lunedì 6 dicembre 2010

LO SCRITTORE GIANNI BIONDILLO E I SUOI SUPEREROI

Di Gianni Biondillo
(Io Donna - 4/10 dicembre 2010)

Ognuno ha l'immaginario che si merita. O forse, più semplicemente, quello che si è trovato fra i piedi. Fossi cresciuto in un'altra epoca, chissà, avrei eroi differenti, mitologie più auliche, referenti più alti. Io sotto i banchi di scuola, alle elementari, non nascondevo dallo sguardo accigliato della mia maestra libelli rivoluzionari o romanzi magniloquenti ma i fumetti sgualciti dei supereroi americani. I giornaletti, li chiamava la maestra, spregiativa.
Il mio mondo fantastico ha preso il volo lì, di nascosto dalle autorità scolastiche. In casa poi, dato che non c'erano libri, figlio del sottoproletariato urbano, già il fatto che leggessi avidamente quei fumetti mi faceva sembrare strano, persino un po' eccentrico, agli occhi di molti. Perché non esce, si chiedevano, perché non va a giocare a pallone? Certo, ci andavo anche, ma vuoi mettere leggere vorace la nuova avventura di Capitan America? A pensarci oggi dovrei vergognarmi, lui così repubblicano, reazionario, ma io che ne potevo sapere dell'imperialismo capitalista a sette anni? Che cosa meravigliosa era scambiare con i compagnetti gli albi della gloriosa Editoriale Corno: "Ti do il numero 10 dell'Uomo Ragno se tu mi dai il numero 5 di Devil!".
Continuare gli studi, laurearsi, diventare adulti è servito a poco. Appena mi capita un fumetto fra le mani lo sbrano. So tutto della mitologia norrena non certo grazie ai miei studi di storia medievale, ma per la lettura accanita di Thor, il dio del tuono. Che personaggio impossibile, a guardarlo bene: con quei capelli biondi, lunghi fino alle spalle, e quell'elmo da vichingo! Una vera icona gay. Ora che ci penso sono sempre stati una cosa per maschi, i fumetti. Poche ragazze, insomma, con cui parlare di Superman. Ma nel tempo un certo puritanesimo guerresco veniva frantumandosi con l'irrompere dei primi mutamenti del corpo: i peli sotto le ascelle, la voce più cavernosa, le pulsioni erotiche... Le domande fondamentali della vita cambiavano da "Secondo te è più forte Hulk o la Cosa?" a, più maliziose, "Ma Mister Fantastic, quando fa sesso con la donna invisibile, allunga anche i suoi attributi genitali?".
Grande palestra dell'immaginario, il fumetto (adoro la parola "fumetto", ce l'abbiamo solo noi italiani, la trovo addirittura poetica). Ingenuo e popolare. Le gesta di Batman o degli X-Men, per me, si svolgevano in luoghi misteriosi e lontani, proprio come erano Tebe o Sparta per gli ateniesi che purificavano il loro animo guardando le tragedie nei teatri antichi. Certo c'è sempre stato un fumetto d'autore, ma non se la tirava! Autori come Alberto Breccia o Hugo Pratt sapevano che la forza del mezzo stava nella sua capillarità a basso costo, così da essere letti da chiunque. Le edicole erano i templi del mio culto privato, dove sacrificare i risparmi nel nome della fantasia al potere. Da adulto ho visto mutare il mercato, contrarsi, subire l'ultima fiammata con l'avvento dei manga giapponesi, e poi sfinire. Non dico morire, ma invecchiare. Nelle fumetterie è più facile incontrare quarantenni, insomma, che ragazzini. Loro, e hanno ragione, giocano alla PlayStation o alla Wii; il loro immaginario si sta formando lì: più dinamico, interattivo, veloce.
Invecchiare, però, significa anche crescere in qualità, intendiamoci. Dagli anni Novanta del secolo scorso autori straordinari hanno scritto vere epopee contemporanee, di grande complessità narrativa: Neil Gaiman, Alan Moore, Frank Miller… Molta della narrativa o della fiction contemporanea, anch'essa "diventata adulta" - e parlo, per dire, di Lost - deve a questi autori più di quello che è mai stato dichiarato. In Italia la critica letteraria snobba la letteratura disegnata, per quella intrinseca alterigia della categoria, ma mi capita spesso di parlare con tono carbonaro a poeti o narratori e scoprirli come me appassionati del genere. [...] M'è tornata alla mente una miniserie, Top 10, di Alan Moore. In una ipotetica città americana tutti, ma proprio tutti, buoni, cattivi, vecchi, bambini, persino i cani, possiedono costumi e superpoteri. Uno più strampalato dell'altro. Se un superpotere, che spesso appare come una difformità fisica, ti esclude dalla normalità, cos'è una società fatta di gente tutta difforme, differente, aliena? È una società tollerante, alla fine: c'è chi si innamora e chi impazzisce, ci sono i malvagi e i difensori della legge, c'è chi lavora e chi ozia, com'è dappertutto, insomma. Una metafora pop e poetica della società multietnica, una lezione sulla diversità, che oggi in Italia andrebbe letta a scuola (quella dove mi proibivano di leggere i fumetti). Perché quelle figure che ho imparato a conoscere da bambino sono ormai condivise da tutti noi; tracimano dalle pagine dei fumetti della nostra infanzia e diventano icone del contemporaneo. Entrano nei film, nelle fotografie, nel costume. Vengono manipolate alla bisogna, portandosi dietro la purezza della loro ingenuità primigenia, come certe immagini sacre di cappelle votive di campagna [...].

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