sabato 23 novembre 2019

L'INDUSTRIA DEI COMICS HA SPEZZATO IL CUORE DI ALAN MOORE!

Alan Moore
Di Diego Del Pozzo

C'è questo interessantissimo e tristissimo articolo tratto da Bleeding Cool (e segnalatomi dall'amico
Raffaele De Fazio) che rimette nella giusta prospettiva l'avversione totale di Alan Moore verso l'industria dei comics e le sue frequenti dichiarazioni contro, per esempio, le trasposizioni delle sue opere in altri media.
Nell'articolo, l'autore Rich Johnston riporta una serie di tweet di due giorni fa scritti da Leah Moore, la figlia del creatore di Watchmen e V for Vendetta. E Leah, con toni francamente struggenti e con un utilizzo ripetuto del verbo "to break" (rompere, spezzare; ma anche rompersi, spezzarsi) fa emergere il quadro di un innamorato distrutto nel proprio animo (oltre che di un uomo molto diverso dall'immagine cupa che ne danno comunemente i media).
Ma Leah Moore, soprattutto, lascia i lettori con un'unica, sconvolgente domanda-riflessione: se il cuore di Alan Moore non fosse stato distrutto da quella stessa industria alla quale lui aveva dato tutto, probabilmente oggi non avremmo avuto film e serie tv tratti dalle sue opere, ma al tempo stesso avremmo potuto leggere altri trent'anni e oltre (perché di questo stiamo parlando, di quasi quattro decenni) di storie dei supereroi di Marvel e DC Comics scritte da quello stesso autore che a metà anni Ottanta rinnovò per sempre quel particolare genere narrativo e lo rese adulto senza per questo farne sparire la magia.
Mi chiedo, allora (ma la domanda è chiaramente retorica): ne è davvero valsa la pena?

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martedì 12 novembre 2019

CIRO DI MARZIO È VIVO! E "GOMORRA" DIVENTA TRANSMEDIALE

Di Diego Del Pozzo

Che Ciro Di Marzio sarebbe sopravvissuto alla sua presunta morte di fine terza stagione lo dissi immediatamente dopo quell'indimenticabile sequenza di Gomorra - La serie. E l'ho ribadito più volte nel corso dei mesi (nonostante la sua assenza nel corso della quarta annata), perché ero convinto che gli autori non si sarebbero lasciati sfuggire l'opportunità di coinvolgere anche l'iconico personaggio interpretato da Marco D'Amore nello showdown conclusivo della serie, fianco a fianco con l'amico di sempre Genny Savastano di Salvatore Esposito. D'altra parte, la quinta stagione dovrebbe essere l'ultima e, come tale, dovrebbe portare a compimento tutte le trame della più importante serie di genere crime mai realizzata in Italia. E, per farlo degnamente, Ciro e Genny dovranno necessariamente essere in scena!
Oggi, il nuovo trailer del lungometraggio d'esordio di D'Amore come regista, l'attesissimo L'Immortale (nei cinema italiani dal 5 dicembre, distribuito da Vision), ufficializza la questione: Ciro Di Marzio è vivo e, dopo un anno o poco più trascorso in Lettonia a rimettersi in sesto e riacquistare potere criminale, è pronto a dire la sua durante la quinta stagione di Gomorra - La serie.
La cosa davvero interessante di questa operazione filmica, però, è un'altra. Il ritorno dell'Immortale anche nel presente e non soltanto nel passato, infatti, fa del film a tutti gli effetti un episodio extralarge ed extralusso della serie tv, un "ponte" ideale tra quarta e quinta stagione sviluppato secondo le tecniche del transmedia storytelling come mai era stato fatto prima in Italia; e come poche altre volte, a questi livelli, è stato tentato finora anche a livello internazionale (mi vengono in mente alcuni intrecci transmediali tra una serie come Marvel's Agents of S.H.I.E.L.D. e film come The Avengers o Captain America: The Winter Soldier all'interno del Marvel Cinematic Universe), certamente con esiti drammaturgici ben distanti da quelli che dovrebbero scaturire dall'incrocio tra L'Immortale e Gomorra - La serie, che a questo punto possiamo iniziare a considerare come tasselli di un più ampio e crossmediale "Gomorra Cinematic Universe", pronto magari per essere sviluppato in futuro in direzioni oggi ancora non preventivabili, anche dopo la conclusione della serie-madre.
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sabato 9 novembre 2019

LA CINETECA DI BOLOGNA RICORDA FRANCO LA POLLA (E ANCHE IO)

Di Diego Del Pozzo

Che bella, la rassegna organizzata in questi giorni (fino a venerdì 15) dalla Cineteca di Bologna per ricordare il grande Franco La Polla!
Sono trascorsi ormai più di dieci anni da una scomparsa decisamente prematura, che ha lasciato un vuoto enorme nella cultura (non soltanto cinematografica) italiana.
La grandezza dello studioso non ha bisogno di troppe parole. L'unicità del personaggio, anche dal punto di vista umano, invece può essere ben testimoniata anche dallo strano modo nel quale lo conobbi personalmente, dopo essermi formato (direi innamorato) da studente di Storia del cinema sui suoi libri.
Nella primavera del 1997, ormai laureato già da un po' e collaboratore della cattedra di Storia del cinema dell'Orientale di Napoli, stavo lavorando all'organizzazione di una lunga rassegna cinematografica all'aperto (Strange Days, Strange Nights) che si sarebbe poi tenuta nei mesi di luglio e agosto nel parco pubblico di Aversa, cittadina in provincia di Caserta. Tra i film che avevo scelto c'era anche Star Trek: First Contact, al quale intendevo dedicare una serata a tema ben oltre la semplice proiezione. Così, attraverso l'amico comune Andrea Plazzi, contattai Franco e lo invitai per presentare il fantastico libro che aveva pubblicato l'anno prima proprio per la casa editrice di Andrea, la mitica PuntoZero di Bologna (il libro, ovviamente, è Star Trek - Foto di gruppo con astronave). Lui accettò subito e, quando giungemmo al giorno della proiezione e al suo arrivo in treno ad Aversa, non si scompose minimamente, nonostante il mio imbarazzo, di fronte all'austera sistemazione nell'alberghetto a tre stelle nei pressi della stazione ferroviaria (all'epoca, l'unico della cittadina normanna). La serata fu memorabile, con questo grande studioso che presentò da par suo il libro e il film di fronte a una rumorosa platea da arena all'aperto (c'erano almeno 600-700 persone, ansiose di vedere il film ma rapite dal suo eloquio!), divertendosi molto perché per tutto il tempo gli fecero da cornice scenografica i membri dello STIC (lo Star Trek Italian Club) rigorosamente in divisa ufficiale della Flotta Stellare.
Dopo quell'incontro, con Franco nacque una bella, sincera e disinteressata frequentazione amicale, portata avanti negli anni soprattutto via email e rinsaldata da periodiche chiacchierate di persona durante festival e iniziative cine-culturali in giro per l'Italia. Nel 2002, poi, ebbi da lui il gigantesco onore di avere la sua prefazione - semplicemente meravigliosa, nei toni e nel contenuto - per aprire il mio libro sulle serie tv, Ai confini della realtà. Cinquant'anni di telefilm americani. E, a conferma del suo spessore umano, Franco accompagnò il testo con alcuni preziosi consigli più privati, che ancora conservo nella mia memoria.
La scomparsa di Franco La Polla nel 2009 è stata davvero un bruttissimo colpo per la comunità degli studiosi di cinema e audiovisivo, perché - come ha opportunamente sottolineato qualche giorno fa Roy Menarini in un suo ricordo qui su Facebook - al di là della grandezza e unicità dell'uomo da un esegeta raffinato e colto come lui in questi anni ci sarebbero arrivate certamente tante altre analisi e intuizioni originali e inattese sul panorama in continua mutazione dei media audiovisivi; analisi che, invece, ci sono state purtroppo negate.
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Qui, ecco la breve descrizione-introduzione della rassegna bolognese, dal sito della Cineteca: "Dieci anni fa scompariva Franco La Polla, professore americanista, critico cinematografico, storico del cinema hollywoodiano, per diverse generazioni una luce guida nella scoperta del cinema degli Stati Uniti. La passione americana di La Polla era un’autentica passione culturale e sentimentale, sostenuta sempre dall’analisi critica e dall’ironia, per questo così contagiosa e di lunga eco. La breve rassegna, che vuole servire anche come invito a rileggere i suoi scritti, offre incursioni nella Hollywood classica, nel musical, nel new american cinema, con in più un omaggio al prediletto Truffaut" (http://www.cinetecadibologna.it/lapolla2019).
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sabato 5 ottobre 2019

GRAPHIC JOURNALISM: RIZZO & BONACCORSO "... A CASA NOSTRA"

Di Diego Del Pozzo
Nell’ambito della manifestazione “Ricomincio dai libri”, alle 18 alla fondazione FoQus nei Quartieri spagnoli di Napoli, lo sceneggiatore Marco Rizzo presenta assieme a Laura Marmorale e Paquito Catanzaro il suo nuovo, notevole graphic novel … A casa nostra – Cronaca da Riace, scritto da lui e disegnato da Lelio Bonaccorso per Feltrinelli Comics (112 pagine a colori, 16 euro).
In questo seguito ideale del loro precedente lavoro, Salvezza, Rizzo e Bonaccorso tornano a raccontare storie di migranti e immigrati in fuga dall’Africa verso l’Italia. Ma stavolta, la loro inchiesta a fumetti (perché … A casa nostra – Cronaca da Riace è un ottimo esempio di graphic journalism) lascia la nave Aquarius e il mar Mediterraneo per approdare in Calabria, una tra le regioni italiane meridionali dove più drammatica è l’assenza di futuro per i suoi giovani e, al tempo stesso, più vivace è la rete dell’accoglienza verso chi arriva in Italia alla ricerca della salvezza o di un’esistenza migliore.
Gli autori, con un’intervista a Mimmo Lucano e le testimonianze di migranti e operatori, ricostruiscono così vicende di successi e tragedie, incubi burocratici e orrori quotidiani, concentrandosi in particolare su tre esempi di accoglienza “all’italiana”: quel “modello Riace” ormai smantellato, il caso virtuoso di Gioiosa Ionica e il buco nero dei diritti della baraccopoli di San Ferdinando a due passi da Rosarno.
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sabato 28 settembre 2019

"FRIENDS" COMPIE 25 ANNI (DAL MIO LIBRO DEL 2002)

Qui sotto riporto il paragrafo che nel 2002 dedicai a Friends nel mio libro Ai confini della realtà. Cinquant'anni di telefilm americani, edito da Lindau. Con la riproposizione di questo testo, celebro anch'io i venticinque anni dalla prima messa in onda della serie che, lo ricordo a chi legge, all'epoca dell'uscita del libro era ancora in programmazione. Buona lettura!
(d.d.p.)

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La definitiva dissoluzione della famiglia: Friends
Di Diego Del Pozzo
(tratto da Ai confini della realtà. Cinquant'anni di telefilm americani, Lindau, 2002 - Pagg. 177-180)
Stati Uniti, anni ’90: la famiglia tradizionale, in pratica, non esiste più. Il tessuto sociale sempre più disgregato ha la sua prima «vittima» proprio nel nucleo che – nella percezione comune – ne rappresenterebbe il punto di partenza e il fine ultimo: quello familiare costituito da padre, madre, figli, magari simpatici animaletti. Record di divorzi, figli sempre prima fuori dalle mura domestiche per studiare oppure (provare a) lavorare, intere vite da single coerenti con la scelta di privilegiare le carriere rispetto agli affetti, unioni omosessuali e «famiglie di fatto» provocano una mutazione completa nella percezione stessa dell’istituzione che, dai tempi dei padri fondatori al secondo dopoguerra, si credeva inattaccabile.
Anticipato, per certi versi, dall’ottima serie di Marshall Herskovitz e Edward Zwick Thirty Something (id., 1987), il programma televisivo che meglio fotografa tale situazione è, naturalmente, una sit-com, genere «casalingo» per eccellenza: si tratta di Friends (id., 1994), creato da David Crane e Marta Kauffman, prodotto dalla Warner Bros. per la NBC, che lo trasmette a partire dal 22 settembre 1994. È fin dall’inizio un grande successo di critica e, soprattutto, di pubblico, a dimostrazione di quanto lo show sia ben inserito nel proprio tempo. Attualmente, addirittura, l’audience media per ogni episodio si aggira sui 25 milioni di spettatori e fa entrare Friends regolarmente nella «Top Five» dei programmi più visti degli Stati Uniti.
Al centro del telefilm c’è, appunto, una famiglia allargata in perfetto stile anni ’90. La compongono i sei giovani protagonisti: la cameriera bionda Rachel Karen Green (interpretata da Jennifer Aniston), il nevrotico paleontologo divorziato Ross Geller (David Schwimmer), la sua maniacale sorella cuoca (nonché coinquilina di Rachel) Monica Velula Geller (Courteney Cox), la svampita e bizzarra cantautrice «new age» Phoebe Buffay (Lisa Kudrow), il simpatico Chandler Bing (Matthew Perry) con problemi nei confronti dell’altro sesso e il suo belloccio coinquilino aspirante attore Joey Tribbiani (Matt LeBlanc). I ragazzi, trentenni, vivono a New York, nella zona del Village, dove si trovano, l’uno di fronte all’altro, l’appartamento di Rachel e Monica e quello di Joey e Chandler, ma anche il ritrovo abituale del gruppo: il Central Perk, il locale dove si esibisce Phoebe e il cui stesso nome è fonte di divertenti giochi di parole.
Friends ridà nuova linfa al genere sit-com e ne detta le regole per l’immediato futuro, nell’unico modo ormai possibile: giocando col pluridecennale passato della commedia televisiva, con i suoi cliché e «tipi» ormai entrati nella quotidianità degli spettatori. «Amori, amicizie, lavoro, rapporti con i genitori, omosessualità vengono presentati a un pubblico smaliziato con la tecnica del sottotesto esplicito, cioè mettendo in evidenza i meccanismi e giocando con i generi frequentati» (Andrea Bordoni, Matteo Marino, Tutto quello che avreste voluto sapere su… Friends, Lindau, Torino 2000, p. 9.). È così che le tematiche classiche della sit-com, quella della famiglia in primis, vengono rielaborate all’insegna della contemporaneità. Quindi, diventa normale lo spostamento di fuoco, evidentissimo fin da un titolo che «testimonia l’affermarsi della tendenza di mettere in primo piano le famiglie clan, gruppi di amici solidali che si sostengono e si consigliano nei momenti di bisogno, dividendo gioie e problemi» (Ivi).
D’altra parte, il processo è chiarissimo: la famiglia-tipo americana degli anni ’50 – i Nelson, più che i Ricardo – inizia a scricchiolare sinistramente vent’anni dopo, quando Happy Days la descrive con la sensibilità settantesca e, per esempio, fa entrare nel salotto buono il classico teppista con tanto di giubbotto di pelle nera (anche se Fonzie è un bullo dal cuore d’oro); nel decennio ’90, infine, il gruppo di amici – che già nella serie di Garry Marshall diventava, spesso, la causa scatenante di piccole frizioni tra i Cunningham – si sostituisce completamente al nucleo familiare tradizionale: la ribelle Joanie – più che suo fratello Richie – è cresciuta, ha abbandonato il giovane marito Chachi e lasciato Milwaukee per New York, dove cerca di arrangiarsi come può, sia in campo lavorativo che in quello affettivo; la famiglia è lontana e, in caso di bisogno, può contare soltanto sui propri fedeli amici. Il carattere di sequel generazionale di Happy Days, d’altra parte, Friends lo dichiara fin dal primo episodio, «Matrimonio mancato» («The One Where Monica Gets a New Roommate»), dove Rachel – poco dopo essere fuggita dall’altare (ancora in abito bianco) ed essersi rifugiata in casa di Monica – s’immalinconisce guardando l’ultima puntata del telefilm di vent’anni prima, cioè proprio quella in cui Joanie e Chachi si sposano. I tempi sono cambiati, dunque: mentre prima si convolava a nozze felici, adesso è il momento di ridefinire amore e amicizia su basi completamente differenti.
La post-modernità di Friends, in ogni caso, si evince anche da altri particolari: dai titoli di ciascun episodio, per esempio, che iniziano sempre con «The One Where…» («Quello dove…») oppure «The One With…» («Quello con…»), proprio per giocare con la situazione-tipo del fan che, quando ricorda un episodio della sua serie preferita, non lo fa mai attraverso il titolo ma dall’avvenimento contenuto in quel segmento (nel caso di Happy Days, un buon esempio potrebbe essere «Quello con la sfida tra Mork e Fonzie»); oppure, dalle tante comparsate di notissimi attori hollywoodiani, spesso nei panni di se stessi (tra i tanti, basti citare Julia Roberts, Robin Williams, Isabella Rossellini). Ma anche la celeberrima sigla I’ll Be There for You cantata dai Rembrandts, oltre che come classica canzone d’amore può essere letta pure come invito rivolto ai telespettatori più o meno fedeli, per chieder loro di sintonizzarsi sullo show anche la settimana successiva. I versi, infatti, tradotti in italiano, recitano: «Sarò là per te, come lo sono stato prima; sarò là per te, perché anche tu sei là per me»; quasi un aforisma teorico sul senso ultimo della serialità.
Insomma, per quanto riguarda i telefilm d’ambientazione e argomento familiare – dal punto di vista linguistico e del reciproco gioco di specchi con la società statunitense – Friends chiude il cerchio e suggerisce nuove direzioni.
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mercoledì 29 maggio 2019

UFFICIALE: "DEATH STRANDING" ARRIVA L'8 NOVEMBRE!

Di Diego Del Pozzo


L'opera dell'ingegno umano più politica del 2019 raggiungerà il suo pubblico l'8 novembre. Si tratta di un'opera multimediale interattiva, cioè di un videogioco: l'attesissimo Death Stranding di Hideo Kojima.
E il leggendario artista giapponese oggi ha lanciato il lungo (e stupefacente!) nuovo trailer del suo gioco, introducendolo col seguente messaggio: «Le persone hanno creato "muri" e si sono abituate a vivere isolate. Death Stranding è un tipo di gioco d'azione completamente nuovo, nel quale l'obiettivo del giocatore è ricollegare città isolate e una società frammentata. È stato creato in modo che tutti gli elementi, inclusa la narrazione e il gameplay, siano tenuti assieme dal concetto di "strand" (filo) o connessione. Come Sam Porter Bridges, tenterai di colmare le divisioni nella società e di creare nuovi legami o "strands" con altri giocatori in tutto il mondo. Attraverso la tua esperienza di gioco, spero che riuscirai a comprendere la vera importanza del creare connessioni con gli altri. Adesso, per favore, goditi il nuovo trailer di Death Stranding».

domenica 17 marzo 2019

LA MARVEL OMAGGIA L'INDIE U.S.A. ANNI '90 CON "CAPTAIN MARVEL"

Di Diego Del Pozzo

Captain Marvel è una origin story tutta al femminile godibile e divertente, che - ambientata nel 1995 - dice cose importanti sulla continuity del Marvel Cinematic Universe e impone all'attenzione un personaggio che, quasi certamente, sarà decisivo nell'evoluzione di questo universo narrativo, affidandolo peraltro a un'attrice brava e "in parte" come Brie Larson (molto meglio in abiti civili che col super-costume, però).
Ma, a mio avviso, il film diretto da Anna Boden e Ryan Fleck è anche (o soprattutto?) un'intelligente riflessione sul periodo - la prima metà degli anni Novanta - nel quale la scena indie americana cinematografica e musicale viene inglobata dall'industria dell'entertainment globale e trasformata nel nuovo mainstream del Terzo millennio. In tal senso, il profluvio di citazioni nineties è assolutamente pregnante e non fine a se stesso.
Poi, onestamente, la caratterizzazione rock del personaggio di Carol Danvers e la sua predilezione per i Guns n' Roses (certificata dalla scena nella quale la si vede in una foto, con tanto di maglietta ufficiale e bandana alla Axl Rose, risalente agli anni di Appetite for Destruction e Lies) sono davvero fantastiche, così come il più bel cameo (meta-testuale) di Stan Lee in un film Marvel, con lui colto in metropolitana, impegnato a ripetere le sue battute, mentre si reca sul set di Mallrats di Kevin Smith (in Italia Generazione X), film che negli Stati Uniti esce a ottobre 1995 e che s'inserisce alla perfezione nel ragionamento di cui sopra sul rapporto indie-mainstream.
Tra l'altro, volendo divertirsi un po' con la timeline del Marvel Cinematic Universe (ma questa è roba da nerd), proprio il cameo di Smilin' Stan permette di circoscrivere con precisione l'azione di Captain Marvel in un periodo di circa cinque settimane compreso tra il 6 marzo e il 12 aprile 1995, le date di inizio e fine riprese del film di Smith secondo IMDB.
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domenica 24 febbraio 2019

AL CINEMA, DUE SGUARDI ITALIANI SULLA DEVASTAZIONE

Di Diego Del Pozzo
Qualche giorno fa, con un po' di ritardo sull'uscita in sala, ho finalmente visto La paranza dei bambini di Claudio Giovannesi e Il primo re di Matteo Rovere.
Li ho visti nello stesso pomeriggio, uno di seguito all'altro. E li ho trovati entrambi bellissimi e coraggiosissimi: due film a modo loro etici e profondamente politici, che riescono a scavare con straordinaria efficacia tra le pieghe di una contemporaneità sempre più sfrangiata e devastata (nella livida, tenera e disperata Napoli odierna, abbandonata da uno Stato assente; ma anche nel barbaro e ancestrale racconto epico del mito fondativo di Roma).
Sia Giovannesi che Rovere, però, sanno farlo rifacendosi a un'idea di messa in scena coerente, originale e, per fortuna, di notevoli qualità tutte cinematografiche, raccontando le loro storie innanzitutto con lo sguardo, attraverso sequenze di straordinaria visionarietà, nelle quali la parola si trasforma in atto e l'interazione tra i corpi attoriali a loro disposizione (tutti magnifici!) con gli ambienti circostanti produce autentici cortocircuiti sensoriali, resi ancora più estremi e coinvolgenti dal mirabile lavoro, in entrambi i film, del direttore della fotografia Daniele Ciprì.
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lunedì 18 febbraio 2019

CLINT EASTWOOD, L'AMERICA, IL TEMPO E LA MORTE: "IL CORRIERE"

Di Diego Del Pozzo 

Ma che grandissimo film che è Il corriere - The Mule di Clint Eastwood?
Ancora una volta (e lo fa fin da Honkytonk Man del 1982, realizzato quando aveva 52 anni), questo autore straordinario (uno tra i più grandi dell'intera storia del cinema) consegna al proprio pubblico un personaggio "fuori tempo massimo", oltre la propria scadenza naturale, quasi un replicante bladerunneriano (più umano dell'umano) in lotta costante con una morte che avrebbe dovuto portarlo via anni prima e che, pertanto, gli concede il lusso di poter vivere "senza filtri", con leggerezza persino fanciullesca e, al tempo stesso, con l'animo appesantito da rimpianti che, ormai, il tempo ha reso impossibili da trasformare in nuove possibilità.

Proprio come l'America profonda che Clint, a quasi 89 anni, continua a raccontare come nessun altro (forse, soltanto il miglior Bruce Springsteen), in modo tenero e dolente, affettuoso e amaro, disilluso ed empatico. E proprio come quei magnifici drop-out che continuano a giocare a scacchi con la morte, interpretati direttamente da lui o incarnati nei suoi tanti alter ego attoriali, dal già citato Honkytonk Man attraverso Bird, Gli spietati, Un mondo perfetto, I ponti di Madison County, Space Cowboys, Million Dollar Baby e, naturalmente, Gran Torino.
La speranza è che "El Tata" Earl Stone - e il suo corpo rinsecchito ma arzillo, esposto appunto "senza filtri" alla macchina da presa come un'autentica mappa geografica vivente del "God's Country" - non sia l'ultimo di questa magnifica galleria che ha saputo dirci tanto - e continua a farlo - sul tempo e sulla morte, sul cinema e sulla vita.
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