lunedì 15 dicembre 2014

STEFANO INCERTI E IL SUO NOIR SOTTO LA "NEVE"

Di Diego Del Pozzo

Anche col suo nuovo film, il bellissimo "Neve", Stefano Incerti si conferma tra i registi italiani più interessanti e dotati della propria generazione, grazie alla capacità tutta cinematografica di narrare con lo sguardo e a una consapevolezza linguistica - un po' da cinéphile, un po' da studioso - che gli permette di praticare un'idea di cinema capace di tenere assieme, con esiti notevoli, l'approccio fortemente autoriale e un rapporto con i generi mai compiaciuto o fine a se stesso ma vissuto sempre all'insegna della sincera partecipazione sia emotiva che intellettuale.
Stavolta, Incerti si misura con una sfida produttiva e artistica non da poco: quella di realizzare un film totalmente indipendente con meno di 500mila euro, rimettendosi in gioco nonostante una carriera ormai consolidata (questo è il suo settimo lungometraggio di finzione, oltre a corti e documentari) e il successo anche internazionale del precedente "Gorbaciòf" con Toni Servillo. E lo fa calandosi con un gruppo di appena dodici persone tra troupe e attori nel paesaggio imbiancato e gelido di un Abruzzo trasfigurato in autentico luogo dell’anima, da attraversare - come fanno i personaggi del suo film - alla ricerca innanzitutto di se stessi e del proprio posto in un mondo ostile e spietato. Tra tempeste capaci di ghiacciarti dentro e silenzi lancinanti resi ancora più estremi da quel colore bianco che non dà tregua allo sguardo e agli altri sensi, infatti, guardando "Neve" si ha quasi la sensazione di trovarsi nel Minnesota o nel Missouri di tanti film indipendenti americani di qualità, piuttosto che dalle parti di un cinema italiano che raramente ha saputo raccontare il paesaggio naturale con la forza espressiva del quarantanovenne cineasta napoletano.
Scritto assieme al giallista Patrick Fogli dallo stesso Incerti, che lo ha anche prodotto con la Eskimo di Dario Formisano, “Neve” (distribuito dalla coraggiosa Microcinema) è cucito addosso ai magistrali Roberto De Francesco (premiato per questo ruolo al Noir in Festival di Courmayer) ed Esther Elisha, perfetti nel dar vita a due individui sradicati, persi, in cerca di un nuovo inizio. Accanto a loro, che restano in scena per quasi tutto il film e recitano per sottrazione con gli sguardi prim’ancora che con le parole, si distinguono tre ottimi Massimiliano Gallo (un piccolo boss senza qualità), Antonella Attili (una bizzarra parrucchiera di paese) e Angela Pagano, veterana del teatro napoletano che rende con classe il personaggio di un’anziana mamma con la psiche devastata dall’alzheimer. Ancora una volta, dunque, Incerti si distingue per la grande attenzione e sensibilità nella direzione degli attori e per l'abilità nell'inserirli nell’ambiente circostante, che stavolta - in particolar modo la neve onnipresente - diventa un ulteriore personaggio.
Con cineprese digitali molto agili ma dalla resa cromatica elevatissima, il regista ha girato nello scorso febbraio direttamente nei luoghi reali della narrazione, immergendosi davvero tra le bufere e il gelo delle montagne abruzzesi, senza nessun intervento in postproduzione ad aumentare l'intensità e la densità della neve. E appunto in questo scenario desolato, capace di mettere a dura prova anche gli attori e le maestranze nel corso delle riprese, Donato (De Francesco) vaga a bordo della sua station wagon alla ricerca di qualcosa che è nascosto lì da anni (la refurtiva di una rapina milionaria?). Quando soccorre la sensuale e misteriosa Norah (Elisha), abbandonata per strada dal malavitoso col quale era in auto, l’uomo decide di portarla con sé. Pian piano, tra echi noir e suggestioni thriller (e persino western, come il notevole incipit), i due diventano via via più intimi, mentre intorno a loro tutto si fa sempre più bianco.
Il bassissimo budget di "Neve" è valorizzato al meglio (gli euro spesi sembrano molti di più) grazie alla regia di Incerti e alle interpretazioni degli attori, ma anche dai contributi tecnici di collaboratori di rilievo come Pasquale Mari alla fotografia (coadiuvato nel finale da Daria D'Antonio), Renato Lori alle scenografie o Ortensia De Francesco ai costumi, tutti coinvolti nel progetto in maniera profonda, così come gli studenti dell'Accademia di Belle Arti di Napoli come stagisti. Se è vero, dunque, che in Italia la libertà creativa assoluta si paga con l'handicap di mezzi scarsissimi a propria disposizione, è altrettanto vero che film vivi come "Neve" danno speranza a chi li guarda, perché urlano forte che il talento e la volontà, ancora oggi, contano più dei soldi. 

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martedì 28 ottobre 2014

LA MARVEL FA CENTRO CON I SUOI "GUARDIANI" POP

Di Diego Del Pozzo
(Mega n.° 209 - Novembre 2014)

Il cinecomic più atteso della stagione è certamente Guardiani della galassia, campione d’incassi assoluto dell’estate americana (finora, nei soli Stati Uniti ha raggranellato quasi 330 milioni di dollari), partito col botto anche in Italia e dominatore al box office globale con un incasso totale, nel momento in cui scrivo, superiore ai 735 milioni di dollari.
Al di là dei numeri al botteghino, però, va detto che quello diretto dal talentuoso James Gunn, che lo ha anche sceneggiato assieme a Nicole Perlman, è davvero un filmone: un finto kolossal del 2014 che, in realtà, vive dell’estetica pop anni Settanta e Ottanta. Gunn, infatti, fa un lavoro egregio sull’immaginario e sul decòr di quel periodo storico, mixando assieme l’irriverenza lisergica dei comics marvelliani dei Seventies (quelli scritti da “fuori di testa” come Steve Englehart e Steve Gerber, per capirci) con quel “Troma touch” politicamente scorretto e un po’ toxic appreso alla scuola di Lloyd Kaufman, patròn della casa di produzione resa celebre da “capolavori” fanta-trash-exploitation come Tromeo and Juliet o Toxic Avenger, dove un allora giovanissimo Gunn mosse i suoi primi passi nell’industria del cinema a stelle e strisce.
E il regista di Guardiani della galassia sceglie la strada più difficile e coraggiosa per una trasposizione Marvel, rifacendosi, dal punto di vista concettuale e progettuale, alle proprie origini “artigianali” e confezionando un kolossal da 170 milioni di dollari quasi come se fosse un b-movie a low budget, tra l’altro giovandosi anche di una pressoché assoluta libertà creativa nell’approccio ai personaggi e al loro universo di riferimento, con pochissimi interventi da parte del supervisore del Marvel Cinematic Universe, Joss Whedon, soltanto per motivi di continuity. Dal punto di vista visivo, innanzitutto, James Gunn privilegia uno stile lontano anni luce da quello asettico che oggi va per la maggiore a Hollywood, andando oltre la fotografia piatta e quasi metallica della maggior parte dei cinecomics contemporanei e riempiendo, invece, le inquadrature del suo film con ombre, chiaroscuri e impasti di colori da tavolozza artigianale di una volta, quasi come se volesse dirigere una sorta di Star Wars in versione Corman o Hammer. L’insistito ricorso all'iconografia anni Settanta e Ottanta – a partire dal walkman che apre il film e che funge da manifesto programmatico – rende il tutto ancora più affascinante e inclassificabile, almeno secondo le logiche iper-industriali che guidano operazioni come Avengers o i tre Iron Man.
Coerentemente con la sua visione, poi, Gunn costruisce una serie di personaggi “difettati”, emarginati, insicuri – sia i presunti “eroi” che i villains – e più umani dell’umano, assemblando così una “sporca cinquina” di protagonisti – Star-Lord, Gamora, Rocket, Groot e Drax – degna di un western crepuscolare ambientato in una galassia lontana lontana. Come efficaci collanti del racconto, inoltre, il regista sceglie un’ironia mai fine a se stessa (pur infarcita di gustosissime citazioni, prima tra tutte quella irresistibile di Footloose) e un’entusiasmante colonna sonora, assemblata con gusto e utilizzata come indispensabile elemento narrativo, forte delle musiche originali di Tyler Bates (300) ma, soprattutto, di una sequenza di hit strepitose che alterna Moonage Daydream di David Bowie a Fooled Around and Fell in Love di Elvin Bishop, da Come and Get Your Love dei Redbone a Cherry Bomb delle Runaways e tante altre ancora.
La trama è poco più di un pretesto. L’audace esploratore-fuorilegge Peter Quill “Star-Lord” (Chris Pratt), dopo aver rubato una misteriosa sfera per rivenderla al mercato nero, si trova coinvolto nelle macchinazioni galattiche del malvagio e ambiziosissimo Ronan l’Accusatore (Lee Pace) che, d’accordo col titano folle Thanos (Josh Brolin, non accreditato) e aiutato dalla feroce Nebula (Karen Gillan), minaccia l’esistenza dell’intero universo. Così, per sfuggire a Ronan, Quill è costretto a una scomoda alleanza con quattro improbabili personaggi: Rocket, un procione geneticamente modificato armato fino ai denti (in originale ha la voce di Bradley Cooper); Groot, un potente albero umanoide (che ha la voce di Vin Diesel, sempre nella versione originale); la letale ed enigmatica Gamora (Zoe Saldana); il vendicativo e non molto sveglio Drax il Distruttore (Dave Bautista). Pian piano i cinque diventano amici e, compreso il vero potere della sfera e la minaccia che essa rappresenta per il cosmo, decidono di combattere fino alla morte, al fianco dei Ravagers capeggiati da Yondu Udonta (Michael Rooker) e dei Nova Corps guidati da Nova Prime (Glenn Close), per provare a salvare il destino della galassia.
Il tocco di classe arriva nell’attesissima sequenza dopo i titoli di coda (ormai una tradizione di questo genere cinematografico), quando Gunn concede agli appassionati una sorpresona nostalgica, con l’apparizione, accanto al Collezionista (Benicio Del Toro) già presente durante il film, di un personaggio “mitico” che, a proposito di anni Settanta e Ottanta, funge da “firma” ideale dell’intera operazione e, con una strizzatina d'occhio ai fans più duri e puri, direi che ne racchiude lo spirito più autentico.
Proprio Guardiani della galassia, allora, può essere considerato come il miglior film realizzato finora dai Marvel Studios, oltre che come un lavoro capace, grazie al coraggio narrativo e al talento puramente cinematografico di James Gunn, di tracciare un sentiero affascinante da seguire per provare a dare una risposta convincente e originale alla standardizzazione plasticosa e roboante dei fanta-kolossal del Terzo millennio alla Michael Bay o J.J. Abrams.

lunedì 20 ottobre 2014

MARTONE, LEOPARDI E UN FILM "FAVOLOSO"

Di Diego Del Pozzo

“It’s a town full of losers 
And I’m pulling out of here to win” 
(Bruce Springsteen, Thunder Road, 1975)

Guardando Il giovane favoloso di Mario Martone c’è un momento, più di altri, nel quale appare chiaro l’approccio seguito dal regista napoletano nel suo nuovo corpo a corpo artistico con la figura gigantesca e troppo spesso fraintesa di Giacomo Leopardi, dopo le precedenti incursioni teatrali del 2004 con L’opera segreta di Enzo Moscato e del 2011 con le Operette morali. Il momento è un urlo vertiginoso, quasi punk, l’urlo del giovane Giacomo - "Odio questa vile prudenza!" - pronto a mettere a ferro e fuoco con la forza dirompente e sinceramente eversiva della sua parola poetica la grigia Recanati natìa, il polveroso Regno Pontificio dell’epoca, l’Italia ancora di là da venire, l’Europa e il mondo intero: un urlo che significa “rivoluzione”, ma non quella dei coevi patrioti divisi in mille conventicole, bensì una rivoluzione innanzitutto interiore, fatta di libertà e di amore, di diritto alla felicità individuale, di uno sguardo gettato sull’abisso senza mai chiudere gli occhi, di laicismo e apertura intellettuale; una rivoluzione pronta a prender forma proprio dai mille frammenti delle troppe catene forgiate da convenzioni sociali e religiose sentite come sempre più odiose e insopportabili.
E, in tal senso, l’urlo del Giacomo martoniano è lo stesso di chi, ovunque nel mondo, tenti con tutte le sue energie di fuggire dalle province dell’anima, col vento in faccia e un carico di sogni e di speranze, pur consapevole che queste sono destinate a trasformarsi presto in illusioni. A cantare l’eternità di questa umana pulsione, allora, può essere un poeta ventiquattrenne di nobili natali, che a inizio Ottocento evade dalla piccola e bigotta Recanati – “Una città piena di perdenti / E io me ne sto andando per vincere”, verrebbe da dire – fino alla cosmopolita Firenze e poi nelle viscere di una metropoli caleidoscopica e proteiforme come Napoli; ma anche un rocker ventenne del New Jersey che, a fine anni Sessanta del Novecento, scappa dall’asfittica Freehold per andare a guardare l’Infinito sul boardwalk di Asbury Park e poi, lungo il George Washington Bridge e la Grande Mela, porsi alla conquista del “sogno americano” e del mondo.
Si resta persino spiazzati, dunque, di fronte all’afflato quasi springsteeniano del film di Martone, che ha atteso gli anni della maturità per girare il suo lavoro più rabbiosamente rock e che, per farlo, ha rivolto il proprio sguardo soltanto in apparenza di nuovo al passato, estraendone in realtà una tra le figure intellettuali più moderne e in anticipo sui suoi e, forse, sui nostri tempi. Da questo punto di vista, il Giacomo Leopardi de Il giovane favoloso non è “nostro contemporaneo”, come ama suggerire il regista, ma pare addirittura un alieno proveniente dal futuro, a disagio ovunque vi sia ipocrisia e bigottismo, alla perenne ricerca di un Qualcosa che sia in grado di fargli oltrepassare i limiti imposti da un potere ottuso e disumano (“Non riesco a comprendere masse felici composte da individui infelici”), ma anche quelli intrinseci nella sua stessa sofferta fisicità, capace di imprigionarne in maniera ancora più tragica l’infinita profondità dell’intelletto e dell’animo.
In un’operazione di tali raffinatezza e complessità concettuale e progettuale sono due gli elementi che s’impongono come decisivi per ben definire il mood e il senso profondo e intimo di una narrazione che, comunque, fluisce sempre con miracolosa naturalezza: il corpo del protagonista Elio Germano, straordinario nel suo farsi mappa quasi cronenberghiana delle progressive transmutazioni dentro e fuori di sé; e le sonorità elettroniche glaciali ed evocative di Sascha Ring, l’artista tedesco meglio noto come Apparat, capace di ampliare a dismisura, ben oltre i suoi confini spazio-temporali, la portata stessa del racconto martoniano, soltanto in apparenza collocato nell’Italia d’inizio Ottocento, ma in realtà – attraverso la vertigine di senso prodotta dall’impasto di corpi, suoni e sguardi – scagliato a folle velocità in una sorta di lancinante buco nero dell’anima al di là del tempo e dello spazio.
Nel film di Martone, il diritto a un’impossibile felicità e il dissidio tra natura e cultura, tra carne e spirito, tra corporeo e incorporeo si fanno sguardo – poetico come la parola leopardiana – e si risolvono in puro cinema, nel quale squarci visionari ed estatiche contemplazioni s’alternano a fiammeggianti ossessioni e febbrili cortocircuiti sensoriali, con scelte registiche inattese ma di straordinaria consapevolezza linguistica e narrativa che, a partire dalla viva voce di Leopardi e dai suoi scritti, riescono a far letteralmente vibrare la Poesia sullo schermo, rendendola un attimo prima materica e quello dopo evanescente e quasi fantasmatica, spaventosa eco interiore dell’effettiva caratura dell’esistenza umana nell’immensità dell’universo. 
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giovedì 11 settembre 2014

IL NUOVO ALBUM DEGLI U2, PENALIZZATO DAL GIGANTISMO APPLE?

Di Diego Del Pozzo

Chiariamoci subito, a scanso di equivoci: se non fosse stato il nuovo album degli U2 – una band che, da almeno 20 anni a questa parte, ha fatto del gigantismo il suo marchio di fabbrica – e non fosse stato distribuito gratis dalla Apple su 500 milioni di dispositivi mobili contemporaneamente (Tim Cook, l’ad del colosso di Cupertino, lo ha definito “il più grande lancio di un disco di tutti i tempi”), “Songs of Innocence” sarebbe certamente stato accolto e valutato in maniera meno astiosa.
E, invece, l’immagine attuale della band (ex-punk-venduti-al-mercato-e-al-demone-del-capitalismo), ma soprattutto la sensazionalistica (e, obiettivamente, epocale) modalità scelta per la prima diffusione (la seconda, a pagamento e su supporti “tradizionali”, arriverà dal 13 ottobre) rischia di schiacciare completamente quello che, invece, è tutto sommato un buon album pop-rock, con alcune discrete intuizioni, una manciata di canzoni orecchiabili e testi un po’ più ispirati e personali rispetto ai lavori più recenti.
Certo, la paraculaggine di Bono emerge in più di un passaggio proprio nei succitati testi, così come l’aspetto puramente musicale rischia a ogni fraseggio di cadere nell’autoreferenzialità spinta, con gli U2 che citano gli U2 che citano gli U2...
Il problema vero, però, è sempre lo stesso: il punto di partenza di chi ascolta. Nell’anno di grazia 2014, infatti, non si può chiedere di fare la rivoluzione a chi già ne ha fatta una. E gli U2 oggi sono questi: una band pop-rock dalla scrittura solida e sicura, dotata di ovvio mestiere, magari autoreferenziale e malata di gigantismo, ma capace ancora di scrivere melodie decisamente orecchiabili (e nel nuovo album ce ne sono parecchie) e, in definitiva, di fare musica commerciale di buona qualità. Tocca ad altri, oggi, fare le rivoluzioni, non certamente a loro!
Se fosse applicato ad altri artisti, il criterio dell’immediata riconoscibilità della voce di Bono o delle chitarre di The Edge sarebbe considerato come un fattore positivo, o addirittura un valore aggiunto, mentre per gli U2 diventa un vincolo o un limite espressivo: eppure, piaccia o no, è proprio in questi due elementi che, storicamente, risiede l’identità più vera e profonda della band. Tra l’altro, in “Songs of Innocence” la produzione di Danger Mouse (coadiuvato anche da Paul Epworth, Ryan Tedder, Declan Gaffney e Flood) asciuga parecchio proprio gli eccessi di magniloquenza degli U2 più recenti, rimandando – in maniera più o meno convincente, più o meno sincera – direttamente alle sonorità post-punk anni Ottanta nelle quali la band esplose. Poi, certo, la ripetizione a iosa di determinate formule sonore (dai coretti agli intrecci ritmici ai riff di chitarra intrecciati con l’elettronica) non giova alla freschezza dell’insieme, ma liquidare il risultato come semplicemente “brutto” mi pare ingeneroso. Anche perché brani come la discussa “The Miracle (of Joey Ramone)”, “Volcano”, “Raised by Wolves” un loro “tiro” indubbiamente lo possiedono. Mentre altri come le ispirate “Iris (Hold me Close)” o “Cedarwood Road” – che pescano a piene mani nella biografia del giovane Bono – potrebbero tranquillamente essere incluse in qualche album dell’epoca d’oro, magari non in primissimo piano, ma senza troppo sfigurare.
Nel complesso, dunque, mi sento di poter dire, in tutta coscienza, che “Songs of Innocence” non sia proprio la ciofeca che in tanti vogliono far credere e che, anzi, probabilmente rispetto al precedente album, il davvero deludente “No Line on the Horizon”, rappresenti persino un passo in avanti lungo la parabola artistica (comunque discendente) degli U2. 
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martedì 9 settembre 2014

IN RICORDO DI ROMOLO RUNCINI (CON UN SUO TESTO)

Di Diego Del Pozzo

Romolo Runcini, scomparso oggi a 89 anni nella sua casa romana, è stato un autentico luminare della Sociologia della letteratura – insegnata alla Sapienza di Roma ma, soprattutto, per ben 25 anni (dal 1972 al 1997), all’Orientale di Napoli – nonché uno tra i massimi esperti internazionali nello studio del Fantastico letterario (e non solo). Ma, prim’ancora, per chi come me ha avuto la fortuna di conoscerlo e frequentarlo, è stato un Maestro inimitabile e un esempio raro di amicizia capace di andare al di là (molto al di là) delle evidenti differenze generazionali.
Romolo Runcini con i suoi giocattoli
L’ho sentito tante volte parlare in pubblico dei suoi oggetti di studio, ma mi resta il cruccio di non aver mai assistito a una sua lezione universitaria all’Orientale, io che – iscritto alla Facoltà di Scienze politiche – già ero stato fortunato a farmi inserire nel piano di studio una biennalizzazione di Storia del Cinema (poi diventata una triennalizzazione “ufficiosa”) e, addirittura, a ottenere da un altro grande professore come Paolo Frascani (all’epoca preside di Facoltà) la dispensa per laurearmi proprio in Storia del Cinema, nonostante questo non fosse un insegnamento appartenente a Scienze politiche. Runcini – anzi, Romolo, come mi disse di chiamarlo quando iniziammo a conoscerci meglio – l’ho dunque conosciuto di persona (la sua fama lo precedeva) addirittura da neolaureato, quando lo contattai per non mi ricordo quale progetto dedicato proprio al suo genere prediletto: il Fantastico.
Fu soltanto allora che mi trovai immerso, per la prima volta, nel suo antro delle meraviglie, cioè la stanzetta nella quale riceveva i suoi studenti, piena zeppa di libri ma, soprattutto, di giocattoli a molla, miniature, pupazzetti, trenini, spesso antichi, sempre curiosi e originali. La prima cosa che mi colpì, in lui, fu l’ingenuità quasi fanciullesca, che gli faceva affrontare qualsiasi argomento con la freschezza della prima volta, anche se magari su quello stesso tema aveva scritto, negli anni, importanti saggi ripresi in mezzo mondo. E poi l’entusiasmo per i mille progetti e iniziative che si agitavano nella sua mente vulcanica, primo tra tutti il purtroppo mai realizzato, per la colpevole miopìa delle amministrazioni locali, Centro internazionale di studi sul Fantastico, motivo del suo “mitico” trasloco da Roma a Procida, il 10 luglio 1998, con la moglie Giuliana (bellissima donna e sorella dell’attrice Carla Gravina), i suoi ventiduemila libri (poi diventati, negli ultimi anni, oltre trentamila), centinaia di giocattoli e quattro gatti, il tutto trasportato sull’isola a bordo di alcuni tir stracolmi di cultura che misero a soqquadro le viuzze procidane e i suoi divertiti e incuriositi abitanti.
Lì, su un’isola amata e frequentata fin dalla gioventù, Romolo andò ad abitare nel seicentesco Palazzo Ferrajoli, dalla cui terrazza si può godere di una vista mozzafiato a 360 gradi sull’isola e sull’intero golfo di Napoli. Ben presto, lo trasformò in una casa-biblioteca, interamente tappezzata di libri, in attesa – purtroppo rivelatasi vana – che l’amministrazione comunale di Procida desse concreto seguito alla delibera n.° 855 del 27 ottobre 1997 dedicata proprio al varo del “Centro internazionale Studi e manifestazioni del Fantastico”. Mentre il progetto languiva, comunque, Romolo non stava con le mani in mano: assieme all’associazione culturale Progetto Renovatio, per esempio, si occupò del recupero e della sistemazione di migliaia di libri appartenenti all’abbazia di San Michele; inoltre promosse e realizzò un importante convegno internazionale, intitolato “Orizzonti del Fantastico alle soglie del Terzo millennio”, coinvolgendo due Università campane e due romane e ottenendo in pochi mesi i patrocini del presidente della Repubblica, della Presidenza del Consiglio dei ministri e del Ministero per i Beni e le attività culturali. Nel 2009, però, di fronte al definitivo naufragio del suo progetto culturale procidano, dopo oltre dieci anni, l’ormai anziano professore abbandonò con amarezza l’isola da lui comunque ancora tanto amata, per tornare a Roma.
Romolo Runcini ha anche lavorato per la Rai dal 1956 al 1980 (vi entrò col primo, mitico concorso del 1954: quello degli Umberto Eco, Angelo Guglielmi, Furio Colombo, Gianni Vattimo) e ha lasciato agli studiosi del Fantastico almeno una manciata di libri fondamentali, come per esempio “Illusione e paura nel mondo borghese da Dickens a Orwell” (Laterza, 1968), “I cavalieri della paura” (Pellegrini, 1989), i tre tomi de “La paura e l’immaginario sociale nella letteratura” per Liguori (“Il Gothic Romance” nel 1995, “Il Roman du Crime” nel 2002 e "Il romanzo industriale" nel 2012) e "Abissi del reale. Per un'estetica dell'eccentrico" (Solfanelli, 2012).
Negli ultimi anni, dopo la sua partenza da Procida, con Romolo ci eravamo un po' persi di vista, ma la notizia della sua scomparsa mi ha fatto capire quanto di lui, in realtà, mi fosse ancora rimasto dentro. Qui di seguito, dunque, voglio riproporre un breve saggio che nel 1998 ebbi l’onore di compilare a sua firma, per la rivista specializzata “Quaderni di cinema”, raccogliendo su carta gli esiti di una nostra chiacchierata, integrata da un suo fogliettino di indicazioni e appunti scritti a mano. Sono particolarmente affezionato a questa che lui stesso volle intitolare “Noterella”, perché quando Romolo la lesse mi onorò oltre misura, dicendomi che gli sembrava scritta direttamente da lui. Ma, soprattutto, vi sono affezionato perché da quel momento diventammo davvero amici.
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NOTERELLA SUL FANTASTICO E L’ORRORIFICO TRA CINEMA E LETTERATURA
Di Romolo Runcini
(Da “Quaderni di cinema” n.° 58/59, aprile/settembre 1998)
La Paura e l’Irrazionale hanno subìto, nel corso del Novecento, una completa ridefinizione di senso, assumendo nuove “sembianze”, grazie soprattutto all’avvento del Cinematografo. Oggi, alla fine del millennio, il Fantastico e l’Orrorifico sono arrivati a costituire addirittura una sorta di “specifico” cinematografico.
E’ pur vero, tuttavia, che l’attrazione/repulsione per l’ignoto ha da sempre affascinato gli esseri umani, che – ben prima della nascita del mezzo/cinema – hanno evocato e mostrato, attraverso l’espressione artistica, le pulsioni più oscure e irrazionali del loro animo.
Prima del cinema, ad esempio, nasce in Inghilterra il gothic romance, nella seconda metà del Settecento. La prima opera letteraria ascrivibile a tale filone è “Il castello di Otranto”, scritto da Horace Walpole nel 1764. Il romanzo di Walpole contiene tutti gli elementi tipici del “gotico inglese”, a partire dall’ambientazione quasi sempre mediterranea – si vedano poi i molti temi “italiani” di Ann Radcliffe – e tratteggiata secondo i cliché di un Medioevo piuttosto “alla moda”. E’ significativo, infatti, che molti dei romanzi fantastici inglesi del periodo fossero ambientati in Italia, in Spagna, in Portogallo, ossia nell’area strettamente cattolica del sud Europa: contro il paganesimo dei rituali papisti, ma subendone il fascino, per i razionali protestanti britannici i nostri più suggestivi lidi incarnano per così dire il Pittoresco e l’Irrazionale.
Lo shock della paura, tipico del gothic romance, è prodotto dal vuoto nell’immaginario collettivo, dovuto alla fine dei riferimenti precisi d’un tempo: per i contadini è il distacco dal tradizionale mondo patriarcale della campagna, per i borghesi è l’impatto con la calata di questi in città, il fenomeno di massa dell’urbanesimo. Gli artifici letterari del romanzo gotico, con le sue ansie e paure irrazionalistiche, rispondono perfettamente, in definitiva, alla crisi che, nel corso del Settecento, colpisce le certezze di un modello di vita immutato da millenni, a causa del prodigioso e terribile avvento della Rivoluzione industriale. “Dal mondo del pressappoco – come dice Alexandre Koyrè – si passa all’universo della precisione”. I contadini, costretti ad abbandonare le campagne, in seguito all’usurpazione di aree boschive e pastorizie demaniali, da parte della nobiltà di contea, arrivano nelle grandi città e s’impiegano nelle nuove attività industriali: prima nel tessile, poi nella lavorazione dei metalli, infine nel “vapore”. Questo nuovo mondo sconvolge il sistema di vita millenario delle persone di ogni paese, provocando forte spaesamento e, conseguentemente, sfiducia nella Ragione e nella Tecnica. E’ indicativo che un altro modo di esprimere l’Irrazionalismo nel gothic romance si manifesti attraverso la descrizione di automi e bambole meccaniche, manufatti tecnologici che, spesso, si ribellano al proprio padrone.
Già nel Rinascimento, comunque, la Ragione è messa in crisi, ad esempio, attraverso i grandi affreschi di Bosch e Bruegel, in cui affiorano, però, paure soprattutto di carattere teologico; oppure in opere letterarie come “L’elogio della follia” di Erasmo da Rotterdam.
Il Fantastico è, per sua stessa definizione, attraversamento della soglia che separa reale e irreale; esso è sempre fondato sul confronto con l’altro da sé, sia che provenga effettivamente dall’esterno sia che si trovi nei più oscuri recessi dell’animo umano. Il definitivo passaggio dall’orrore esterno a quello interiore avviene, in letteratura, con le inquietanti opere brevi di Edgar Allan Poe. Un secolo dopo, un altro grande visionario, che sarà molto “saccheggiato” dal cinema, descrive nei propri racconti un tipo di orrore spaziale, che non si trova né dentro né fuori dall’uomo, ma – attraverso il pantheon dei suoi “Grandi Antichi” – rappresenta l’Indefinito, il Minaccioso, sempre pronto a squarciare il tessuto stesso della realtà conosciuta per farvi irruzione e condurre gli uomini alla follia.
Nel 1895 avviene, a Parigi, la prima proiezione cinematografica realizzata dai fratelli Lumiére. Fin dalla nascita, il cinema si propone come luogo, prima che come nuovo mezzo di comunicazione: un luogo – la sala buia (allora c’era il tendone) – adattissimo a far emergere le inquietudini nascoste e le paure ancestrali degli spettatori per farli uscire, anche realisticamente, dalla realtà quotidiana, almeno per la durata della proiezione.
Già una delle prime, celebri, brevi realizzazioni filmiche – l’arrivo del treno nella stazione – diventa motivo di terrore per gli sprovveduti fruitori del momento. Lo shock provocato da quell’immagine è molto forte e, soprattutto, immediato. Proprio questa è una delle caratteristiche fondamentali della Paura al cinema: l’immediatezza della propria percezione. Infatti, mentre nel libro il lettore è occupato a percorrere lentamente una frase, costruendo “l’immagine” perturbante un poco alla volta; al cinema, invece, l’immagine proiettata è già di per sé una totalità e, quindi, colpisce subito la percezione sensoriale dello spettatore. Il rapporto tra letteratura e cinema, quindi, equivale a quello tra “distacco” – presunto o effettivo – e shock momentaneo e immediato.
Tecnicamente poi, quando in un film – soprattutto nel cinema “classico” – si vuole mostrare l’orrore, la macchina da presa va in primissimo piano sui volti terrorizzati degli attori, invece di inquadrare il motivo della loro paura (anche questa sarà una delle rivoluzioni concettuali del cinema splatter: lo spiattellamento dell’orrorifico in faccia allo spettatore). In letteratura, di norma, si descrive lentamente, e spesso nei dettagli, il motivo della paura. Nello specifico cinematografico, invece, si può sfocare un’immagine per comunicare sensazioni di ambiguità, oppure attraverso il montaggio, i flashback e le sovrapposizioni si può impedire allo spettatore di distinguere chiaramente tra reale e irreale.
Le situazioni di tensione, sia al cinema che in letteratura, si ripetono all’infinito, secondo schemi e percorsi prefissati. Normalmente, la paura va vista come una salita (tensione montante) e una discesa (con cui si scaricano le pulsioni); il punto più elevato del percorso coincide con lo shock capace addirittura di paralizzare l’apparato psicomotorio del fruitore. Esistono due tipi di paura: una – di tipo difensivo – che è comune a tutti gli esseri viventi e fa affrontare con fermezza oppure sfuggire il pericolo reale incombente; un’altra – tipicamente umana – fondata sull’immaginazione nevrotica e febbricitante, che, addirittura, paralizza i centri nervosi bloccando l’individuo nell’immobilità. Ann Radcliffe, in un suo bel saggio, distingue nettamente “Terrore” e “Orrore”: il primo spinge a fuggire dalla minaccia del pericolo, mentre il secondo vi resta impigliato, come sospeso, nella soglia fra reale e irreale. Se si passa invece nell’irreale, nel mondo dell’allegoria e della fantasia totale si finisce per entrare nell’ambito del “Meraviglioso”, completamente rassicurante perché svincolato dalla realtà. La vera Paura, dunque, immobilizza, blocca, ferma, come in alcuni splendidi racconti di Hoffmann, di Balzac, James, Nerval, Maupassant. Il suo effetto paralizzante sul fruitore – lettore o spettatore che sia – simile, nel caso di un libro come della visione di un film.
Anche il cinema fantastico italiano dei decenni Sessanta-Settanta ha subìto fortemente l’influenza della letteratura gotica inglese sette-ottocentesca, pur in un contesto di rappresentazione popolare, legata ai cliché propri dei nostri generi cinematografici. Registi come Mario Bava – ma anche il Riccardo Freda del primo horror italiano, “I vampiri” (1956) – mostrano tutte le loro ascendenze letterarie, nell’essenza e nelle atmosfere della messa in scena filmica, ancora più che nel semplice trasporre la storia di un romanzo sul grande schermo. Il gotico letterario inglese, tuttavia, arriva ai registi del cinema popolare italiano attraverso la mediazione inevitabile delle pellicole horror e fantastiche della britannica Hammer Film, che dalla seconda metà degli anni Cinquanta spopolava nei cinema di tutto il mondo con le sue versioni neo-barocche e fiammeggianti dei classici Dracula e Frankenstein.
Mario Bava è senz’altro l’autore più autenticamente originale e visivamente dotato del nostro cinema fantastico, con i suoi film colti e popolari in eguale misura. E’ uno dei poeti del Fantastico all’italiana, con l’enorme capacità di tenere la suspence sempre all’acme. Per i soggetti delle proprie pellicole, si è spesso rifatto a opere letterarie, a partire da quello che può essere considerato il suo capolavoro, “La maschera del demonio” (1960), liberamente tratto dal racconto “Il Vji” di Gogol. Anche l’altra pietra miliare della sua produzione fantastico-orrorifica, cioè il metacinematografico “I tre volti della paura” (1963), si compone di tre episodi tratti da altrettanti suggestivi racconti di Maupassant, Tolstoj e Cechov. Bava, però, piega sempre lo spunto letterario di partenza alla sua creatività eminentemente visiva, spesso stravolgendolo nella trama, ma restandovi fedele nelle atmosfere inquietanti, anche grazie alla propria enorme abilità tecnica. Un altro film di Bava padre, “Terrore nello spazio” (1965), deve essere considerato addirittura il diretto predecessore di una pellicola seminale per tutto il cinema horror contemporaneo, come l’“Alien” diretto da Ridley Scott nel 1979.
Perché oggi in Italia non si fanno più film come quelli di Mario Bava? E come mai i capolavori di questo grande regista, tanto lodato all’estero quanto ignorato nel nostro paese, continuano a restare inediti in videocassetta e non vengono restaurati in pellicola?
Sembra che il cinema “di paura” italiano sia ridotto all’unico e solo Dario Argento, grande autore, di cui però – secondo me – il primo film resta ancora il più visceralmente inquietante (“L’uccello dalle piume di cristallo”). Da “Profondo rosso” in poi, Argento è scaduto nell’effettaccio a base di tanto pomodoro gettato in faccia agli spettatori, perdendo il vero senso della paura al cinema. La grande abilità di questo regista, comunque, resta sempre – anche nei suoi ultimi film – quella di riuscire a coniugare perfettamente immagini e musiche e, proprio attraverso la musica delle sue pellicole – i ritornelli, le ninne-nanne, le cantilene – far riemergere nell’animo degli spettatori le loro paure primordiali (nella sala buia), riportandoli all’infanzia, almeno per qualche momento. Anche Lucio Fulci, pur nell’estrema povertà dei mezzi con cui ha sempre lavorato, è riuscito diverse volte a instillare inquietudini profonde negli appassionati. Di particolare rilevanza estetica sono soprattutto film come l’indefinito “Quella villa accanto al cimitero” (1980) e il perverso “Il miele del diavolo”, in cui attraverso l’ambiguità e il sadismo si arriva alla poesia di una canzone d’amore.
Uno dei più bei film fantastici italiani, per me, resta, comunque, “La casa dalle finestre che ridono” di Pupi Avati, in cui ambienti solitamente familiari e tranquillizzanti diventano, invece, covi insospettabili della follia umana. Particolarmente inquietante nel film di Avati è proprio il modo in cui rende sullo schermo il contrasto tra follia e realtà quotidiana. In casi come questo, il cinema non ha niente da invidiare alle vette più elevate della letteratura.
Alle soglie del nuovo millennio, penso che la tendenza – al cinema – sia verso un recupero del vero orrore – al di là delle forme splatter più ridicole – nel senso dell’inquietudine, dell’ambiguità e dell’indefinitezza: un horror spaziale alla Lovecraft, simbolo della “paura del vuoto” che tanto segna oggi l’animo umano, come all’epoca del Barocco dopo l’avvento di Martin Lutero e della sua Riforma.
(Testo raccolto da Diego Del Pozzo)

sabato 7 giugno 2014

SE NE VA SANDRO ZAMBETTI: SUE CREATURE "CINEFORUM" E IL BFM

Di Diego Del Pozzo

Ieri c’è stato un grave lutto per la cultura cinematografica italiana, senza che ovviamente nessun organo di stampa nazionale ne riportasse oggi la notizia: se n’è andato, dopo una lunga malattia all’età di 86 anni, il giornalista, critico cinematografico e organizzatore culturale Sandro Zambetti.
Bergamasco, laureato in lettere a Milano, fu per tanti anni direttore della rivista “Cineforum”, nonché fondatore e presidente del festival Bergamo Film Meeting e della fondazione Alasca. Di formazione cattolica e mentalità molto aperta, Zambetti si caratterizzava per la grande competenza e l’enorme passione per il cinema, portata avanti con idee spesso geniali e notevoli capacità anche organizzative (basti pensare alla sua direzione di “Cineforum” o alla gestione del Bergamo Film Meeting). Tra le sue tante pubblicazioni, mi piace ricordare almeno il suo Castoro Cinema su Francesco Rosi.
Fino a pochi minuti fa non sapevo nulla della sua scomparsa, anche perché – come ho scritto poco più su – nessun organo di stampa (tranne “L’eco di Bergamo”) ne ha ancora dato notizia. Io ho avuto modo di incrociarlo soltanto in maniera fugace, ma nonostante ciò ne conservo un ricordo molto bello ed estremamente nitido, che mi piacerebbe condividere anche in questa sede.
Devo tornare con la memoria al Bergamo Film Meeting del 1995 – un’edizione clamorosa, con Olivier Assayas ospite, retrospettive su Gregory La Cava e sui fiammeggianti musicals Mgm restaurati – quando feci il mio esordio da spettatore a quel bellissimo festival, in veste di appassionato studente di Storia del cinema dell’Orientale di Napoli. Ricordo che, dopo aver visto il programma della rassegna, avevo molto insistito per farmi accreditare con una lettera di presentazione (scritta a mano e che ancora conservo) dal mio professore dell’epoca, Mino Argentieri, in modo da ottenere il prezioso accredito culturale, al quale, con mia enorme sorpresa, l’organizzazione del festival aggiunse anche l’ospitalità alberghiera completa (erano proprio altri tempi!).
Mino era buon amico di Sandro, lui da comunista e il secondo cattolico, e mi aveva raccomandato di salutarglielo se ne avessi avuto l’occasione. Però, poiché all’epoca non ero ancora un frequentatore regolare di festival e ambienti cinematografici, non sapevo che faccia avesse. Così, un giorno, tra una proiezione e l’altra, decisi di recarmi nella sede del festival, o di “Cineforum”, non ricordo, per portargli di persona i saluti del mio professore. Entrai, mi presentai e fui accolto da un signore di una gentilezza quasi imbarazzante, che ci tenne a farmi fare un giro della sede e, soprattutto, volle assolutamente regalarmi tutti – e sottolineo tutti – i cataloghi e le monografie critiche delle precedenti undici edizioni del Bergamo Film Meeting.
Chissà, forse rimase colpito positivamente dal fatto che uno studente da Napoli si era fatto accreditare per seguire il festival bergamasco (e sono ancora oggi certo che, in quell’edizione, fossi l’unico studente accreditato proveniente da più a Sud di Roma). Comunque, sia come sia, come ben sa chiunque si occupi di cinema in Italia, tra le pubblicazioni delle quali Zambetti mi fece omaggio vi sono prelibatezze assolute (e cito solo le due monografie su Corman e quelle su Mrinal Sen, Powell & Pressburger, la Hammer) e, dunque, è facile immaginare la felicità del giovane studente cinéphile che ero all’epoca. E più io gli dicevo che bastava ciò che mi aveva già dato, più lui insisteva per regalarmi altri volumi, perché – giustamente – diceva che tutta quella roba era stata fatta per essere letta, non per giacere sugli scaffali. Per farla breve, dovetti comprare un borsone nuovo, per riportare con me fino a Napoli i suoi fantastici regali, spaccandomi la schiena ma pieno di entusiasmo. Nel prosieguo del festival, ovviamente, ogni volta che Sandro Zambetti mi incontrava tra una proiezione e l’altra non mancava mai di fermarsi per una chiacchiera, magari veloce ma sentita, da perfetto padrone di casa.
Al mio ritorno a Napoli, tra l’altro, mi capitò di scrivere proprio su quell’edizione del Bergamo Film Meeting il mio primo saggio professionale pubblicato da una rivista “ufficiale”, la “Cinemasessanta” diretta da Mino Argentieri: era un contributo dedicato alla fantastica retrospettiva su Gregory La Cava, che di lì a qualche mese Vieri Razzini avrebbe riproposto anche in televisione, nell’ambito dei suoi storici cicli in lingua originale su Rai 3.
Quello che ho voluto raccontare è un incontro veloce di tanto tempo fa, con una persona che poi non ha più saputo nulla di me nel corso degli anni. Però, se ancora oggi ne conservo un ricordo tanto intenso, è probabile che anche quel semplice episodio bergamasco con Sandro Zambetti abbia contribuito, in qualche modo, a indirizzare la mia vita in una determinata direzione piuttosto che in un’altra. E, allora, grazie per tutti quei libri di cinema, Sandro.

venerdì 23 maggio 2014

DAVID CRONENBERG E LA MORTE E PUTREFAZIONE DI HOLLYWOOD

Di Diego Del Pozzo

"Maps to the Stars" di David Cronenberg è una impressionante ghost story - dove i fantasmi sono quelli fatti di carne e ossa - ambientata a Hollywood e, al tempo stesso, un lucido apologo sulla morte del cinema (o, meglio, di un certo tipo di cinema), inteso quale arte chiave del Novecento che, col nuovo millennio, sembra aver perso la propria centralità nello scacchiere dei media contemporanei, trasformandosi in zombie quasi romeriano costantemente rivolto a un passato che fu glorioso e che dietro di sé, però, ha lasciato cenere, cicatrici (fisiche e mentali), polvere (di stelle) e fantasmi (della memoria).
La sceneggiatura di Bruce Wagner serve a Cronenberg per popolare di mostri un Sunset Boulevard ormai in fiamme, dove famiglie ossessionate dalla celebrità vivono in gabbie di vetro, costantemente esposte allo sguardo dei fans e dei media, senza possibilità di scendere a patti con le proprie incestuose interiorità lacerate; dove baby star tredicenni hanno già visto e vissuto tutto, tanto da decidere di abbandonarsi a una morte che faccia da via di fuga verso ogni possibile libertà (come la poesia omonima di Paul Eluard che attraversa in filigrana l'intero film); dove attrici fuori tempo massimo ripercorrono la loro personalissima Mulholland Drive in preda a istinti poco più che bestiali.
Lo sguardo di David Cronenberg sull'inferno di Hollywood è quello glaciale dell'entomologo, che però, durante la sua indagine quasi scientifica sui possibili abissi nei quali può sprofondare l'animo umano, a tratti decide di assecondare persino una certa pietas, seppur trattenuta, nei confronti di quella "nuova carne" da lui teorizzata visivamente anni fa e, ormai, in totale e irreversibile putrefazione.
Alla impressionante Havana Segrand di una coraggiosissima Julianne Moore - perfetta nel dar corpo a un'attrice sfatta e schiava dell'ossessione d'interpretare il ruolo della madre morta, nel remake di un suo celebre film - è affidata la sequenza più crudele e agghiacciante, nella quale la fame di cinema e celebrità divora persino il dolore per la tragica scomparsa di un bambino. L'ottimo cast è completato da un ferino John Cusack nel ruolo del guru per stelle hollywoodiane Sanford Weiss, dal bravo Evan Bird (il figlio tredicenne Benjie, star della tv spazzatura con problemi di droga e non solo), da Mia Wasikowska (l'inquietante e disturbata sorella maggiore Agatha) e dall'ormai intimamente cronenberghiano Robert Pattinson, che interpreta l'autista di limousine Jerome, aspirante attore e sceneggiatore.
"[...] Sull'assenza che non desidera / Sulla nuda solitudine / Sui sentieri della morte / Io scrivo il tuo nome. / Sul rinnovato vigore / Sullo scomparso pericolo / Sulla speranza senza ricordo / Io scrivo il tuo nome. / E per la forza di una parola / Io ricomincio la mia vita / Sono nato per conoscerti / Per nominarti / Libertà".

sabato 10 maggio 2014

SERIE TV E SOCIETA': L'ITALIA E' INDIETRO ANCHE IN QUESTO

Di Diego Del Pozzo

Più la realtà è drammatica, più preme sull’immaginario”.
Le polemiche napoletane iper-provinciali di questi giorni sulla messa in onda della serie tv di Sky “Gomorra” – dopo quelle scoppiate durante le riprese – e sul presunto danno d’immagine causato alla città di Napoli mi hanno portato a riflettere, amaramente, su quanto, anche in ambito di dibattito sul rapporto tra contesto sociale e sua rappresentazione mediatica, questo nostro derelitto Paese continui ad andare indietro invece che avanti. A sostegno di ciò potrei citare innumerevoli esempi, ma – anche se può forse apparire poco elegante – preferisco rievocarne uno che mi riguarda in prima persona.
Quando a giugno 2002, infatti, la casa editrice torinese Lindau pubblicò il mio libro “Ai confini della realtà. Cinquant’anni di telefilm americani” (oggi esaurito e, purtroppo, fuori catalogo) l’ottima accoglienza da parte dei media (oltre che degli studiosi) contribuì a far sviluppare anche in Italia un interessante dibattito sulla straordinaria capacità della fiction seriale statunitense di porsi come specchio (più o meno fedele, più o meno deformante) della realtà circostante, in modo non banale e a livelli “alti” di immaginario collettivo. Addirittura, alcune autorevoli testate nazionali pubblicarono approfondimenti nei quali veniva opportunamente citato anche un altro testo, uscito in Francia in quegli stessi giorni con un approccio critico molto simile al mio, “Les miroirs de la vie. Histoire des séries américaines” di Martin Winkler, purtroppo mai tradotto in italiano.
Tra i tanti interventi dell’epoca, ricordo quelli estremamente lucidi e intelligenti di un raffinato intellettuale come Alessandro Zaccuri, che tra le altre cose ragionò, dalle colonne del quotidiano “Avvenire”, persino sulle modalità e sui criteri che mi avevano portato a inserire “Twin Peaks” nel capitolo dedicato alle serie comedy sulla famiglia americana (delle quali è un crudele rovesciamento dark), a riprova dell’enorme attenzione con la quale s’iniziava a guardare, in quel periodo, a una tipologia di prodotti di fiction che, di lì a qualche anno, avrebbe modificato per sempre il modo stesso di raccontare una storia.
E, al tempo stesso, ricordo come il più importante critico televisivo italiano, Aldo Grasso, trovò nel mio volume una serie di spunti che lo portarono, nei successivi quattro anni, a scriverne (bontà sua!) ben quattro volte sulle colonne del “Corriere della Sera” (tutti gli articoli sono consultabili nell’archivio on line del quotidiano, sul sito corriere.it), nel medesimo periodo che lo vedeva impegnato a sua volta nella lavorazione del saggio “Buona maestra. Perché i telefilm sono diventati più importanti dei libri e del cinema”, edito da Mondadori nel 2007. In particolare, Grasso, dopo la lusinghiera recensione pubblicata nella sua rubrica “A fil di rete” il 14 luglio 2002 (“Tutta la dignità ai telefilm Usa”) e prima di altre due segnalazioni sempre all’interno di “A fil di rete” (il 27 giugno 2006 e il 29 ottobre 2006, negli articoli intitolati rispettivamente “Quel tocco magico del genio Spelling” e “Il serial dove la giustizia perde”), si occupò del mio libro in un lungo commento sulla rappresentazione mediatica della guerra irachena uscito in prima pagina sul “Corriere della Sera” il 18 gennaio 2005 (“Dagli Usa realtà e fiction. La guerra nelle sitcom”). L’articolo s’inseriva alla perfezione nell’ambito del dibattito al quale ho fatto cenno poco fa e mi sembra perfetto, a nove anni di distanza, per essere riproposto oggi, poiché contiene alcuni passaggi che potrebbero essere stati scritti in questi giorni per commentare il caso “Gomorra-Napoli”.
Eccone, dunque, alcuni stralci: “Mentre in Iraq viene perfino rapito un vescovo cattolico, la Fox prepara una sitcom sulla guerra, una fiction quotidiana che si chiama “Lo spirito dell’America”. […] E un’altra tv via cavo, la Fx, annuncia per la prossima estate una serie sullo stesso tema, “Over There”. […] E’ un evento senza precedenti: nella storia americana non era mai accaduto che la tv facesse oggetto dei suoi programmi di fiction, di evasione, una guerra ancora in corso. Ma dopo l’11 settembre non c’è più da stupirsi se qualcuno pensa a un telefilm sull’Iraq, a lavori in corso. Durante le riprese del secondo ciclo della serie “Squadra emergenza”, le tv di tutto il mondo cominciarono a trasmettere le terribili immagini delle Torri Gemelle. Ma non era solo un tg, era un incubo, un’atroce realtà seguita in diretta da telecamere sbigottite. In un attimo, l’immagine del tragico arrivò in tutte le case. Ebbene, gli sceneggiatori di “Third Watch” (questo il titolo originale e significa “terzo turno di lavoro”, il più pesante, quello che va dalle tre del pomeriggio alle undici di sera) seppero subito assimilare la tragedia nella fiction, inserire la Storia nelle piccole storie di tutti i giorni […]. Più la realtà è drammatica, più preme sull’immaginario. Nel libro “Ai confini della realtà. Cinquant’anni di telefilm americani” (Lindau, 2002) Diego Del Pozzo passa in rassegna serie ormai mitiche […]. La sua idea è che “il telefilm si propone come lo specchio migliore nel quale gli americani riflettono la loro stessa immagine, innanzitutto mentale, e attraverso il quale emergono le loro pulsioni nascoste e le derive dell’immaginario nazionale”. E’ vero. Tocca proprio al telefilm – con un format tipicamente postmoderno, caratterizzato dal pastiche e dalla contaminazione – saper metaforizzare al meglio “le molteplici spinte, contrastanti e spesso irrazionali, che attraversano la società americana nella seconda metà del XX secolo”. […] Preparare una serie sulla guerra in Iraq come “Lo spirito dell’America” o “Over There” è segno di grande intelligenza e desiderio di capire e capirsi (in un luogo dove la violenza non risparmia nemmeno la Chiesa Cattolica, se è stato possibile rapire il vescovo Basile Georges Casmoussa). Più del cinema, a volte perfino più della letteratura contemporanea, i telefilm sanno raccontare la realtà, ne colgono le novità, gli aspetti meno conosciuti. La fiction seriale, infatti, cerca con la scrittura di organizzare un po’ il disordine del flusso televisivo e, intanto, mette in scena un sistema di valori cui fare riferimento. Rispetto soprattutto ai talk show o ai reality dove, come in Internet, non c’è mai gerarchia di valori, dove una chiacchiera vale l’altra, dove si può dire tutto e il contrario di tutto”.
Mi pare evidente, già da questo breve stralcio d’epoca, quanto indietro si sia tornati in un dibattito che vede l’Italia lontana anni luce da nazioni invece al passo con i tempi come, per esempio, gli Stati Uniti, la Francia, l’Inghilterra, la Germania e persino la Danimarca.

lunedì 21 aprile 2014

A CANNES IL CINEMA PER SARAJEVO (CON DI COSTANZO E MARRA)

Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 20 aprile 2014)

Esistono poche città capaci di metaforizzare lo scorrere della storia europea del Novecento, i suoi conflitti sanguinosi e i suoi affascinanti intrecci socio-culturali. Si tratta di luoghi di confine, città-ponte dai nomi evocativi come Berlino o Sarajevo, metropoli che trascendono la propria appartenenza geografica e politica per imporsi come patrimonio universale.
Sarajevo, Bosnia Erzegovina, ex Jugoslavia, Balcani, Europa: è la città-simbolo dello scoppio della Prima guerra mondiale nel 1914, ma anche del più recente conflitto bellico combattuto su suolo europeo nella prima metà degli anni ‘90. E sarà tra le protagoniste del festival di Cannes, grazie al film collettivo “I ponti di Sarajevo”, evento speciale fuori concorso coordinato dal critico francese Jean-Michel Frodon e diretto da tredici registi europei di varie estrazioni culturali e geografiche: Aida Begic, Leonardo Di Costanzo, Jean-Luc Godard, Kamen Kalev, Isild Le Besco, Sergei Loznitsa, Vincenzo Marra, Ursula Meier, Vladimir Perisic, Cristi Puiu, Marc Recha, Angela Schanelec e Teresa Villaverde.
Vincenzo Marra sul set del suo episodio "Il ponte"
Gli italiani Di Costanzo e Marra – entrambi campani – hanno firmato gli episodi intitolati “L’avamposto” e “Il ponte”. “Questo bellissimo progetto – sottolinea Di Costanzo – è nato su impulso di Frodon, che ha un rapporto molto intimo con Sarajevo, dove già durante il conflitto degli anni ‘90 ha fatto tanto per far restare in vita il cinema locale e la sua memoria. E dove oggi dirige una importante istituzione culturale”. “Da grande critico cinematografico qual è – aggiunge Marra – Frodon ha selezionato tredici registi che, in carriera, avessero vinto premi a Cannes, Venezia o Berlino. E ha dato loro carta bianca. Quando m’ha chiamato ho accettato con entusiasmo, perché sono stato in Bosnia prima, durante e dopo la guerra degli anni ’90 e ho studiato con molta attenzione la questione balcanica”.
Coproduzione internazionale tra Obala Art Center / Sarajevo City of Film e la casa di produzione francese Cinétévé, assieme a partner di Svizzera, Germania, Italia, Portogallo e Bulgaria, dopo la prima mondiale a Cannes “I ponti di Sarajevo” sarà proiettato il 28 giugno in Bosnia, durante le celebrazioni ufficiali per il centenario della Grande Guerra, nell’ambito del ventesimo Sarajevo Film Festival.
“L’avamposto” di Leonardo Di Costanzo è liberamente ispirato al racconto “La paura” di Federico De Roberto, l’autore de “I viceré” che nel 1921 dedicò al primo conflitto mondiale una novella sulla quotidiana crudeltà della guerra, soffermandosi in particolare sulla storia di un cecchino piazzato tra le rocce innevate del fronte settentrionale italiano, in alta montagna. “Ho girato in Trentino, tra il massiccio del Pasubio e le trincee del Nagià-Grom in Valle di Gresta”, racconta il regista di origini ischitane. “Qui, ho ambientato – aggiunge – una libera riduzione del racconto di De Roberto, che però ho dovuto asciugare, dato che per la sua complessità avrebbe meritato un film di mezz’ora, contro gli otto minuti assegnati a ciascuno di noi. Oltre al vincolo della durata, comunque, abbiamo avuto tutti massima libertà nello sviluppare il tema di Sarajevo tra 1914 e 2014 secondo le nostre personali inclinazioni e sensibilità. Rispetto ad altri colleghi coinvolti, ho scelto di non girare nella città bosniaca. Raccontare Sarajevo senza andare a Sarajevo, infatti, significa riconoscerle quel ruolo di punto alfa e omega del Novecento e di luogo simbolico dell’Europa durante il Secolo Breve”. Interpretato, tra gli altri, da Gaetano Bruno, Emanuel Caserio, Fortunato Leccese ed Emiliano Masala, “L’avamposto” è prodotto, come l’altro episodio italiano di Marra, da Francesco Virga e Gianfilippo Pedote per Mir Cinematografica, in collaborazione con Rai Cinema.
L’episodio di Vincenzo Marra s’intitola “Il ponte” ed è stato girato interamente a Roma, anche in luoghi di enorme suggestione come la chiesa dell’Ara Coeli. “Scegliendo a mia volta di raccontare Sarajevo da lontano – spiega il regista napoletano – ho scelto di dare voce al dramma della diaspora degli oltre due milioni di bosniaci costretti ad abbandonare la loro terra durante la guerra degli anni ‘90. E l’ho fatto attraverso la storia di una coppia esiliata a Roma, alle prese con le dolorose memorie dell’assedio di Sarajevo, il più lungo della storia bellica moderna, dall’aprile 1992 al febbraio 1996. Per i ruoli principali, ho scelto due non professionisti, Majo e Fatima, lui cuoco e lei interprete. E assieme, partendo dalla mia sceneggiatura originale, abbiamo fatto emergere una tale dolorosa emotività – conclude Marra – da costringerci molte volte a fermare le riprese per l’insostenibilità di ciò che emergeva dai loro ricordi”.

venerdì 28 marzo 2014

FILM DA SOSTENERE: "PULCE NON C'E'" DI GIUSEPPE BONITO

Di Diego Del Pozzo

Dopo un percorso silenzioso di quasi due anni, tra festival italiani e internazionali, giovedì prossimo arriverà nei cinema, distribuito da Academy Two, "Pulce non c'è" di Giuseppe Bonito. Presentato in anteprima al Festival di Roma 2012 nella sezione Alice nella città, dove ha conquistato il premio speciale della giuria, l'esordio del trentanovenne regista di origini campane è stato poi selezionato in numerose rassegne, è stato candidato ai Nastri d’argento e ai Ciak d’oro fino a ottenere, nella prima metà di marzo, un notevole successo nelle due settimane di pre-programmazione in esclusiva al Nuovo Sacher di Roma, la storica sala di Nanni Moretti, dove è riuscito a incassare ben 11mila euro. E a metà settimana ha confermato le sue potenzialità nei confronti degli spettatori anche in occasione delle due anteprime di Caserta (al Duel) e Aversa (al Vittoria).
Ludovica Falda è Pulce
Si tratta di un film poetico e intenso, da sostenere con convinzione. Tratto dal romanzo omonimo di Gaia Rayneri (che ha contribuito anche alla sceneggiatura), affronta un argomento delicato come quello dell’autismo e del rapporto tra le famiglie che devono convivere con questa particolarissima condizione e le istituzioni spesso assenti o troppo distratte. L’autrice del romanzo di riferimento, peraltro, s’è rifatta alla storia vera della sua famiglia e, in particolare, della sua sorellina autistica.
Al centro della trama c'è la piccola Margherita, detta Pulce, bambina autistica di nove anni, che vive assieme alla sua sorella maggiore Giovanna (le bravissime esordienti Ludovica Falda e Francesca Di Benedetto, quest’ultima voce narrante della storia) e ai loro genitori (Pippo Delbono e Marina Massironi). In seguito al fraintendimento di una insegnante nel comunicare con Pulce, il padre è accusato di aver abusato delle figlie e la piccola viene portata via dai servizi sociali e messa in una casa famiglia per circa un anno, mandando letteralmente in frantumi la quotidianità di un nucleo familiare già molto provato dalla difficile condizione della bambina.
Nella colonna sonora composta dai Mokadelic, il regista ha inserito anche un brano originale di Niccolò Fabi, "Il silenzio", perfetto per esaltare l'asciutto pathos della storia e l'intima poesia della Torino nella quale è ambientata la vicenda di Pulce e della sua famiglia. Lo sguardo di Bonito è molto maturo e consapevole; e il suo approccio etico-estetico nei confronti di un argomento così delicato è all'insegna del pudore e della sottrazione. L'autore campano, inoltre, mostra una mano sicura anche nella direzione del notevole gruppo di attori messo insieme, al cui interno spiccano la complicata fisicità di un Delbono semplicemente fantastico e l'ingenua maturità di Francesca Di Benedetto, perfetta nel dar vita alla smarrita e saggia tredicenne Giovanna che si trova a crescere in un mondo nel quale i presunti normali sono, in realtà, "tutti matti".
Parallelamente all’uscita nei cinema italiani, "Pulce non c’è" è stato anche selezionato per il Pechino Film Festival, dove sarà proiettato nell’ambito del Panorama internazionale.

sabato 22 marzo 2014

FILM (QUASI) INVISIBILI: "LA MIA CLASSE" DI DANIELE GAGLIANONE

Di Diego Del Pozzo

La quasi invisibilità nei cinema italiani di un film come "La mia classe" di Daniele Gaglianone è l'ennesimo esempio di quanto tristi e miopi siano le logiche che regolano la distribuzione cinematografica in Italia.
Valerio Mastandrea in una scena del film
Coraggioso e originalissimo dal punto di vista linguistico e dei contenuti, infatti, il lavoro più recente di Gaglianone è un riuscito mix tra cinema civile e ardita (quasi folle) sperimentazione metanarrativa, costruito sulle capaci spalle di un magistrale Valerio Mastandrea, nel ruolo del maestro di una scuola di italiano per stranieri, o di se stesso che interpreta questo maestro, o di se stesso che interpreta un attore che interpreta il maestro. Di fronte a lui, in quelli che - come spesso capita nel cinema dell'autore - si configurano come autentici "corpo a corpo" con la realtà, c'è una vera classe di immigrati, provenienti da Paesi e culture differenti e tutti - chi più, chi meno - costretti ad affrontare quotidianità rese problematiche dalle contraddizioni e dalle zone d'ombra (dal cuore di tenebra?) di una nazione sempre più razzista e intollerante com'è l'Italia del terzo millennio.
Nel film, il regista riflette sui limiti della messa in scena e sui suoi sconfinamenti, mandando volutamente in frantumi il rassicurante perimetro di ogni possibile finzione drammaturgicamente controllata, senza però mai andare a discapito di una fluidità narrativa che resta assoluta. Ma, al tempo stesso, Gaglianone dice la sua su temi "forti" e di fiammeggiante attualità come l'inclusione, l'intolleranza e la capacità di essere ancora umani nell'Occidente (post?)neoliberista del 2014.
E lo fa rovesciando il punto di vista e assumendo come proprio lo sguardo su di noi di quelle donne e di quegli uomini provenienti dai tanti possibili Sud del mondo. E sono sguardi che fanno male e che costringono gli spettatori a uscire dalla sala, dopo i titoli di coda, in preda a quella che lo stesso regista opportunamente definisce "sana inquietudine", dalla quale magari provare a ripartire battendo sentieri diversi rispetto a quelli percorsi finora.

sabato 22 febbraio 2014

INTERVISTA A TERRY GILLIAM - VERSIONE INTEGRALE ("MEGA" 200)

Di Diego Del Pozzo
(Mega n.° 200 - Febbraio 2014)

Per celebrare degnamente il numero 200 del Mega, l’appuntamento di questo mese con Comic Links diventa extralarge e molto, molto speciale, con un’intervista esclusiva a uno tra i massimi geni visionari della contemporaneità: ladies and gentlemen, squilli di trombe e rulli di tamburi per mister Terry Gilliam!
La copertina di Mega n.° 200
Ho realizzato l’intervista a Capodanno, durante il festival internazionale Capri Hollywood, del quale Gilliam è stato tra gli ospiti d’onore. E, in un’atmosfera rilassata e informale, l’autore di film-culto come “Brazil” (1985), “Le avventure del Barone di Munchausen” (1988), “La leggenda del re pescatore” (1991), “L’esercito delle 12 scimmie” (1995) e il più recente “Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo” (2009) si è lasciato andare a una chiacchierata nella quale non hanno trovato posto soltanto i dettagli dei suoi nuovi (clamorosi e attesissimi) progetti, ma tanti altri argomenti, a partire dal controverso rapporto tra creazione artistica e nuove tecnologie digitali.
Che cosa pensa un visionario come lei di un tema così importante, anche per gli sviluppi futuri del cinema?
“Penso che l’importante siano sempre le idee, non innovazioni tecnologiche che, per restare in ambito strettamente cinematografico, gli Studios hollywoodiani utilizzano per raccontarci in modi soltanto apparentemente diversi quelle che, invece, sono sempre le stesse storie. Senza idee, infatti, non si può fare niente di veramente innovativo. Così, anche se il digitale, per me, rende certamente i processi produttivi più facilmente accessibili a tutti e abbatte, al tempo stesso, i costi per realizzare un film, ritengo che alla base di tutto debbano continuare a esserci le idee. Basti pensare a un campo come quello dell’animazione, che io conosco bene e che, in passato, ho frequentato con regolarità: molto spesso, infatti, il digitale viene utilizzato per realizzare più facilmente ciò che già prima era possibile realizzare. Invece, bisognerebbe affrontare nuove sfide creative e spostare i confini sempre più in avanti: non mi piace il fotorealismo nel cinema d’animazione e ho paura che, poiché oggi tutto è tecnicamente possibile, in realtà nulla diventi più davvero credibile. Invece, quando vado al cinema vorrei essere sempre sorpreso e sconvolto: vorrei visioni ardite, mondi fantastici, ma anche viaggi nelle profondità dell’animo umano. In quanto a Hollywood, oggi più che mai ha in mano l’immaginario globale attraverso il controllo della produzione, della distribuzione, delle sale e, soprattutto, del marketing, che comanda tutto grazie anche a una saldatura senza precedenti con il mondo della finanza. Tutto ciò, però, serve soltanto a produrre film stupidi e, molto spesso, a farne lievitare i costi grazie a spese di promozione allucinanti. Il mio nuovo “The Zero Theorem”, per fare un esempio, è costato 8,5 milioni di dollari. Ma, se lo avessi realizzato a Hollywood, ne sarebbero serviti almeno 25”.
A proposito del fantascientifico “The Zero Theorem”, in concorso alla Mostra di Venezia 2013, quando è prevista l’uscita nei cinema europei?
“Tra febbraio e marzo, il film sarà distribuito in Francia, Germania, Italia e in altre nazioni europee. Però, quando l’ho girato mi sembrava un film di fantascienza, invece oggi, dopo un anno appena, pare quasi un trattato di storia sul passato, dato che la realtà ci sorpassa a velocità incredibile e il futuro ci viene incontro senza che noi ce ne rendiamo nemmeno conto. Comunque, attraverso la parabola del geniale hacker interpretato da Christoph Waltz e impegnato a ricercare il senso dell’esistenza umana in una società orwelliana dominata dalle multinazionali, in effetti, mi interrogo proprio sul rapporto tra gli uomini e le nuove tecnologie nella società contemporanea. Ormai, il progresso viaggia più veloce della luce e la tecnologia domina ogni aspetto delle nostre vite quotidiane. Se vai a una festa, a Londra come in Italia, puoi facilmente notare come tutti abbiano gli occhi incollati sugli schermi dei loro smartphones e come, pur tra tanta gente, nessuno comunichi più davvero con nessun altro. E, con questo nuovo film, ho provato anche a dire la mia su un fenomeno come questo, che non posso fare a meno di trovare inquietante”.
Ma, tornando al mondo del cinema, non crede che l’evoluzione tecnologica porti anche aspetti positivi?
“Dal mio punto di vista, gli unici riguardano la distribuzione. Oggi, infatti, la scomparsa della pellicola e la realizzazione di film live action e animati, ma anche di serie televisive, direttamente in digitale consente di distribuirli in maniera più agile e capillare, rispetto al passato, bypassando gli spazi tradizionali e inventandosene di nuovi. Una via interessante, per esempio, è quella di portali come Netflix, che da poco sono entrati anche nella produzione diretta di nuovi contenuti. Una cosa che trovo molto affascinante rispetto al passato è la possibilità di fare enormi abbuffate di film e serie tv, lungo autentiche maratone assieme agli amici. Proprio questo, tra l’altro, mi sembra un modo adeguato ai tempi per riscoprire il piacere della visione comune, superando l’alienazione del rapporto solitario col piccolo schermo del proprio tablet o smartphone. Recentemente, mi sono goduto tutte le stagioni di “Breaking Bad” nel giro di pochi giorni, grazie ai cofanetti dvd. E devo dire che sono rimasto sconvolto dalla straordinaria qualità di questa serie, che secondo me fa mangiare la polvere a quasi tutto il cinema prodotto oggi a Hollywood. Per me, il futuro è proprio in prodotti come questo”.
Un momento dell'intervista
Ma a lei, vista la qualità elevata delle produzioni di network tv come Hbo, Showtime o Amc, è mai venuta la voglia di dedicarsi a una serie televisiva?
“In realtà, in questi anni sono stato contattato molte volte proprio per realizzare una serie tv. E, naturalmente, avrei anche diverse idee interessanti da sviluppare in questo ambito, che rispetto al cinema ti permette di portare avanti narrazioni più stratificate e complesse. Però, tra il 1969 e il 1974, ho iniziato a lavorare proprio sul piccolo schermo, ai tempi del “Monty Python’s Flying Circus”. E, onestamente, non mi va di tornare indietro e finire la mia carriera lì dove la avevo iniziata”.
Lei ha ricordato i “mitici” Monty Python, l’irrefrenabile “circo volante” che, da fine anni Sessanta all’inizio degli Ottanta, ha letteralmente rivoluzionato il modo di fare comicità. E il 2014 è l’anno dell’attesissima reunion del gruppo. Come mai proprio adesso?
“Per una ragione molto semplice e persino un po’ prosaica: avevamo bisogno di soldi, poiché avevamo perso una causa legale che ci riguardava tutti. Così, abbiamo deciso che riformare il nostro gruppo di matti potesse essere il modo migliore per farne tanti in fretta. Quindi, come spesso capita, da un disastro è nata una riunione di famiglia. Naturalmente, però, alla base di tutto c’è stata anche la nostra voglia di proporre alle nuove generazioni una comicità che ha fatto epoca. E, al di là di tutto, sarà davvero bello, trent’anni dopo, ritrovarci sullo stesso palcoscenico”.
Quando e dove avverrà la reunion e con quali novità?
“I Monty Python torneranno insieme a luglio a Londra, alla O2 Arena. All’inizio, avevamo pensato a un unico show, l’1 luglio, ma appena messi in vendita quei 17mila biglietti sono andati esauriti on line in appena 43 secondi e mezzo. Così, abbiamo accettato di fare altre quattro serate, dal 2 al 5 luglio, ma anche quelle hanno fatto registrare un “sold out” in poche ore. Quindi, abbiamo deciso di replicare anche il 15, 16, 18, 19 e 20 luglio, per un totale di dieci spettacoli. Non ci ho pensato subito, altrimenti avrei potuto fare anch’io un po’ di bagarinaggio! Scherzi a parte, il titolo del reunion show è “One Down, Five to Go” (“Uno in meno, ne restano cinque”) e sarà una via di mezzo tra un party e una festa di resurrezione, perché purtroppo uno di noi, Graham Chapman, è morto nel 1989 mentre io, John Cleese, Eric Idle, Terry Jones e Michael Palin siamo pronti per tornare in scena. Nel preparare le serate, abbiamo capito che in tanti vogliono rivedere i classici del gruppo, ma stiamo lavorando anche a una serie di nuovi sketch che, mentre li scrivevamo, ci hanno fatto morire dalle risate. Ci saranno un po’ di commedia, molto pathos, tanta musica, una spruzzatina di “old style sex” e tanti travestimenti”.
L’altra importante novità del suo 2014 è la realizzazione di “The Man Who Killed Don Quixote”, il progetto di film che lei porta avanti da ben quindici anni con scarso successo. Siamo arrivati finalmente alla volta buona?
“Credo proprio di sì. Ho firmato con una giovane casa di produzione spagnola e abbiamo già individuato i set ideali alle Canarie. L’inizio delle riprese è fissato per il 3 ottobre, anche se finora non ho né il cast né la stesura definitiva della nuova sceneggiatura né il budget completo per il film. Ma in questi mesi lavoreremo tutti a ritmi elevati, in modo da essere pronti per ottobre. Tra i protagonisti non vi sarà Johnny Depp, perché punterò su altri attori sia per il ruolo di Don Chisciotte che per quello di Sancho Panza. Sono al settimo tentativo di fare questo film e, dopo tanti fallimenti, spero davvero che sia quello buono. In ogni caso, oltre che dalle idee io sono sempre stato molto affascinato dalla loro concreta realizzazione. E, ancora una volta, sono certo che le limitazioni e i problemi faranno nascere nella mia mente nuove soluzioni creative”.
Che cosa pensa del recente trend dei cinecomics, sempre più dominanti ai box office globali?
“Io sono un grandissimo appassionato di fumetti. E, in passato, ho anche provato a realizzare qualche film tratto da graphic novels di amici come Neil Gaiman, senza però riuscirvi mai. Adesso, onestamente, il fatto che tutti vogliano fare film da fumetti mi fa andare automaticamente in direzione opposta. Penso intensamente a “Don Chisciotte”, ma sarebbe fantastico anche riuscire a trarre qualche bel film dai romanzi di uno tra i miei scrittori contemporanei preferiti, un genio assoluto come Neal Stephenson, che con le sue storie di fantascienza riesce a essere sempre immerso nell’oggi ma con lo sguardo puntato costantemente sul domani, come sanno fare soltanto i grandi narratori. Il passaggio da un buon libro a un buon film, però, non è mai automatico, perché mentre lo scrittore può affrontare il foglio bianco da solo con la propria fantasia, il cinema resta una forma d’arte e d’espressione collettiva, col regista che guida un gruppo di professionisti e di artisti tutti in grado di dare un loro contributo personale al prodotto finito”.
Ci sono registi o autori del passato dei quali sente la mancanza?
“Io sono cresciuto con i grandi autori europei, in particolare italiani, degli anni Cinquanta e Sessanta: registi come Fellini in grado di costruire mondi personali sullo schermo, ma anche cineaste come, per esempio, Lina Wertmuller, che all’epoca erano presenti in massa anche nei cinema americani. Oggi, invece, se si chiede a un giovane chi sia Pasolini si capisce sconsolati che nessuno lo conosce. Devo dire, poi, che in questo voi italiani siete davvero fantastici: sempre a piangervi addosso, quando avreste possibilità straordinarie, ancora oggi, di fare grande arte. Comunque, tornando al tema delle nuove tecnologie, queste potrebbero essere molto utili anche per il recupero e la divulgazione dei grandi autori del passato, grazie alle versioni restaurate dei loro capolavori, distribuite in dvd e blu-ray e arricchite da contenuti speciali che consentono di approfondirne la visione con i retroscena della lavorazione e con altri materiali di enorme interesse. In questo modo, i grandi film del passato possono restare vivi e arrivare a pubblici sempre nuovi”.

martedì 14 gennaio 2014

IL MEGLIO DEL 2013: ALBUM POP-ROCK, FILM, SERIE TV

Con qualche giorno di ritardo, anche io, qui su Off-Topic, propongo i miei "Best of..." dell'anno appena concluso, per quel che riguarda gli album pop-rock, i film e le serie tv. In tutte e tre le categorie, ho preso in considerazione soltanto quei prodotti ufficialmente distribuiti in Italia nel corso dell'anno solare 2013. Ecco spiegate esclusioni come, per esempio, quella dell'ancora inedito House of Cards tra le serie televisive (delle quali indico, tra parentesi, il network produttore). Buona lettura, dunque, col meglio del 2013 secondo il mio personalissimo e parziale parere (d.d.p.).
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Migliori album del 2013:
1) Dream River (Bill Callahan);
2) Push the Sky Away (Nick Cave & The Bad Seeds);
3) Random Access Memories (Daft Punk);
4) The Next Day (David Bowie);
5) Modern Vampires of the City (Vampire Weekend);
6) Trouble Will Find Me (The National);
7) m b v (My Bloody Valentine);
8) Reflektor (Arcade Fire);
9) Tomorrow's Harvest (Boards of Canada);
10) …Like Clockwork (Queens of the Stone Age).

Miglior album jazz del 2013: Without a Net (Wayne Shorter Quartet).

Migliori film del 2013:
1) Django Unchained (Quentin Tarantino);
2) Zero Dark Thirty (Kathryn Bigelow);
3) Sugar Man (Malik Bendjelloul);
4) Holy Motors (Leos Carax);
5) Frozen (Chris Buck e Jennifer Lee);
6) Rush (Ron Howard);
7) Spring Breakers - Una vacanza da sballo (Harmony Korine);
8) The Grandmaster (Wong Kar-wai);
9) Qualcosa nell'aria (Olivier Assayas);
10) Lincoln (Steven Spielberg).

Migliori serie tv del 2013:
1) Breaking Bad (Amc);
2) Game of Thrones (Hbo);
3) The Walking Dead (Amc);
4) The Newsroom (Hbo);
5) The Americans (Fx);
6) The Killing (Amc);
7) Scandal (Abc);
8) Mad Men (Amc);
9) American Horror Story (Fx);
10) Doctor Who (Bbc).