e avrebbe frullato assieme le varie possibili declinazioni seriali-citazionistiche del blockbuster postmoderno del Terzo millennio, con uno sguardo attento e consapevole, com’è ovvio, anche alle sue poderose implicazioni narrative transmediali (non va mai dimenticato, per restare in casa Disney, che rispetto all'epoca dei precedenti film della saga ideata da George Lucas, quelli della "prequel trilogy", lo scenario dei kolossal globali di genere fantastico è deflagrato una volta per tutte con l'avvento del Marvel Cinematic Universe, che ha inevitabilmente fatto segnare un "prima" e un "dopo").
Paradossalmente, però, proprio per restare calato nella contemporaneità, declinare efficacemente Star Wars in un contesto così diverso rispetto a una quindicina di anni fa e rendere tutto credibile dal punto di vista artistico e sostenibile produttivamente, Abrams è dovuto ritornare a quelle origini evocate più su, cioè al film che nel 1977 diede inizio a tutto, riallacciandosi direttamente a quell’irripetibile mélange di fiaba classica, epica cavalleresca, western, affresco generazionale, omaggio alla fantascienza vintage del tempo che fu. Così, di quello che, in occasione della riedizione del 1999, fu reintitolato Star Wars – Episodio IV: Una nuova speranza, il film del 2015 riprende con sincero affetto e notevole padronanza la struttura, le tematiche, i riferimenti iconografici, persino la composizione di molti quadri, i caratteri dei personaggi e l’interazione tra loro, spesso citando in modo fedele intere sequenze o giocando a rovesciarne altre di segno e di senso (in particolare, quelle dedicate al conflitto tra luce e oscurità e tra padri e figli). L’atmosfera complessiva, dunque, è quella giusta, ben metaforizzata dalla già celeberrima battuta “Siamo a casa”, che segna il ritorno in scena di Han Solo e Chewbacca, ma soprattutto incarnata dal corpo e dal volto invecchiati, rugosi e un po’ sfatti dello stesso Solo di Harrison Ford, che porta inscritto nella sua stessa fisicità “ottantesca” lo scorrere del tempo – Il risveglio della Forza è per lui ciò che The Wrestler di Darren Aronofski è stato per Mickey Rourke – e si fa trait d’union vivente tra “vecchio” cinema postmoderno e neobarocco (quello che provocò la resurrezione di Hollywood negli anni Ottanta) e “nuovo” postcinema 2.0, ormai indissolubilmente intrecciato alla serialità televisiva, ai videogames, all’animazione digitale, al web ma, pur in epoca di convergenza mediale, ancora orgoglioso del suo passato e delle sue specificità narrative.
Quello scelto da J.J. Abrams è un approccio profondamente umanista, che si poggia sulla predilezione per i set reali rispetto all’abuso di green screen e su quella per gli effetti speciali meccanici rispetto ai digitali (comunque molto presenti), ma soprattutto sull’affettuosa attenzione del regista e del co-sceneggiatore Lawrence Kasdan (“quel” Lawrence Kasdan) nei confronti dei personaggi, fatta di ripetuti primi piani sui loro volti per esaltarne le interiorità, i dilemmi, le paure, le aspirazioni e le speranze. Inoltre, per ricollegarsi realmente alle origini del Mito, le modalità e la struttura del racconto tornano a farsi lineari, persino orgogliose della propria semplicità (che non vuol dire banalità), puntando forte su una prima ora di film dalla straordinaria tenuta ritmica (davvero alla velocità della luce) e, più avanti, sul carattere di saga familiare intergenerazionale che, da sempre, caratterizza Star Wars.
Ma le varie famiglie protagoniste sono tutte disfunzionali, allargate, dilaniate, imperfette, con l’umanità e l’imperfezione che emergono anche dove meno ce lo si aspetterebbe: per la prima volta, infatti, viene dato un volto agli stormtroopers, mostrando gli uomini sotto ai caschi bianchi (e si tratta di uomini strappati da bambini alle loro famiglie e poi ricondizionati per servire il Lato Oscuro), fino a trasformarne uno, confuso e spaventato (il Finn di John Boyega), in disertore e poi probabile eroe; per la prima volta, ancora, l’iconico villain del film, lo statuario Kylo Ren di Adam Driver, è un malvagio in itinere, incerto sulla via da seguire, insicuro e non del tutto addestrato, in preda alla paura di non riuscire a essere all’altezza del suo ingombrante retaggio familiare (nei film successivi, sarà questo, probabilmente, il personaggio dal quale attendersi l’evoluzione maggiore e le sorprese più interessanti); per la prima volta, infine, un carattere femminile, la magnifica Rey di Daisy Ridley (in vana attesa dei genitori spariti quando lei era una bambina), assurge al ruolo di fulcro e cuore pulsante dell’intero film, proponendosi fin d’ora come uno tra i personaggi meglio scritti dell’intera saga. Accanto ai tre giovani protagonisti, ideali per raccogliere il testimone dal trio classico interpretato da Harrison Ford, Carrie Fisher e Mark Hamill, meritano però più che una semplice menzione almeno il coraggioso pilota della Resistenza Poe Dameron di Oscar Isaac (altro personaggio destinato a crescere nei sequel) e, dalla parte del Lato Oscuro, il fanatico generale Hux (Domhnall Gleeson) al vertice del Primo Ordine (l’organizzazione militare che porta avanti la malvagia eredità dell’Impero galattico) e alle dirette dipendenze del leader supremo Snoke (Andy Serkis, che recita in performance capture). Oltre, naturalmente, al nuovo droide rotondeggiante ideato da J.J. Abrams, l’irresistibile BB-8, perfetto per conquistare i bambini di tutto il mondo e attentare con successo ai portafogli dei genitori, a loro volta felici di ritornare bambini di fronte al “risveglio” della saga epica popolare più importante della contemporaneità.
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