Il
Comics Journal è la prima rivista di critica fumettistica americana, nata nella seconda metà degli anni Settanta dalla mente di Gary Groth con l'ambizione di elevare il livello della discussione critica sul fumetto in quanto forma d'arte, in un mercato nel quale ancora veniva considerato prodotto per pre-adolescenti o compendio alle pagine dei quotidiani.
Negli anni, si è fatto carico anche di istanze scomode, come quella di Kirby nei confronti della Marvel, attirandosi accuse di snobismo per la sua propensione a decantare le lodi solo di fumetti misconosciuti rispetto al panorama americano
mainstream. In realtà, Gary Groth ha sempre sbandierato l'indipendenza della sua rivista anche nei confronti delle successive
Wizard e
Comics Buyers Guide ritenute, dall'intransigente Groth, troppo vicine ai grandi editori e quindi obbligate a parlarne bene.
Tra i vari articoli di critica e le recensioni, il punto forte del
Comics Journal sono sempre state le interviste ai grandi autori del fumetto: lunghissime interviste, approfondite e mai banali, nelle quali Groth e i suoi collaboratori affrontavano, con l'autore di turno, argomenti che esulavano dai soliti "
Dove trova l'ispirazione?" o "
Progetti per il futuro?", toccando temi anche scomodi o politicamente rilevanti. Ricordo ancora con nostalgia il numero dedicato al centenario del fumetto, nel quale i più grandi autori americani - e parlo di gente come Crumb, Spiegelman, Carl Barks o Charles Shultz - stilavano la classifica di quelli che, a parer loro, erano i fumetti più importanti del secolo.
Proprio recentemente il
Journal ha toccato quota 300 e lo ha fatto festeggiando con un numero pieno di discussioni a due, mettendo a confronto un veterano con un nuovo e promettente autore del fumetto anglosassone. E, quindi, ecco Howard Chaykin confrontarsi con Ho Chi Anderson oppure Dennis O'Neil e Matt Fraction, Art Spiegelman e Kevin Huizenga. Tra le numerose discussioni presenti mi ha molto colpito quella tra Dave Gibbons e Frank Quitely. Il primo, entrato nel mondo dei comics dalla porta laterale come letterista, si è fatto strada fino a diventare uno dei più noti autori britannici. Oltre a essere il co-autore di
Watchmen, è stato anche un pioniere dell'uso del computer nella realizzazione dei fumetti. Mentre il secondo è, complice Grant Morrison, il volto più noto del
british power nel mercato dei comics, avendo nel proprio bagaglio tutta una serie di
Eisner Awards per
All Star Superman. Oltre che su fonti d'ispirazione, metodi di lavoro e sulla strabiliante velocizzazione che l'ingresso delle nuove tecnologie ha apportato al lavoro di disegnatore, mi è sembrato interessante il discorso che i due autori hanno affrontato trattando il tema della figura dell'editor, ovvero quel supervisore che fa da tramite tra la casa editrice e gli autori. Entrambi hanno convenuto che la figura dell'editor si è radicalmente modificata nel tempo: se all'inizio il suo compito era principalmente quello di tutelare i personaggi e il loro ambiente, in modo che nessun autore potesse stravolgerne l'essenza, nel tempo l'editor è diventato più una sorta di "coach" che spinge gli autori a realizzare il nuovo
blockbuster. Nel corso della chiacchierata Gibbons, che in parte si è assunto la responsabilità di aver portato con
Watchmen a questo tipo di comportamento, ha lamentato la difficoltà di aver a che fare con la Marvel, dove l'editor medio ha un terzo della sua età. Quitely, invece, ha potuto cantare le lodi degli editor DC, che in effetti difendono le proprietà della Warner Bros e possono ancora incarnare quel tipo di editor del quale proprio Gibbons sente la mancanza. In realtà, la questione di fondo è che, se in passato i grandi editor del fumetto americano - e il primo nome che mi viene in mente è quello del mitico Archie Goodwin - erano stati, nella maggior parte dei casi, scrittori o disegnatori, col tempo, per ragioni di business, non si è reso più necessario che gli editor sapessero di cosa stessero trattando.
Ma sarebbe inutile, in ogni caso, tentare di riassumere in poche righe una conversazione lunga trenta pagine. Piuttosto, vi consiglio di recuperarla, perché ne vale davvero la pena. Così come vale ovviamente la pena di leggere anche tutti gli altri incontri presenti nell'imperdibile numero 300 del
Journal.