venerdì 31 dicembre 2010
UN RINATO ABEL FERRARA CONQUISTA LA PLATEA DI CAPRI
Quello riprodotto qui sopra è l'articolo a firma di Abel Ferrara - il grande regista di capolavori maledetti come Il cattivo tenente, The Funeral - Fratelli e The Addiction - che ho avuto l'onore di trascrivere per il quotidiano Il Mattino, sul quale è stato pubblicato in prima pagina nell'edizione di ieri. Per leggerlo basta cliccarci sopra. Qui sotto, nella foto di Pietro Coccia, io con Abel Ferrara durante il festival "Capri, Hollywood".
martedì 28 dicembre 2010
lunedì 27 dicembre 2010
DIFFERENZE TRA NAPOLI E PARIGI A NATALE (E NON SOLO)
Di Diego Del Pozzo
Differenze principali tra Napoli e Parigi durante le festività natalizie (e non solo):
1) a Napoli pioggia, a Parigi 15 centimetri di neve e temperature a tre gradi sotto zero;
2) a Napoli manc' 'o cazz', a Parigi piste di pattinaggio e giostre gratis davanti all'Hotel de Ville (il Municipio) oltre a una miriade di iniziative culturali e spettacolari;
3) a Napoli monnezza per le strade, a Parigi nemmeno una carta in terra;
4) a Napoli i commercianti hanno perso l'abitudine di salutare i propri clienti, a Parigi nei negozi ti accolgono con un sorriso;
5) a Napoli ormai l'aria puzza, a Parigi no;
6) a Napoli è difficile trovare una rivista di filosofia in libreria, a Parigi puoi comprare un mensile di filosofia in edicola;
7) a Napoli per parlare in strada devi urlare (a causa dell'allucinante inquinamento acustico), a Parigi puoi conversare piacevolmente come una persona civile;
8) a Napoli il pesce per il cenone della vigilia costa tantissimo, a Parigi puoi acquistarne di ottimo a prezzi onesti;
9) a Napoli il museo Madre sta per chiudere, a Parigi puoi scegliere tra cento e più;
10) a Napoli puoi metterci anche due ore per andare in treno a Caserta, a Parigi in 40 minuti precisi sei a Marne La Vallée - Chessy - Parcs Disneyland (nonostante la neve e il ghiaccio).
1) a Napoli pioggia, a Parigi 15 centimetri di neve e temperature a tre gradi sotto zero;
2) a Napoli manc' 'o cazz', a Parigi piste di pattinaggio e giostre gratis davanti all'Hotel de Ville (il Municipio) oltre a una miriade di iniziative culturali e spettacolari;
3) a Napoli monnezza per le strade, a Parigi nemmeno una carta in terra;
4) a Napoli i commercianti hanno perso l'abitudine di salutare i propri clienti, a Parigi nei negozi ti accolgono con un sorriso;
5) a Napoli ormai l'aria puzza, a Parigi no;
6) a Napoli è difficile trovare una rivista di filosofia in libreria, a Parigi puoi comprare un mensile di filosofia in edicola;
7) a Napoli per parlare in strada devi urlare (a causa dell'allucinante inquinamento acustico), a Parigi puoi conversare piacevolmente come una persona civile;
8) a Napoli il pesce per il cenone della vigilia costa tantissimo, a Parigi puoi acquistarne di ottimo a prezzi onesti;
9) a Napoli il museo Madre sta per chiudere, a Parigi puoi scegliere tra cento e più;
10) a Napoli puoi metterci anche due ore per andare in treno a Caserta, a Parigi in 40 minuti precisi sei a Marne La Vallée - Chessy - Parcs Disneyland (nonostante la neve e il ghiaccio).
mercoledì 22 dicembre 2010
BUON NATALE A TUTTI!
Off-Topic si prende qualche giorno di vacanza. Buon Natale, dunque, a tutti i lettori!
domenica 19 dicembre 2010
venerdì 17 dicembre 2010
CASTELLITTO A NAPOLI PER "LA BELLEZZA DEL SOMARO"
Di Diego Del Pozzo
Da quando, tre anni fa, ha girato in città la fiction O' professore Sergio Castellitto ha con Napoli un rapporto speciale. Non è un caso, dunque, che l'attore-regista abbia scelto proprio il capoluogo campano per l'ultima anteprima del suo nuovo film, La bellezza del somaro, all'immediata vigilia dell'uscita nelle sale, prevista per oggi in ben 254 copie distribuite dalla Warner Bros. "Questa è una città magnifica - sottolinea Castellitto - che potrebbe "campare" di cultura. Bisogna darle attenzione e curarla, perché se non funziona Napoli non funziona tutta l'Italia, dato che proprio qui, secondo me, c'è il laboratorio dei fermenti più vivaci del nostro Paese". Del suo film, invece, il regista-interprete ama sottolineare, innanzitutto, l'originalità rispetto all'attuale panorama della commedia italiana, mostrando grande sicurezza per la scelta dell'uscita natalizia da parte della Warner: "Rispetto al cinepanettone - scherza - io mi accontenterei di essere l'uvetta, che a volte può essere molto gustosa. Comunque, con questo film non ho voluto inseguire il puro esercizio ginnico della risata, ma rischiare con uno stile lontanissimo da quello televisivo. Un ottimo esempio è la lunga sequenza della litigata finale, girata quasi come se fosse un film di guerra di Spielberg. Per quanto riguarda i personaggi, poi, qui parteggio chiaramente per i ragazzi, ancora lontani dalla meschinità che conosceranno con l'età adulta".
In La bellezza del somaro, Castellitto interpreta Marcello, architetto di successo sposato con la psicologa Marina (Laura Morante): entrambi genitori moderni, dinamici, dialogici, ecosolidali, tolleranti, che si trovano ad affrontare lo sconcertante fidanzamento della figlia diciassettenne Rosa (Nina Torresi, presente a Napoli assieme al regista) con un misterioso settantenne, un impagabile Enzo Iannacci, che porterà alla luce le ipocrisie delle loro esistenze "politicamente corrette". "Il personaggio di Iannacci - conclude Castellitto - è una sorta di alieno, fatto apposta per smascherare le ambiguità di vite vissute all'insegna dell'apparenza". Accanto ai protagonisti, si fa apprezzare un rodatissimo gruppo di interpreti, composto dal napoletano Gianfelice Imparato (ottimo il suo manager nevrotico e perplesso) e da Emanuela Grimalda, Marco Giallini, Lidia Vitale, Erica Blanc, Barbora Bobulova, Renato Marchetti.
In La bellezza del somaro, Castellitto interpreta Marcello, architetto di successo sposato con la psicologa Marina (Laura Morante): entrambi genitori moderni, dinamici, dialogici, ecosolidali, tolleranti, che si trovano ad affrontare lo sconcertante fidanzamento della figlia diciassettenne Rosa (Nina Torresi, presente a Napoli assieme al regista) con un misterioso settantenne, un impagabile Enzo Iannacci, che porterà alla luce le ipocrisie delle loro esistenze "politicamente corrette". "Il personaggio di Iannacci - conclude Castellitto - è una sorta di alieno, fatto apposta per smascherare le ambiguità di vite vissute all'insegna dell'apparenza". Accanto ai protagonisti, si fa apprezzare un rodatissimo gruppo di interpreti, composto dal napoletano Gianfelice Imparato (ottimo il suo manager nevrotico e perplesso) e da Emanuela Grimalda, Marco Giallini, Lidia Vitale, Erica Blanc, Barbora Bobulova, Renato Marchetti.
giovedì 16 dicembre 2010
mercoledì 15 dicembre 2010
E ANCHE QUEST'ANNO ARRIVA IL "CINEPANETTONE"
Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 14 dicembre 2010)
(Il Mattino - 14 dicembre 2010)
Consueta anteprima tra calcio e cinema, quella organizzata a Napoli, presso il Med The Space multiplex di Fuorigrotta, dove va in scena il tradizionale rito prenatalizio della presentazione del nuovo "cinepanettone" targato Filmauro, Natale in Sudafrica, da venerdì nei cinema italiani.
Anche quest'anno, infatti, Aurelio De Laurentiis mette insieme le sue due passioni, portando in sala calciatori e staff tecnico del suo Napoli, tutti in prima fila per la proiezione in anteprima nazionale del film. Per il folto pubblico presente alla serata, tra l'altro, un motivo d'interesse in più è certamente la contemporanea presenza al Med di due argentini amatissimi dai rispettivi fans: il Pocho Lavezzi e la sensuale Belen Rodriguez, nuova star del "cinepanettone" 2010. Assieme alla showgirl sudamericana, radiosa e sorridente come sempre, presentano il film al Med anche gli altri protagonisti Christian De Sica, Giorgio Panariello, Max Tortora, la napoletana Serena Autieri e Barbara Tabita, accompagnati (e coccolati) dai produttori Aurelio e Luigi De Laurentiis. Proprio Belen, però, non ci mette molto per accattivarsi le simpatie della platea partenopea, lanciando un'idea al produttore-presidente: "Potrei dare il calcio d'inizio a una gara del Napoli al San Paolo, magari contro il Genoa nel girone di ritorno". La risposta di don Aurelio è prontissima e si spinge persino oltre: "Per te - dice rivolgendosi alla Rodriguez - sto pensando a un ruolo ancora più interessante. Per esempio, potresti fare da testimonial del Napoli in Sudamerica. Ci lavoreremo".
E, a proposito di lavoro, le riprese sudafricane del nuovo film di Natale della Filmauro hanno divertito molto i protagonisti, ma sono state anche faticosissime, con ciak in piena savana, spesso circondati da animali selvatici. "Ci sarebbero tantissimi aneddoti da raccontare, perché abbiamo avuto a che fare con serpenti, elefanti, babbuini", scherza (ma non troppo) Christian De Sica. E, immediatamente, Giorgio Panariello fa sganasciare il pubblico dalle risate, raccontando di quando un babbuino poco mansueto ha preso a schiaffi Massimo Ghini "mentre i due - racconta - cercavano di familiarizzare prima di girare una scena".
Comunque, è indubbio che tutte le attenzioni siano rivolte a Belen Rodriguez, che si dice entusiasta della sua prima volta al cinema: "Ho molto apprezzato la scelta del regista Neri Parenti - sottolinea Belen - di non mettere me e Christian nello stesso episodio, in modo da non copiare gli spot televisivi che facciamo assieme. Per quanto mi riguarda, mi sono trovata inserita in una vera e propria "macchina da guerra" della risata, dove tutto funziona alla perfezione e dove ho dovuto impegnarmi per entrare nei tempi comici giusti: far ridere, infatti, è la cosa più difficile che ci sia". Nel futuro di Belen, comunque, ci sarà altro cinema, a partire dalla commedia Se sei così, ti dico sì di Eugenio Cappuccio: "Mi piace molto recitare - aggiunge la showgirl, che presenterà il Festival di Sanremo assieme a Gianni Morandi ed Elisabetta Canalis - anche se penso che tutte le esperienze artistiche aiutino a crescere; pure gli spot televisivi della Tim - conclude smorzando le polemiche di questi giorni - che, a differenza di quanto è stato scritto, hanno prodotto ottimi risultati all'azienda".
Anche quest'anno, infatti, Aurelio De Laurentiis mette insieme le sue due passioni, portando in sala calciatori e staff tecnico del suo Napoli, tutti in prima fila per la proiezione in anteprima nazionale del film. Per il folto pubblico presente alla serata, tra l'altro, un motivo d'interesse in più è certamente la contemporanea presenza al Med di due argentini amatissimi dai rispettivi fans: il Pocho Lavezzi e la sensuale Belen Rodriguez, nuova star del "cinepanettone" 2010. Assieme alla showgirl sudamericana, radiosa e sorridente come sempre, presentano il film al Med anche gli altri protagonisti Christian De Sica, Giorgio Panariello, Max Tortora, la napoletana Serena Autieri e Barbara Tabita, accompagnati (e coccolati) dai produttori Aurelio e Luigi De Laurentiis. Proprio Belen, però, non ci mette molto per accattivarsi le simpatie della platea partenopea, lanciando un'idea al produttore-presidente: "Potrei dare il calcio d'inizio a una gara del Napoli al San Paolo, magari contro il Genoa nel girone di ritorno". La risposta di don Aurelio è prontissima e si spinge persino oltre: "Per te - dice rivolgendosi alla Rodriguez - sto pensando a un ruolo ancora più interessante. Per esempio, potresti fare da testimonial del Napoli in Sudamerica. Ci lavoreremo".
E, a proposito di lavoro, le riprese sudafricane del nuovo film di Natale della Filmauro hanno divertito molto i protagonisti, ma sono state anche faticosissime, con ciak in piena savana, spesso circondati da animali selvatici. "Ci sarebbero tantissimi aneddoti da raccontare, perché abbiamo avuto a che fare con serpenti, elefanti, babbuini", scherza (ma non troppo) Christian De Sica. E, immediatamente, Giorgio Panariello fa sganasciare il pubblico dalle risate, raccontando di quando un babbuino poco mansueto ha preso a schiaffi Massimo Ghini "mentre i due - racconta - cercavano di familiarizzare prima di girare una scena".
Comunque, è indubbio che tutte le attenzioni siano rivolte a Belen Rodriguez, che si dice entusiasta della sua prima volta al cinema: "Ho molto apprezzato la scelta del regista Neri Parenti - sottolinea Belen - di non mettere me e Christian nello stesso episodio, in modo da non copiare gli spot televisivi che facciamo assieme. Per quanto mi riguarda, mi sono trovata inserita in una vera e propria "macchina da guerra" della risata, dove tutto funziona alla perfezione e dove ho dovuto impegnarmi per entrare nei tempi comici giusti: far ridere, infatti, è la cosa più difficile che ci sia". Nel futuro di Belen, comunque, ci sarà altro cinema, a partire dalla commedia Se sei così, ti dico sì di Eugenio Cappuccio: "Mi piace molto recitare - aggiunge la showgirl, che presenterà il Festival di Sanremo assieme a Gianni Morandi ed Elisabetta Canalis - anche se penso che tutte le esperienze artistiche aiutino a crescere; pure gli spot televisivi della Tim - conclude smorzando le polemiche di questi giorni - che, a differenza di quanto è stato scritto, hanno prodotto ottimi risultati all'azienda".
domenica 12 dicembre 2010
SET: JOHNNIE TO GIRERA' UN FILM NOIR A NAPOLI
Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 12 dicembre 2010)
(Il Mattino - 12 dicembre 2010)
Potrebbe essere un mito del cinema asiatico, il regista di Hong Kong Johnnie To, a dirigere la versione cinematografica di 5 è il numero perfetto, il premiatissimo romanzo a fumetti scritto e disegnato da Igort, al secolo Igor Tuveri, che l'ha ambientato nella Napoli degli anni Settanta, tra camorra e guapparia. Pubblicato dal 2002 in una quindicina di Paesi (in Italia prima da Coconino Press e poi da Rizzoli), il lavoro del sardo-bolognese Tuveri - uno tra i più raffinati autori dell'avanguardia fumettistica europea - è da metà decennio in procinto di trasformarsi in film, grazie al coinvolgimento del direttore della Mostra di Venezia, Marco Muller, caparbiamente impegnato come produttore in un progetto che, negli anni, ha visto avvicendarsi alla regia cineasti italiani e stranieri come Egidio Eronico, Takeshi Kitano, lo stesso Igort. Stavolta, però, la situazione potrebbe sbloccarsi.
Infatti, Muller ha accompagnato a Napoli, nei giorni scorsi, il regista Johnnie To, per una serie di sopralluoghi e di incontri con realtà locali come Teatri Uniti (che si occuperebbe della produzione esecutiva della pellicola), resi possibili grazie al lavoro di tessitura e supporto organizzativo della Film Commission Regione Campania. Con Muller e To, durante il soggiorno partenopeo durato quattro intensi giorni, c'erano la moglie dell'autore di Hong Kong e il suo aiuto-regista, oltre allo scenografo Lino Fiorito e al direttore della Film Commission regionale Maurizio Gemma. I sopralluoghi hanno interessato buona parte dell'area vesuviana e di quella flegrea, attraversate prevalentemente in auto; e poi, in città, il porto (in particolare, i moli commerciali pieni di container stipati l'uno sull'altro), la Sanità e i Decumani (percorsi a piedi, per soffermarsi meglio sui particolari), infine le cavità della Napoli sotterranea, il cui impatto visivo ha molto colpito Johnnie To. Il coinvolgimento dell'importante regista asiatico, autore di pellicole di culto come The Mission (1999) o Election (2005), si spiega con la popolarità dell'opera di Igort anche in Estremo Oriente (dove ha lavorato con regolarità per i colossi editoriali giapponesi), ma soprattutto con gli storici contatti che il produttore Marco Muller ha con quelle realtà, in quanto raffinato sinologo nonché tra i massimi studiosi e divulgatori occidentali del cinema cinese (a partire dalla prima retrospettiva europea Ombre elettriche, realizzata nel 1982 a Torino, Milano e Roma).
E la scelta di Johnnie To potrebbe rivelarsi davvero azzeccata, se si pensa allo stile del regista di noir cinematografici innovativi come PTU (2003) o Exiled (2006) e lo si accosta ad alcune dichiarazioni di Igort, che ha collaborato alla sceneggiatura del film: "Ho cercato di osservare Napoli - spiega lo scrittore-disegnatore - con quello sguardo sornione e ironico, fra tragedia e commedia, tipico dei grandi del nostro cinema, da Fellini e Monicelli a, soprattutto, Sergio Leone. Dal punto di vista stilistico, inoltre, ho utilizzato la bicromia bianco-nero e blu perché volevo disegnare una storia priva di colore, ma che riuscisse a evocarlo e contribuisse a sviluppare delle atmosfere. Blu è il colore della notte, ma usato su un disegno chiaro rende bene anche la luce lirica del sud dell'Italia". Non può essere una coincidenza, dunque, se Leone (assieme a Sam Peckinpah e Jean-Pierre Melville, omaggiato nel 2009 con Vendicami) è un riferimento esplicito del cinema di Johnnie To, oppure se proprio il blu (notte) è il colore che domina le atmosfere dei modernissimi film noir prodotti a Hong Kong dalla metà degli anni Ottanta a tutti i Novanta.
Nella versione cartacea, 5 è il numero perfetto è un affresco al tempo stesso ironico e tragico dell'Italia anni Settanta. Con i toni del pulp, racconta la storia di un guappo in pensione, Peppino Lo Cicero, che si occupa di pesca e del figlio Nino, guappo anche lui. Quando Nino cade vittima di un agguato, però, Peppino ricomincerà a sparare. Nella prima versione cinematografica, quella che avrebbe dovuto dirigere Eronico, per il ruolo di Lo Cicero era stato scelto Toni Servillo, che poi ha dovuto rinunciare in seguito ai continui rinvii del progetto. Il possibile film diretto da Johnnie To, invece, punterebbe su un big hollywoodiano, per dare all'intera operazione un maggiore respiro internazionale: il sogno è Robert De Niro. La cordata produttiva, comunque, è ancora in fase di ulteriore ampliamento, per coinvolgere anche partner stranieri. Il budget si aggirerà sui dieci milioni di euro.
Infatti, Muller ha accompagnato a Napoli, nei giorni scorsi, il regista Johnnie To, per una serie di sopralluoghi e di incontri con realtà locali come Teatri Uniti (che si occuperebbe della produzione esecutiva della pellicola), resi possibili grazie al lavoro di tessitura e supporto organizzativo della Film Commission Regione Campania. Con Muller e To, durante il soggiorno partenopeo durato quattro intensi giorni, c'erano la moglie dell'autore di Hong Kong e il suo aiuto-regista, oltre allo scenografo Lino Fiorito e al direttore della Film Commission regionale Maurizio Gemma. I sopralluoghi hanno interessato buona parte dell'area vesuviana e di quella flegrea, attraversate prevalentemente in auto; e poi, in città, il porto (in particolare, i moli commerciali pieni di container stipati l'uno sull'altro), la Sanità e i Decumani (percorsi a piedi, per soffermarsi meglio sui particolari), infine le cavità della Napoli sotterranea, il cui impatto visivo ha molto colpito Johnnie To. Il coinvolgimento dell'importante regista asiatico, autore di pellicole di culto come The Mission (1999) o Election (2005), si spiega con la popolarità dell'opera di Igort anche in Estremo Oriente (dove ha lavorato con regolarità per i colossi editoriali giapponesi), ma soprattutto con gli storici contatti che il produttore Marco Muller ha con quelle realtà, in quanto raffinato sinologo nonché tra i massimi studiosi e divulgatori occidentali del cinema cinese (a partire dalla prima retrospettiva europea Ombre elettriche, realizzata nel 1982 a Torino, Milano e Roma).
E la scelta di Johnnie To potrebbe rivelarsi davvero azzeccata, se si pensa allo stile del regista di noir cinematografici innovativi come PTU (2003) o Exiled (2006) e lo si accosta ad alcune dichiarazioni di Igort, che ha collaborato alla sceneggiatura del film: "Ho cercato di osservare Napoli - spiega lo scrittore-disegnatore - con quello sguardo sornione e ironico, fra tragedia e commedia, tipico dei grandi del nostro cinema, da Fellini e Monicelli a, soprattutto, Sergio Leone. Dal punto di vista stilistico, inoltre, ho utilizzato la bicromia bianco-nero e blu perché volevo disegnare una storia priva di colore, ma che riuscisse a evocarlo e contribuisse a sviluppare delle atmosfere. Blu è il colore della notte, ma usato su un disegno chiaro rende bene anche la luce lirica del sud dell'Italia". Non può essere una coincidenza, dunque, se Leone (assieme a Sam Peckinpah e Jean-Pierre Melville, omaggiato nel 2009 con Vendicami) è un riferimento esplicito del cinema di Johnnie To, oppure se proprio il blu (notte) è il colore che domina le atmosfere dei modernissimi film noir prodotti a Hong Kong dalla metà degli anni Ottanta a tutti i Novanta.
Nella versione cartacea, 5 è il numero perfetto è un affresco al tempo stesso ironico e tragico dell'Italia anni Settanta. Con i toni del pulp, racconta la storia di un guappo in pensione, Peppino Lo Cicero, che si occupa di pesca e del figlio Nino, guappo anche lui. Quando Nino cade vittima di un agguato, però, Peppino ricomincerà a sparare. Nella prima versione cinematografica, quella che avrebbe dovuto dirigere Eronico, per il ruolo di Lo Cicero era stato scelto Toni Servillo, che poi ha dovuto rinunciare in seguito ai continui rinvii del progetto. Il possibile film diretto da Johnnie To, invece, punterebbe su un big hollywoodiano, per dare all'intera operazione un maggiore respiro internazionale: il sogno è Robert De Niro. La cordata produttiva, comunque, è ancora in fase di ulteriore ampliamento, per coinvolgere anche partner stranieri. Il budget si aggirerà sui dieci milioni di euro.
venerdì 10 dicembre 2010
giovedì 9 dicembre 2010
mercoledì 8 dicembre 2010
martedì 7 dicembre 2010
UN RICORDO DI INGRID PITT, LA CARMILLA DELLA HAMMER
Di Franco Pezzini
(Carmilla - 6 dicembre 2010)
(Carmilla - 6 dicembre 2010)
[...] Ingrid Pitt, la più nota Carmilla del cinema, ha chiuso gli occhi il 23 novembre in un ospedale londinese, appena compiuti i 73 anni e a distanza di poche settimane dalla scomparsa del regista che per la Hammer l'aveva diretta in quel ruolo, Roy Ward Baker, in The Vampire Lovers (Vampiri amanti) del 1970. Il velato accento polacco - era nata a Treblinka, il 21 novembre 1937 - e una certa teatralità tra il malinconico e il melodrammatico fanno parlare di lei come di un Bela Lugosi al femminile. E in effetti le apparizioni dell'attrice in contesti gotici - non numerose, ma fondamentali - bastano a consacrarla tra le "Queens of Horror" più carismatiche ed effervescenti. Quando riceve la parte di Carmilla, l'attrice ha alle spalle una vita drammatica e avventurosa. Per l'anagrafe Ingoushka Petrov, è figlia di uno scienziato che rifiuta di collaborare ai piani missilistici nazisti e di un'ebrea polacca. A cinque anni - e per i successivi tre - vive prigioniera con la mamma nel campo di concentramento di Stutthof; ma, portate nella foresta per essere fucilate, le due donne riescono a fuggire e sono accolte tra i partigiani. Con il nuovo regime, incontriamo Ingrid a Berlino Est impegnata in lavoretti per i Berliner Ensemble, decisa a divenire attrice: il suo capo, Helene Weigel, vedova di Brecht, salva varie volte dall'arresto la giovane poco prudente nelle proprie opinioni sul regime. Quando le cose si mettono male, la sera stessa del debutto in teatro, Ingrid sfugge alla Volkspolizei con ancora il costume addosso e, dopo un tuffo nella Sprea, trova la salvezza, un bagno caldo e un po' di brandy in un bordello dal lato occidentale. Dopo una parentesi matrimoniale americana con un militare, torna nel Vecchio Mondo e appare con piccole parti in vari film spagnoli, l'unico dei quali ad avere risonanza all'estero è El sonido de la muerte (Prigionieri dell'orrore, 1964), dove recita a fianco di Soledad Miranda, futura e indimenticata interprete di vampire per Jess Franco. E saranno proprio Ingrid e Soledad, seguite certo da altre celebri colleghe ma mai eguagliate per presenza scenica, ad annunciare quell'Età d'oro delle vampire lesbiche (come è stata definita) che vede Carmilla imporsi nella nuova galleria teratologica di massa. Dopo altri piccoli ruoli da un lato all'altro dell'Atlantico, Ingrid ha infine la ventura di entrare nel cast di Where Eagles Dare (Dove osano le aquile, 1968), con la parte interessante dell'agente Fräulein Heidi: ed è proprio questo film che la fa notare dagli ammiragli Hammer. Di una Hammer in profonda ridefinizione e, ormai, negli anni del crepuscolo: anche se tale stagione tanto criticata mostra in realtà una vitalità e una capacità spregiudicata di conciliare tradizione e novità (i connubi tra vampiri e cappa-e-spada o persino kung-fu), con una fantasia che agli occhi odierni ha dello sbalorditivo. È in questo contesto che Roy Ward Baker (oggi è giusto ricordare anche lui), il successore insieme più autentico e più sovversivo di Terence Fisher, vara l'accesso di Carmilla al pandemonium Hammer. Illuminanti a questo proposito le pagine critiche di Teo Mora: quasi in consonanza con le tesi anarchiche dell'antipsichiatria inglese, solo in apparenza Baker aderisce alla separazione fisheriana tra mondo dell'Ordine e mondo del Caos, corrispondenti alla dicotomia Quotidiano / Soprannaturale. E, rovesciandone il segno in termini provocatori ("follia" liberatoria / normalità repressiva), permette una lettura completamente rinnovata del mostro. Ma è Ingrid Pitt / Carmilla, con la sua educazione sentimentale e sessuale delle giovani ospiti-vittime, a compiere l'opera, offrendo alla vampira una dignità torbida e complessa di personaggio - e una simpatia, il che non è poco - ben oltre i limiti delle battute concessele e tale da consacrarle un posto nella galleria di figure esemplari Hammer, nell'ambito di una mitologia di fortissimo impatto popolare.
Certo, in Vampiri amanti Carmilla non è l'adolescente di Le Fanu ma una giovane donna dall'aggressiva sessualità, in grado di sedurre e distruggere chiunque possa scoprire la sua vera natura. Eppure, al di là di questa e altre licenze, la versione bakeriana riesce a conservare la radicale ambiguità originaria delle figure e della vicenda, offrendone una lettura rispettosa e avvincente, dove anche la sensualità (non volgare né scontata, anche se sostanziata in nudità e atti erotici che il testo non conosce) non tradisce lo spirito originario. [...] E se la Hammer ha all'epoca motivi spregiudicatamente pragmatici e non certo libertari per cavalcare i temi della devianza sessuale e di una vivace dialettica erotica, dell'oppressione sessista e di una violenza (moderatamente) splatter, nei fatti, e grazie anche alle mezzetinte interpretative di Ingrid Pitt e Peter Cushing, Vampiri amanti mantiene ancora a una visione odierna un'affascinante carica provocatoria. Se la pellicola costituirà, anzi, il protofilm di un'intera saga Hammer dedicata ai Karnstein e Ingrid non parteciperà ad altre puntate, al contempo però rifiuterà varie offerte per film di vampiri banalmente erotici.
L'anno successivo, comunque, Ingrid Pitt colpisce ancora. Sempre per la Hammer la ritroviamo infatti in Countess Dracula (La morte va a braccetto con le vergini, 1971), l'opera che più direttamente consegna all'immaginario del cinema popolare la storia della Contessa Báthory, tra le innumerevoli sul tema che in quegli anni pare ossessionare i registi. Non a caso, il titolo un po' fuorviante, che sembra alludere a una nuova puntata del ciclo sul Conte transilvano, costituisce oggi il soprannome col quale la Contessa Sanguinaria è meglio conosciuta nei paesi anglofoni. Girato dal regista Peter Sasdy e prodotto da Alexander Paal - entrambi ungheresi espatriati - su sceneggiatura di Jeremy Paul dalla fantasiosa biografia di Valentine Penrose (1962, tradotta in inglese nel 1970), La morte va a braccetto con le vergini romanza melodrammaticamente la vita della nobildonna sulla falsariga delle vecchie voci in materia di cosmesi col sangue. Il clima claustrofobico è costruito non tanto sul tema dei crimini della protagonista - lo sguardo resta quello disinvolto di lei, per cui la morte delle serventi costituisce un dettaglio irrilevante - quanto sulle improvvise impennate di una vecchiaia sempre più rapida e disfatta: l'attrice alterna, dunque, sequenze in cui appare vizza e ingrigita con altre di splendore, nel fulgore di una bellezza cui il termine "sexy" (speso ancora largamente nelle commemorazioni di questi giorni) non offre giustizia. Certo, Ingrid Pitt è stata una delle attrici più sexy della sua stagione, ma in realtà molto di più: la sua bellezza è supportata da un carattere, uno spessore e un'intensità memorabilmente prestati ai ruoli.
[...] Ormai Ingrid è LA vampira. Tanto più che, in quello stesso 1971, viene arruolata in una produzione della casa rivale della Hammer, quella Amicus che ha portato in Inghilterra uno stile all'americana molto più fumettistico e si è specializzata in film a episodi. Come, appunto, The House That Dripped Blood (La casa che grondava sangue) di Peter Duffell, costruito collegando quattro storie di Robert Bloch: Ingrid compare nell'ultimo episodio, il grottesco The Cloak, impegnata nella caricatura di se stessa, sia come diva di una-casa-di-produzione-di-pellicole-horror (la Hammer, ovvio) sia come succhiasangue. Troviamo, dunque, la sua sofisticata, elegante e seducente Carla Lynde concedersi una rivincita a suon di canini sul collega specializzato in film vampireschi, interpretato, per il rifiuto di Christopher Lee, dal più modesto ma godibile Jon Pertwee. In altri episodi compaiono, però, Lee e Cushing e il film è l'unico, curiosamente non-Hammer, a riunire in scampagnata i tre attori-simbolo della Hammer stessa.
Se poi consideriamo che Ingrid tornerà un paio d'anni dopo, con un ruolo di contorno ma significativo, in quel capolavoro assoluto dell'horror che è The Wicker Man (1973) di Robin Hardy - con Lee come mattatore, e ci manca poco che entri anche Cushing, che deve però rifiutare la parte per altri impegni - è agevole comprendere come l'attrice possa a quel punto vantare una statura di simbolo nell'immaginario horror. Ma non solo nell'horror, a scorrere la lista delle interpretazioni in film fantastici, thriller e commedie, produzioni televisive e anche teatrali di svariato genere; e il diradare, nel decennio successivo, delle sue apparizioni su schermi e palchi, apre una vivace stagione di scrittrice, commentatrice (anche politica) e imprenditrice della propria immagine. Il suo sito, Pitt of Horror, diviene il portale di un dialogo costante con i fans, pragmaticamente aperto al merchandising. L'ultima apparizione su schermo, l'intrigante Sea of Dust (2008), sarà però ancora un tributo agli horror degli anni Sessanta e Settanta; e, qualche mese prima di morire, riuscirà a chiudere la narrazione di Ingrid Pitt: Beyond the Forest, un cortometraggio animato sulla sua esperienza con i nazisti, di uscita prevista nel 2011.
[...] Ha chiuso gli occhi, ho scritto all'inizio, ma ci aspettiamo quasi che li riapra, come la bellissima vampira dal suo sonno. E al di là delle convinzioni personali di ciascuno su cosa possa seguire questa vita, una forma di sopravvivenza è certa: perché Ingrid Pitt, Contessa Karnstein, non la dimenticheremo mai.
Certo, in Vampiri amanti Carmilla non è l'adolescente di Le Fanu ma una giovane donna dall'aggressiva sessualità, in grado di sedurre e distruggere chiunque possa scoprire la sua vera natura. Eppure, al di là di questa e altre licenze, la versione bakeriana riesce a conservare la radicale ambiguità originaria delle figure e della vicenda, offrendone una lettura rispettosa e avvincente, dove anche la sensualità (non volgare né scontata, anche se sostanziata in nudità e atti erotici che il testo non conosce) non tradisce lo spirito originario. [...] E se la Hammer ha all'epoca motivi spregiudicatamente pragmatici e non certo libertari per cavalcare i temi della devianza sessuale e di una vivace dialettica erotica, dell'oppressione sessista e di una violenza (moderatamente) splatter, nei fatti, e grazie anche alle mezzetinte interpretative di Ingrid Pitt e Peter Cushing, Vampiri amanti mantiene ancora a una visione odierna un'affascinante carica provocatoria. Se la pellicola costituirà, anzi, il protofilm di un'intera saga Hammer dedicata ai Karnstein e Ingrid non parteciperà ad altre puntate, al contempo però rifiuterà varie offerte per film di vampiri banalmente erotici.
L'anno successivo, comunque, Ingrid Pitt colpisce ancora. Sempre per la Hammer la ritroviamo infatti in Countess Dracula (La morte va a braccetto con le vergini, 1971), l'opera che più direttamente consegna all'immaginario del cinema popolare la storia della Contessa Báthory, tra le innumerevoli sul tema che in quegli anni pare ossessionare i registi. Non a caso, il titolo un po' fuorviante, che sembra alludere a una nuova puntata del ciclo sul Conte transilvano, costituisce oggi il soprannome col quale la Contessa Sanguinaria è meglio conosciuta nei paesi anglofoni. Girato dal regista Peter Sasdy e prodotto da Alexander Paal - entrambi ungheresi espatriati - su sceneggiatura di Jeremy Paul dalla fantasiosa biografia di Valentine Penrose (1962, tradotta in inglese nel 1970), La morte va a braccetto con le vergini romanza melodrammaticamente la vita della nobildonna sulla falsariga delle vecchie voci in materia di cosmesi col sangue. Il clima claustrofobico è costruito non tanto sul tema dei crimini della protagonista - lo sguardo resta quello disinvolto di lei, per cui la morte delle serventi costituisce un dettaglio irrilevante - quanto sulle improvvise impennate di una vecchiaia sempre più rapida e disfatta: l'attrice alterna, dunque, sequenze in cui appare vizza e ingrigita con altre di splendore, nel fulgore di una bellezza cui il termine "sexy" (speso ancora largamente nelle commemorazioni di questi giorni) non offre giustizia. Certo, Ingrid Pitt è stata una delle attrici più sexy della sua stagione, ma in realtà molto di più: la sua bellezza è supportata da un carattere, uno spessore e un'intensità memorabilmente prestati ai ruoli.
[...] Ormai Ingrid è LA vampira. Tanto più che, in quello stesso 1971, viene arruolata in una produzione della casa rivale della Hammer, quella Amicus che ha portato in Inghilterra uno stile all'americana molto più fumettistico e si è specializzata in film a episodi. Come, appunto, The House That Dripped Blood (La casa che grondava sangue) di Peter Duffell, costruito collegando quattro storie di Robert Bloch: Ingrid compare nell'ultimo episodio, il grottesco The Cloak, impegnata nella caricatura di se stessa, sia come diva di una-casa-di-produzione-di-pellicole-horror (la Hammer, ovvio) sia come succhiasangue. Troviamo, dunque, la sua sofisticata, elegante e seducente Carla Lynde concedersi una rivincita a suon di canini sul collega specializzato in film vampireschi, interpretato, per il rifiuto di Christopher Lee, dal più modesto ma godibile Jon Pertwee. In altri episodi compaiono, però, Lee e Cushing e il film è l'unico, curiosamente non-Hammer, a riunire in scampagnata i tre attori-simbolo della Hammer stessa.
Se poi consideriamo che Ingrid tornerà un paio d'anni dopo, con un ruolo di contorno ma significativo, in quel capolavoro assoluto dell'horror che è The Wicker Man (1973) di Robin Hardy - con Lee come mattatore, e ci manca poco che entri anche Cushing, che deve però rifiutare la parte per altri impegni - è agevole comprendere come l'attrice possa a quel punto vantare una statura di simbolo nell'immaginario horror. Ma non solo nell'horror, a scorrere la lista delle interpretazioni in film fantastici, thriller e commedie, produzioni televisive e anche teatrali di svariato genere; e il diradare, nel decennio successivo, delle sue apparizioni su schermi e palchi, apre una vivace stagione di scrittrice, commentatrice (anche politica) e imprenditrice della propria immagine. Il suo sito, Pitt of Horror, diviene il portale di un dialogo costante con i fans, pragmaticamente aperto al merchandising. L'ultima apparizione su schermo, l'intrigante Sea of Dust (2008), sarà però ancora un tributo agli horror degli anni Sessanta e Settanta; e, qualche mese prima di morire, riuscirà a chiudere la narrazione di Ingrid Pitt: Beyond the Forest, un cortometraggio animato sulla sua esperienza con i nazisti, di uscita prevista nel 2011.
[...] Ha chiuso gli occhi, ho scritto all'inizio, ma ci aspettiamo quasi che li riapra, come la bellissima vampira dal suo sonno. E al di là delle convinzioni personali di ciascuno su cosa possa seguire questa vita, una forma di sopravvivenza è certa: perché Ingrid Pitt, Contessa Karnstein, non la dimenticheremo mai.
lunedì 6 dicembre 2010
LO SCRITTORE GIANNI BIONDILLO E I SUOI SUPEREROI
Di Gianni Biondillo
(Io Donna - 4/10 dicembre 2010)
(Io Donna - 4/10 dicembre 2010)
Ognuno ha l'immaginario che si merita. O forse, più semplicemente, quello che si è trovato fra i piedi. Fossi cresciuto in un'altra epoca, chissà, avrei eroi differenti, mitologie più auliche, referenti più alti. Io sotto i banchi di scuola, alle elementari, non nascondevo dallo sguardo accigliato della mia maestra libelli rivoluzionari o romanzi magniloquenti ma i fumetti sgualciti dei supereroi americani. I giornaletti, li chiamava la maestra, spregiativa.
Il mio mondo fantastico ha preso il volo lì, di nascosto dalle autorità scolastiche. In casa poi, dato che non c'erano libri, figlio del sottoproletariato urbano, già il fatto che leggessi avidamente quei fumetti mi faceva sembrare strano, persino un po' eccentrico, agli occhi di molti. Perché non esce, si chiedevano, perché non va a giocare a pallone? Certo, ci andavo anche, ma vuoi mettere leggere vorace la nuova avventura di Capitan America? A pensarci oggi dovrei vergognarmi, lui così repubblicano, reazionario, ma io che ne potevo sapere dell'imperialismo capitalista a sette anni? Che cosa meravigliosa era scambiare con i compagnetti gli albi della gloriosa Editoriale Corno: "Ti do il numero 10 dell'Uomo Ragno se tu mi dai il numero 5 di Devil!".
Continuare gli studi, laurearsi, diventare adulti è servito a poco. Appena mi capita un fumetto fra le mani lo sbrano. So tutto della mitologia norrena non certo grazie ai miei studi di storia medievale, ma per la lettura accanita di Thor, il dio del tuono. Che personaggio impossibile, a guardarlo bene: con quei capelli biondi, lunghi fino alle spalle, e quell'elmo da vichingo! Una vera icona gay. Ora che ci penso sono sempre stati una cosa per maschi, i fumetti. Poche ragazze, insomma, con cui parlare di Superman. Ma nel tempo un certo puritanesimo guerresco veniva frantumandosi con l'irrompere dei primi mutamenti del corpo: i peli sotto le ascelle, la voce più cavernosa, le pulsioni erotiche... Le domande fondamentali della vita cambiavano da "Secondo te è più forte Hulk o la Cosa?" a, più maliziose, "Ma Mister Fantastic, quando fa sesso con la donna invisibile, allunga anche i suoi attributi genitali?".
Grande palestra dell'immaginario, il fumetto (adoro la parola "fumetto", ce l'abbiamo solo noi italiani, la trovo addirittura poetica). Ingenuo e popolare. Le gesta di Batman o degli X-Men, per me, si svolgevano in luoghi misteriosi e lontani, proprio come erano Tebe o Sparta per gli ateniesi che purificavano il loro animo guardando le tragedie nei teatri antichi. Certo c'è sempre stato un fumetto d'autore, ma non se la tirava! Autori come Alberto Breccia o Hugo Pratt sapevano che la forza del mezzo stava nella sua capillarità a basso costo, così da essere letti da chiunque. Le edicole erano i templi del mio culto privato, dove sacrificare i risparmi nel nome della fantasia al potere. Da adulto ho visto mutare il mercato, contrarsi, subire l'ultima fiammata con l'avvento dei manga giapponesi, e poi sfinire. Non dico morire, ma invecchiare. Nelle fumetterie è più facile incontrare quarantenni, insomma, che ragazzini. Loro, e hanno ragione, giocano alla PlayStation o alla Wii; il loro immaginario si sta formando lì: più dinamico, interattivo, veloce.
Invecchiare, però, significa anche crescere in qualità, intendiamoci. Dagli anni Novanta del secolo scorso autori straordinari hanno scritto vere epopee contemporanee, di grande complessità narrativa: Neil Gaiman, Alan Moore, Frank Miller… Molta della narrativa o della fiction contemporanea, anch'essa "diventata adulta" - e parlo, per dire, di Lost - deve a questi autori più di quello che è mai stato dichiarato. In Italia la critica letteraria snobba la letteratura disegnata, per quella intrinseca alterigia della categoria, ma mi capita spesso di parlare con tono carbonaro a poeti o narratori e scoprirli come me appassionati del genere. [...] M'è tornata alla mente una miniserie, Top 10, di Alan Moore. In una ipotetica città americana tutti, ma proprio tutti, buoni, cattivi, vecchi, bambini, persino i cani, possiedono costumi e superpoteri. Uno più strampalato dell'altro. Se un superpotere, che spesso appare come una difformità fisica, ti esclude dalla normalità, cos'è una società fatta di gente tutta difforme, differente, aliena? È una società tollerante, alla fine: c'è chi si innamora e chi impazzisce, ci sono i malvagi e i difensori della legge, c'è chi lavora e chi ozia, com'è dappertutto, insomma. Una metafora pop e poetica della società multietnica, una lezione sulla diversità, che oggi in Italia andrebbe letta a scuola (quella dove mi proibivano di leggere i fumetti). Perché quelle figure che ho imparato a conoscere da bambino sono ormai condivise da tutti noi; tracimano dalle pagine dei fumetti della nostra infanzia e diventano icone del contemporaneo. Entrano nei film, nelle fotografie, nel costume. Vengono manipolate alla bisogna, portandosi dietro la purezza della loro ingenuità primigenia, come certe immagini sacre di cappelle votive di campagna [...].
Il mio mondo fantastico ha preso il volo lì, di nascosto dalle autorità scolastiche. In casa poi, dato che non c'erano libri, figlio del sottoproletariato urbano, già il fatto che leggessi avidamente quei fumetti mi faceva sembrare strano, persino un po' eccentrico, agli occhi di molti. Perché non esce, si chiedevano, perché non va a giocare a pallone? Certo, ci andavo anche, ma vuoi mettere leggere vorace la nuova avventura di Capitan America? A pensarci oggi dovrei vergognarmi, lui così repubblicano, reazionario, ma io che ne potevo sapere dell'imperialismo capitalista a sette anni? Che cosa meravigliosa era scambiare con i compagnetti gli albi della gloriosa Editoriale Corno: "Ti do il numero 10 dell'Uomo Ragno se tu mi dai il numero 5 di Devil!".
Continuare gli studi, laurearsi, diventare adulti è servito a poco. Appena mi capita un fumetto fra le mani lo sbrano. So tutto della mitologia norrena non certo grazie ai miei studi di storia medievale, ma per la lettura accanita di Thor, il dio del tuono. Che personaggio impossibile, a guardarlo bene: con quei capelli biondi, lunghi fino alle spalle, e quell'elmo da vichingo! Una vera icona gay. Ora che ci penso sono sempre stati una cosa per maschi, i fumetti. Poche ragazze, insomma, con cui parlare di Superman. Ma nel tempo un certo puritanesimo guerresco veniva frantumandosi con l'irrompere dei primi mutamenti del corpo: i peli sotto le ascelle, la voce più cavernosa, le pulsioni erotiche... Le domande fondamentali della vita cambiavano da "Secondo te è più forte Hulk o la Cosa?" a, più maliziose, "Ma Mister Fantastic, quando fa sesso con la donna invisibile, allunga anche i suoi attributi genitali?".
Grande palestra dell'immaginario, il fumetto (adoro la parola "fumetto", ce l'abbiamo solo noi italiani, la trovo addirittura poetica). Ingenuo e popolare. Le gesta di Batman o degli X-Men, per me, si svolgevano in luoghi misteriosi e lontani, proprio come erano Tebe o Sparta per gli ateniesi che purificavano il loro animo guardando le tragedie nei teatri antichi. Certo c'è sempre stato un fumetto d'autore, ma non se la tirava! Autori come Alberto Breccia o Hugo Pratt sapevano che la forza del mezzo stava nella sua capillarità a basso costo, così da essere letti da chiunque. Le edicole erano i templi del mio culto privato, dove sacrificare i risparmi nel nome della fantasia al potere. Da adulto ho visto mutare il mercato, contrarsi, subire l'ultima fiammata con l'avvento dei manga giapponesi, e poi sfinire. Non dico morire, ma invecchiare. Nelle fumetterie è più facile incontrare quarantenni, insomma, che ragazzini. Loro, e hanno ragione, giocano alla PlayStation o alla Wii; il loro immaginario si sta formando lì: più dinamico, interattivo, veloce.
Invecchiare, però, significa anche crescere in qualità, intendiamoci. Dagli anni Novanta del secolo scorso autori straordinari hanno scritto vere epopee contemporanee, di grande complessità narrativa: Neil Gaiman, Alan Moore, Frank Miller… Molta della narrativa o della fiction contemporanea, anch'essa "diventata adulta" - e parlo, per dire, di Lost - deve a questi autori più di quello che è mai stato dichiarato. In Italia la critica letteraria snobba la letteratura disegnata, per quella intrinseca alterigia della categoria, ma mi capita spesso di parlare con tono carbonaro a poeti o narratori e scoprirli come me appassionati del genere. [...] M'è tornata alla mente una miniserie, Top 10, di Alan Moore. In una ipotetica città americana tutti, ma proprio tutti, buoni, cattivi, vecchi, bambini, persino i cani, possiedono costumi e superpoteri. Uno più strampalato dell'altro. Se un superpotere, che spesso appare come una difformità fisica, ti esclude dalla normalità, cos'è una società fatta di gente tutta difforme, differente, aliena? È una società tollerante, alla fine: c'è chi si innamora e chi impazzisce, ci sono i malvagi e i difensori della legge, c'è chi lavora e chi ozia, com'è dappertutto, insomma. Una metafora pop e poetica della società multietnica, una lezione sulla diversità, che oggi in Italia andrebbe letta a scuola (quella dove mi proibivano di leggere i fumetti). Perché quelle figure che ho imparato a conoscere da bambino sono ormai condivise da tutti noi; tracimano dalle pagine dei fumetti della nostra infanzia e diventano icone del contemporaneo. Entrano nei film, nelle fotografie, nel costume. Vengono manipolate alla bisogna, portandosi dietro la purezza della loro ingenuità primigenia, come certe immagini sacre di cappelle votive di campagna [...].
domenica 5 dicembre 2010
PANNONE: DALLA STORIA D'ITALIA A UN FILM SUL VESUVIO
Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 5 dicembre 2010)
(Il Mattino - 5 dicembre 2010)
Nel futuro prossimo del documentarista Gianfranco Pannone, uno tra i migliori specialisti italiani di cinema del reale, c'è un film dedicato al Vesuvio. "S'intitolerà Sul vulcano - anticipa il regista di origini partenopee - e inizierò a girarlo l'anno prossimo, subito dopo un altro progetto sulla comunità ebraica romana". Pannone scopre le carte sul nuovo film a margine della presentazione in anteprima per Napoli e la Campania di Ma che storia…, il suo recente documentario sui primi 150 anni dell'Italia unita, proiettato venerdì sera al cinema Astra di via Mezzocannone, nell'ambito di AstraDoc, l'interessante rassegna organizzata dall'Arcimovie di Ponticelli e dal Coinor dell'Università Federico II. La serata napoletana, tra l'altro, serve al regista anche per festeggiare, alla presenza di un ospite illustre come Ugo Gregoretti, la vittoria del suo film al Festival del cinema italiano di Madrid, dove giovedì è stato premiato come miglior documentario. In precedenza, Ma che storia... aveva suscitato grande interesse durante la Mostra del Cinema di Venezia, alla quale ha partecipato nella sezione Controcampo Italiano (qui, nella foto, Pannone tra Mario Martone e Ambrogio Sparagna, a Venezia: tutti e tre in camicia rossa garibaldina).
Ma, Pannone, come nasce il suo progetto dedicato al Vesuvio?
"E' un'idea che mi affascinava da tempo e che, tra l'altro, mi permetterà di tornare a lavorare nei miei luoghi d'origine. Sto ancora riflettendo sulla struttura da dare al film, ma spero di riuscire a restituire la complessità di un luogo come il Vesuvio, che secondo i vulcanologi è il più pericoloso d'Europa. Tutto ciò anche a causa della densità abitativa dell'intera area circostante".
Vi sarà, comunque, continuità di stile e struttura con i suoi precedenti lavori?
"Penso di sì, anche perché io ho un'idea ben precisa del documentario, che definisco "creativo" per come reinventa creativamente la realtà, nei confronti della quale deve porsi in maniera orizzontale, cioè ascoltarla senza rifarsi a tesi precostituite. Anche in futuro, poi, cercherò di non mettermi mai sulla difensiva dal punto di vista stilistico, ma di realizzare film che possano stare sul mercato e rivolgersi al più ampio pubblico possibile".
Tutto ciò, nonostante in Italia gli spazi per il documentario siano davvero pochi.
"Il problema, però, è anche di chi i documentari li fa, in particolare i giovani, che in assenza di mezzi si abituano ad accontentarsi e a pensare in piccolo, rischiando così l'autismo espressivo. Per me, invece, il documentario continua a offrire maggiore libertà rispetto al cinema di fiction, anche in una situazione drammatica come quella attuale, dove è diventato difficile mettere assieme persino budget di 200mila euro".
Dopo il clamore suscitato lo scorso anno con Il sol dell'avvenire, dedicato alla nascita delle Brigate rosse, con Ma che storia… lei racconta i primi 150 anni dell'Italia unita. Come ha affrontato una materia tanto vasta e complessa?
"Con l'ausilio dei tesori visivi, in buona parte misconosciuti, conservati nell'Archivio Luce, un autentico scrigno di gemme preziose. Così, attraverso l'utilizzo di migliaia di spezzoni di cinegiornali e documentari, ho provato a confrontarmi con l'idea che gli italiani hanno della propria storia, in modo non consolatorio né vittimistico, dalla presa di Roma al terremoto dell'Irpinia, dall'epoca dei briganti a quella degli emigranti, dal fascismo al boom economico. E ho fatto interagire le immagini con una serie di brani letterari sull'identità italiana, letti da Ugo Gregoretti, Leo Gullotta, Roberto Citran e Roberto De Francesco".
Un ruolo fondamentale, però, lo ha la colonna sonora, assemblata dall'etnomusicologo Ambrogio Sparagna.
"E difficilmente sarei arrivato a questo film, se non avessi conosciuto, grazie a un prezioso complice come Ambrogio, il patrimonio musicale di tradizione orale del Paese. Sparagna, infatti, ha selezionato canti popolari, stornelli più o meno ironici, grida di dolore della povera gente, canti dei briganti, ma anche contributi di autori come Viviani, rendendo in qualche modo Ma che storia… anche un film musicale. E proprio in questo patrimonio, prevalentemente orale, ho individuato gli anticorpi veri del popolo italiano".
Ma, Pannone, come nasce il suo progetto dedicato al Vesuvio?
"E' un'idea che mi affascinava da tempo e che, tra l'altro, mi permetterà di tornare a lavorare nei miei luoghi d'origine. Sto ancora riflettendo sulla struttura da dare al film, ma spero di riuscire a restituire la complessità di un luogo come il Vesuvio, che secondo i vulcanologi è il più pericoloso d'Europa. Tutto ciò anche a causa della densità abitativa dell'intera area circostante".
Vi sarà, comunque, continuità di stile e struttura con i suoi precedenti lavori?
"Penso di sì, anche perché io ho un'idea ben precisa del documentario, che definisco "creativo" per come reinventa creativamente la realtà, nei confronti della quale deve porsi in maniera orizzontale, cioè ascoltarla senza rifarsi a tesi precostituite. Anche in futuro, poi, cercherò di non mettermi mai sulla difensiva dal punto di vista stilistico, ma di realizzare film che possano stare sul mercato e rivolgersi al più ampio pubblico possibile".
Tutto ciò, nonostante in Italia gli spazi per il documentario siano davvero pochi.
"Il problema, però, è anche di chi i documentari li fa, in particolare i giovani, che in assenza di mezzi si abituano ad accontentarsi e a pensare in piccolo, rischiando così l'autismo espressivo. Per me, invece, il documentario continua a offrire maggiore libertà rispetto al cinema di fiction, anche in una situazione drammatica come quella attuale, dove è diventato difficile mettere assieme persino budget di 200mila euro".
Dopo il clamore suscitato lo scorso anno con Il sol dell'avvenire, dedicato alla nascita delle Brigate rosse, con Ma che storia… lei racconta i primi 150 anni dell'Italia unita. Come ha affrontato una materia tanto vasta e complessa?
"Con l'ausilio dei tesori visivi, in buona parte misconosciuti, conservati nell'Archivio Luce, un autentico scrigno di gemme preziose. Così, attraverso l'utilizzo di migliaia di spezzoni di cinegiornali e documentari, ho provato a confrontarmi con l'idea che gli italiani hanno della propria storia, in modo non consolatorio né vittimistico, dalla presa di Roma al terremoto dell'Irpinia, dall'epoca dei briganti a quella degli emigranti, dal fascismo al boom economico. E ho fatto interagire le immagini con una serie di brani letterari sull'identità italiana, letti da Ugo Gregoretti, Leo Gullotta, Roberto Citran e Roberto De Francesco".
Un ruolo fondamentale, però, lo ha la colonna sonora, assemblata dall'etnomusicologo Ambrogio Sparagna.
"E difficilmente sarei arrivato a questo film, se non avessi conosciuto, grazie a un prezioso complice come Ambrogio, il patrimonio musicale di tradizione orale del Paese. Sparagna, infatti, ha selezionato canti popolari, stornelli più o meno ironici, grida di dolore della povera gente, canti dei briganti, ma anche contributi di autori come Viviani, rendendo in qualche modo Ma che storia… anche un film musicale. E proprio in questo patrimonio, prevalentemente orale, ho individuato gli anticorpi veri del popolo italiano".
sabato 4 dicembre 2010
PER MARIO MARTONE UN PREMIO ANCHE A SORRENTO
Di Diego Del Pozzo
Per chi fa film, essere visti da più pubblico possibile è cosa essenziale, soprattutto se ciò che si ha da dire riguarda la memoria storica di una Nazione. Lo sa bene Mario Martone, che alle Giornate professionali di Sorrento si mostra sinceramente soddisfatto per i numeri in sala del suo kolossal Noi credevamo, rilettura problematica e antieroica del periodo risorgimentale, ricostruito dal punto di vista di coloro che subirono tale processo, tra disillusioni e tradimenti politici ed esistenziali. "Con questa pellicola - sottolinea Martone a margine della consegna del Premio Fac per il film d'arte e cultura - pensavo francamente di poter vincere qualcosa alla Mostra di Venezia, ma mai mi sarei aspettato, invece, un tale successo di pubblico". Soprattutto dopo la prima distribuzione in sole trenta copie, verrebbe da aggiungere. "Invece, gli spettatori - prosegue il regista napoletano - hanno voluto premiare il film in maniera spontanea, spinti semplicemente da ciò che abbiamo inteso raccontare. Ormai le copie sono salite a ottanta e l'incasso è superiore agli 800mila euro, con serie prospettive di superare il muro del milione di euro già in questo week-end. Tutto ciò, nonostante la lunghezza del film e un approccio narrativamente non certo semplice". Martone, peraltro, si sta dedicando intensamente alla promozione di Noi credevamo (qui sopra, il regista in una foto scattata sul set). "In queste settimane - racconta - sto girando l'Italia e incontrando il pubblico, da Nord a Sud. E, ovunque, sto riscontrando un enorme interesse e una partecipazione sincera. Tra l'altro, continua a sorprendermi il grande successo del film da Firenze in su". Parte del merito dell'inatteso boom di Noi credevamo (qui sotto, nella foto di Pietro Coccia, il regista Mario Martone con me e col collega e amico Renato Rizzardi) va agli esercenti che lo hanno sostenuto con convinzione. E proprio ai gestori delle sale sono riservati gli ultimi premi consegnati ieri a Sorrento, durante la giornata conclusiva della kermesse. E, tra le strutture premiate con i Biglietti d'oro dell'Anec per aver totalizzato il maggior numero di presenze, ve ne sono anche due situate in Campania: il Med The Space cinema di Napoli tra i multiplex con almeno otto schermi e l'Armida di Sorrento tra le monosale delle località con meno di 50mila abitanti. Erano diversi anni che due cinema campani non entravano nella rosa dei quindici vincitori.
Tra i film della prossima stagione cinematografica presentati, col trailer, nel corso dell'ultima giornata va registrato il forte apprezzamento degli esercenti nei confronti di Cose dell'altro mondo, diretto dal napoletano Francesco Patierno e distribuito da Medusa. La pellicola, presentata direttamente dal vicepresidente e amministratore delegato Gianpaolo Letta, si pone una domanda paradossale per far riflettere sul tema del razzismo: cosa succederebbe se una mattina, di punto in bianco, tutti gli extracomunitari svanissero dall'Italia? "Accade proprio questo - racconta Patierno - nel piccolo paesino del Veneto nel quale abbiamo ambientato la vicenda. E a scatenare lo strano evento è l'anatema di un industrialotto locale interpretato da Diego Abatantuono. Con lui, compongono il tris di protagonisti Valerio Mastandrea e Valentina Lodovini. Da parte mia, ho provato a realizzare una commedia di costume che fosse non convenzionale e che, in un contesto realistico, ruotasse attorno a uno spunto assolutamente surreale". Del film s'è molto parlato qualche mese fa, quando il sindaco leghista di Treviso, Gian Paolo Gobbi, sfrattò la produzione tra le polemiche, costringendola a "emigrare" nella vicina Bassano. "Ma non mi va - conclude il regista - di ritornare su quello spiacevole episodio. Diciamo che all'epoca ha fatto parecchia pubblicità al nostro film".
Tra i film della prossima stagione cinematografica presentati, col trailer, nel corso dell'ultima giornata va registrato il forte apprezzamento degli esercenti nei confronti di Cose dell'altro mondo, diretto dal napoletano Francesco Patierno e distribuito da Medusa. La pellicola, presentata direttamente dal vicepresidente e amministratore delegato Gianpaolo Letta, si pone una domanda paradossale per far riflettere sul tema del razzismo: cosa succederebbe se una mattina, di punto in bianco, tutti gli extracomunitari svanissero dall'Italia? "Accade proprio questo - racconta Patierno - nel piccolo paesino del Veneto nel quale abbiamo ambientato la vicenda. E a scatenare lo strano evento è l'anatema di un industrialotto locale interpretato da Diego Abatantuono. Con lui, compongono il tris di protagonisti Valerio Mastandrea e Valentina Lodovini. Da parte mia, ho provato a realizzare una commedia di costume che fosse non convenzionale e che, in un contesto realistico, ruotasse attorno a uno spunto assolutamente surreale". Del film s'è molto parlato qualche mese fa, quando il sindaco leghista di Treviso, Gian Paolo Gobbi, sfrattò la produzione tra le polemiche, costringendola a "emigrare" nella vicina Bassano. "Ma non mi va - conclude il regista - di ritornare su quello spiacevole episodio. Diciamo che all'epoca ha fatto parecchia pubblicità al nostro film".
giovedì 2 dicembre 2010
A SORRENTO IL NUOVO CAMERON E TOTO' IN 3D
Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 2 dicembre 2010)
(Il Mattino - 2 dicembre 2010)
Il 3D è il vero vincitore della trentatreesima edizione delle Giornate professionali di cinema, che ieri sera a Sorrento ha visto premiato il kolossal cameroniano Avatar (tridimensionale, appunto) come miglior incasso della stagione davanti a Benvenuti al Sud e Alice in Wonderland (anch'esso in 3D), ma che, soprattutto, ha detto con chiarezza come il cinema del futuro prossimo sia destinato a sfruttare in maniera sempre più massiccia i nuovi ritrovati delle tecnologie digitali. Basti pensare a come almeno un terzo delle centinaia di trailer proiettati in questi giorni all'Hilton Sorrento Palace anticipino film realizzati in 3D. E, a ulteriore conferma, basti il clamore suscitato ieri dalla presentazione di tre progetti cinematografici, due italiani e uno hollywoodiano, previsti per la nuova stagione cinematografica e destinati, ciascuno a modo suo, a proporre un ulteriore avanzamento nella corsa continua verso il cinema del futuro.
Quando si parla di futuro, il primo cineasta che balza alla mente è James Cameron, che dopo il tecnologicamente epocale Avatar sceglie proprio Sorrento per presentare, attraverso un video registrato per le Giornate professionali, il suo nuovo gioiellino in 3D, Sanctum, da lui concepito e prodotto per la regia di uno specialista di riprese subacquee e sotterranee come Alister Grierson: "Stavolta, ho applicato la tecnologia 3D - sottolinea il regista di origini canadesi - a un'ambientazione realistica: quella delle grotte e delle profondità sottomarine, per dimostrare che si posso creare effetti tridimensionali sbalorditivi anche senza andare sul pianeta Pandora. Inoltre, ho voluto esplorare il rapporto padre-figlio, i due speleologici protagonisti, come non avevo mai fatto in precedenza. Sanctum, tra l'altro, si avvale delle stesse tecnologie e delle medesime cineprese che ho utilizzato per Avatar, ma il contesto realistico rende tutto ancora più impressionante. Sono certo che gli appassionati non resteranno delusi da questo thriller ambientato in scenari straordinari e spaventosi come quelli offerti dalle profondità terrestri e marine". Il film sarà distribuito a febbraio dalla Eagle Pictures.
Il colpo di teatro della giornata, però, lo riserva Aurelio De Laurentiis, che apre la convention Filmauro con l'anteprima dei primi dieci minuti di Totò in 3D, ovvero Il più comico spettacolo del mondo, la pellicola ambientata nel mondo del circo diretta da Mario Mattoli nel 1953 e sceneggiata, tra gli altri, anche da Mario Monicelli. "Non sapevo nemmeno - racconta De Laurentiis - che questo film fosse stato girato in 3D. L'ho scoperto quando abbiamo iniziato a restaurarlo e, devo dire, sono rimasto sorpreso dalla modernità di certe soluzioni visive, che utilizzano al meglio, già nel 1953, le potenzialità della messa in scena tridimensionale". La visione entusiasma la platea degli esercenti, che evidentemente percepiscono le potenzialità commerciali della pellicola nella quale Totò recita nel costume del clown Tottons. "Il film - prosegue De Laurentiis - era in condizioni disastrose, ma il nostro restauro lo sta riportando a nuovo splendore. Saremo pronti per settembre del prossimo anno, poi lo presenteremo alla Festa di Roma e usciremo in sala subito dopo, anche se Totò 3D potrebbe essere perfetto pure per un'uscita natalizia". Il secondo progetto 3D italiano presentato ieri a Sorrento è il thriller Parking Lot, di Francesco Gasperoni, quarantaduenne studioso di fisica, che ha inventato e brevettato il nuovo sistema di ripresa tridimensionale 3Demon, utilizzato per il suo lavoro, scritto e interpretato da Harriet MacMasters-Green. "Il 3D non è costoso, ma soltanto complicato", spiega il regista. "Il mio sistema - prosegue - l'ho perfezionato usando persino costruzioni Lego e investendo poco più di 500 euro. In un mese, poi, ho fatto tutto il resto, miniaturizzando macchine che adesso esistono e funzionano. Per girare il film ho impiegato quattro settimane e, anche se per ora non abbiamo ancora distribuzione italiana, abbiamo destato grande interesse all'estero".
Quando si parla di futuro, il primo cineasta che balza alla mente è James Cameron, che dopo il tecnologicamente epocale Avatar sceglie proprio Sorrento per presentare, attraverso un video registrato per le Giornate professionali, il suo nuovo gioiellino in 3D, Sanctum, da lui concepito e prodotto per la regia di uno specialista di riprese subacquee e sotterranee come Alister Grierson: "Stavolta, ho applicato la tecnologia 3D - sottolinea il regista di origini canadesi - a un'ambientazione realistica: quella delle grotte e delle profondità sottomarine, per dimostrare che si posso creare effetti tridimensionali sbalorditivi anche senza andare sul pianeta Pandora. Inoltre, ho voluto esplorare il rapporto padre-figlio, i due speleologici protagonisti, come non avevo mai fatto in precedenza. Sanctum, tra l'altro, si avvale delle stesse tecnologie e delle medesime cineprese che ho utilizzato per Avatar, ma il contesto realistico rende tutto ancora più impressionante. Sono certo che gli appassionati non resteranno delusi da questo thriller ambientato in scenari straordinari e spaventosi come quelli offerti dalle profondità terrestri e marine". Il film sarà distribuito a febbraio dalla Eagle Pictures.
Il colpo di teatro della giornata, però, lo riserva Aurelio De Laurentiis, che apre la convention Filmauro con l'anteprima dei primi dieci minuti di Totò in 3D, ovvero Il più comico spettacolo del mondo, la pellicola ambientata nel mondo del circo diretta da Mario Mattoli nel 1953 e sceneggiata, tra gli altri, anche da Mario Monicelli. "Non sapevo nemmeno - racconta De Laurentiis - che questo film fosse stato girato in 3D. L'ho scoperto quando abbiamo iniziato a restaurarlo e, devo dire, sono rimasto sorpreso dalla modernità di certe soluzioni visive, che utilizzano al meglio, già nel 1953, le potenzialità della messa in scena tridimensionale". La visione entusiasma la platea degli esercenti, che evidentemente percepiscono le potenzialità commerciali della pellicola nella quale Totò recita nel costume del clown Tottons. "Il film - prosegue De Laurentiis - era in condizioni disastrose, ma il nostro restauro lo sta riportando a nuovo splendore. Saremo pronti per settembre del prossimo anno, poi lo presenteremo alla Festa di Roma e usciremo in sala subito dopo, anche se Totò 3D potrebbe essere perfetto pure per un'uscita natalizia". Il secondo progetto 3D italiano presentato ieri a Sorrento è il thriller Parking Lot, di Francesco Gasperoni, quarantaduenne studioso di fisica, che ha inventato e brevettato il nuovo sistema di ripresa tridimensionale 3Demon, utilizzato per il suo lavoro, scritto e interpretato da Harriet MacMasters-Green. "Il 3D non è costoso, ma soltanto complicato", spiega il regista. "Il mio sistema - prosegue - l'ho perfezionato usando persino costruzioni Lego e investendo poco più di 500 euro. In un mese, poi, ho fatto tutto il resto, miniaturizzando macchine che adesso esistono e funzionano. Per girare il film ho impiegato quattro settimane e, anche se per ora non abbiamo ancora distribuzione italiana, abbiamo destato grande interesse all'estero".
mercoledì 1 dicembre 2010
MONICELLI: IL "DIRECTOR'S CUT" E' DEL REGISTA
Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 30 novembre 2010)
(Il Mattino - 30 novembre 2010)
Mario Monicelli si è ucciso, buttandosi giù dal quinto piano del reparto di urologia dell'ospedale San Giovanni di Roma, dov'era ricoverato da domenica per un tumore alla prostata. Erano le 21 di ieri, poco dopo essersi sottoposto alla terapia, quando il regista, 95 anni, padre della commedia all'italiana, si è lanciato nel vuoto. Il corpo del cineasta è stato trovato dagli addetti sanitari a terra, disteso nei viali vicino alle aiuole, a pochi metri dal pronto soccorso. È stato subito riparato dalla pioggia con una lunga busta bianca, mentre sopra, in alto, a una decina di metri di altezza, una luce segnalava il balcone dal quale Monicelli si era lanciato giù. Subito in ospedale sono giunti l'ultima compagna Chiara Rapaccini (si erano conosciuti quando lui aveva 59 anni e lei 19, hanno avuto la figlia Rosa, quando lei ne aveva 34 e lui 74) e i familiari. Inutile è stata la ricerca di qualche messaggio di addio, perché Monicelli non ha lasciato nessun biglietto nella sua stanza a spiegazione del drammatico gesto.
Nelle case degli italiani la notizia è arrivata con Fabio Fazio, che ha interrotto l'ultima puntata di Vieni via con me su Raitre: "Non posso andare avanti, devo dirvi che è morto Mario Monicelli. Lo avremmo tanto voluto qui, ma era malato e adesso non c'è più", ha detto il conduttore, visibilmente commosso. Poi, nel gioco a due con Roberto Saviano "Resto perché/Vado via perché", di nuovo un ricordo del regista: "Resto perché voglio rivedere tanti film di Monicelli", ha detto Fazio, elencando tutti i titoli più celebri, da I soliti ignoti a La grande guerra, da L'armata Brancaleone a Speriamo che sia femmina, da Il marchese del grillo a Parenti serpenti. "Quello che è successo mi ha lasciato estremamente basito", ha commentato a caldo Aurelio De Laurentiis: "Io che lo conoscevo profondamente e sapevo della sua grande dignità e del suo desiderio di essere sempre indipendente e autonomo, posso capire questo gesto. Ultimamente aveva perso anche la vista ma fino all'ultimo era stato capace di una deambulazione perfetta. Insomma, una persona sana che non tollerava l'idea di poter dipendere da qualcuno", ha commentato il produttore, che ha firmato tanti dei film di Monicelli, da Un borghese piccolo piccolo ad Amici miei. "Ultimamente aveva perso molti punti di riferimento con la morte, per esempio, di Pinelli e Suso Cecchi d'Amico", ha continuato De Laurentiis, cercando di spiegarsi i motivi della scelta dell'anziano maestro, piegato dalla malattia nel fisico, mai nel morale, almeno mai sino al punto di perdere il gusto per la battuta salace, anzi feroce. Almeno sino a ieri, quando si è ucciso come il padre, ponendo fine a una vita che gli sembrava non più degna di essere vissuta.
Era favorevole all'eutanasia, il regista. Per lui quello dell'eutanasia era "un tema che si potrebbe benissimo trattare come una commedia all'italiana, ironizzando e mettendo in ridicolo quelli che pensano che un disgraziato debba rimanere lì a soffrire, per grazia di non si sa chi, per la deontologia del medico, o per chissà cosa altro". Ne aveva parlato anche in tv a Le Iene e a Radio Radicale: "La commedia non è mai stata violentissima contro la Chiesa e, anzi, ha sempre raccontato i preti come persone con le quali si potesse convivere, poiché nessun sacerdote è stato terribilmente prono alle regole della sua confessione, della quale magari ha rotto i digiuni commettendo anche peccati carnali. Dunque, perché dovrebbe esserci un Dio così terribile da non concedere il perdono? Perciò, noi ci si fida di questo assunto e si fa come si vuole".
"Non so che cosa si dirà domani di quello che è successo, ma una cosa va detta", ha commentato commosso il regista Giovanni Veronesi: "Non ho mai sentito nessuno che si suicida a 95 anni. Era davvero speciale".
Nelle case degli italiani la notizia è arrivata con Fabio Fazio, che ha interrotto l'ultima puntata di Vieni via con me su Raitre: "Non posso andare avanti, devo dirvi che è morto Mario Monicelli. Lo avremmo tanto voluto qui, ma era malato e adesso non c'è più", ha detto il conduttore, visibilmente commosso. Poi, nel gioco a due con Roberto Saviano "Resto perché/Vado via perché", di nuovo un ricordo del regista: "Resto perché voglio rivedere tanti film di Monicelli", ha detto Fazio, elencando tutti i titoli più celebri, da I soliti ignoti a La grande guerra, da L'armata Brancaleone a Speriamo che sia femmina, da Il marchese del grillo a Parenti serpenti. "Quello che è successo mi ha lasciato estremamente basito", ha commentato a caldo Aurelio De Laurentiis: "Io che lo conoscevo profondamente e sapevo della sua grande dignità e del suo desiderio di essere sempre indipendente e autonomo, posso capire questo gesto. Ultimamente aveva perso anche la vista ma fino all'ultimo era stato capace di una deambulazione perfetta. Insomma, una persona sana che non tollerava l'idea di poter dipendere da qualcuno", ha commentato il produttore, che ha firmato tanti dei film di Monicelli, da Un borghese piccolo piccolo ad Amici miei. "Ultimamente aveva perso molti punti di riferimento con la morte, per esempio, di Pinelli e Suso Cecchi d'Amico", ha continuato De Laurentiis, cercando di spiegarsi i motivi della scelta dell'anziano maestro, piegato dalla malattia nel fisico, mai nel morale, almeno mai sino al punto di perdere il gusto per la battuta salace, anzi feroce. Almeno sino a ieri, quando si è ucciso come il padre, ponendo fine a una vita che gli sembrava non più degna di essere vissuta.
Era favorevole all'eutanasia, il regista. Per lui quello dell'eutanasia era "un tema che si potrebbe benissimo trattare come una commedia all'italiana, ironizzando e mettendo in ridicolo quelli che pensano che un disgraziato debba rimanere lì a soffrire, per grazia di non si sa chi, per la deontologia del medico, o per chissà cosa altro". Ne aveva parlato anche in tv a Le Iene e a Radio Radicale: "La commedia non è mai stata violentissima contro la Chiesa e, anzi, ha sempre raccontato i preti come persone con le quali si potesse convivere, poiché nessun sacerdote è stato terribilmente prono alle regole della sua confessione, della quale magari ha rotto i digiuni commettendo anche peccati carnali. Dunque, perché dovrebbe esserci un Dio così terribile da non concedere il perdono? Perciò, noi ci si fida di questo assunto e si fa come si vuole".
"Non so che cosa si dirà domani di quello che è successo, ma una cosa va detta", ha commentato commosso il regista Giovanni Veronesi: "Non ho mai sentito nessuno che si suicida a 95 anni. Era davvero speciale".
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