venerdì 31 dicembre 2010
UN RINATO ABEL FERRARA CONQUISTA LA PLATEA DI CAPRI
Quello riprodotto qui sopra è l'articolo a firma di Abel Ferrara - il grande regista di capolavori maledetti come Il cattivo tenente, The Funeral - Fratelli e The Addiction - che ho avuto l'onore di trascrivere per il quotidiano Il Mattino, sul quale è stato pubblicato in prima pagina nell'edizione di ieri. Per leggerlo basta cliccarci sopra. Qui sotto, nella foto di Pietro Coccia, io con Abel Ferrara durante il festival "Capri, Hollywood".
martedì 28 dicembre 2010
lunedì 27 dicembre 2010
DIFFERENZE TRA NAPOLI E PARIGI A NATALE (E NON SOLO)
Di Diego Del Pozzo
Differenze principali tra Napoli e Parigi durante le festività natalizie (e non solo):
1) a Napoli pioggia, a Parigi 15 centimetri di neve e temperature a tre gradi sotto zero;
2) a Napoli manc' 'o cazz', a Parigi piste di pattinaggio e giostre gratis davanti all'Hotel de Ville (il Municipio) oltre a una miriade di iniziative culturali e spettacolari;
3) a Napoli monnezza per le strade, a Parigi nemmeno una carta in terra;
4) a Napoli i commercianti hanno perso l'abitudine di salutare i propri clienti, a Parigi nei negozi ti accolgono con un sorriso;
5) a Napoli ormai l'aria puzza, a Parigi no;
6) a Napoli è difficile trovare una rivista di filosofia in libreria, a Parigi puoi comprare un mensile di filosofia in edicola;
7) a Napoli per parlare in strada devi urlare (a causa dell'allucinante inquinamento acustico), a Parigi puoi conversare piacevolmente come una persona civile;
8) a Napoli il pesce per il cenone della vigilia costa tantissimo, a Parigi puoi acquistarne di ottimo a prezzi onesti;
9) a Napoli il museo Madre sta per chiudere, a Parigi puoi scegliere tra cento e più;
10) a Napoli puoi metterci anche due ore per andare in treno a Caserta, a Parigi in 40 minuti precisi sei a Marne La Vallée - Chessy - Parcs Disneyland (nonostante la neve e il ghiaccio).
1) a Napoli pioggia, a Parigi 15 centimetri di neve e temperature a tre gradi sotto zero;
2) a Napoli manc' 'o cazz', a Parigi piste di pattinaggio e giostre gratis davanti all'Hotel de Ville (il Municipio) oltre a una miriade di iniziative culturali e spettacolari;
3) a Napoli monnezza per le strade, a Parigi nemmeno una carta in terra;
4) a Napoli i commercianti hanno perso l'abitudine di salutare i propri clienti, a Parigi nei negozi ti accolgono con un sorriso;
5) a Napoli ormai l'aria puzza, a Parigi no;
6) a Napoli è difficile trovare una rivista di filosofia in libreria, a Parigi puoi comprare un mensile di filosofia in edicola;
7) a Napoli per parlare in strada devi urlare (a causa dell'allucinante inquinamento acustico), a Parigi puoi conversare piacevolmente come una persona civile;
8) a Napoli il pesce per il cenone della vigilia costa tantissimo, a Parigi puoi acquistarne di ottimo a prezzi onesti;
9) a Napoli il museo Madre sta per chiudere, a Parigi puoi scegliere tra cento e più;
10) a Napoli puoi metterci anche due ore per andare in treno a Caserta, a Parigi in 40 minuti precisi sei a Marne La Vallée - Chessy - Parcs Disneyland (nonostante la neve e il ghiaccio).
mercoledì 22 dicembre 2010
BUON NATALE A TUTTI!
Off-Topic si prende qualche giorno di vacanza. Buon Natale, dunque, a tutti i lettori!
domenica 19 dicembre 2010
venerdì 17 dicembre 2010
CASTELLITTO A NAPOLI PER "LA BELLEZZA DEL SOMARO"
Di Diego Del Pozzo
Da quando, tre anni fa, ha girato in città la fiction O' professore Sergio Castellitto ha con Napoli un rapporto speciale. Non è un caso, dunque, che l'attore-regista abbia scelto proprio il capoluogo campano per l'ultima anteprima del suo nuovo film, La bellezza del somaro, all'immediata vigilia dell'uscita nelle sale, prevista per oggi in ben 254 copie distribuite dalla Warner Bros. "Questa è una città magnifica - sottolinea Castellitto - che potrebbe "campare" di cultura. Bisogna darle attenzione e curarla, perché se non funziona Napoli non funziona tutta l'Italia, dato che proprio qui, secondo me, c'è il laboratorio dei fermenti più vivaci del nostro Paese". Del suo film, invece, il regista-interprete ama sottolineare, innanzitutto, l'originalità rispetto all'attuale panorama della commedia italiana, mostrando grande sicurezza per la scelta dell'uscita natalizia da parte della Warner: "Rispetto al cinepanettone - scherza - io mi accontenterei di essere l'uvetta, che a volte può essere molto gustosa. Comunque, con questo film non ho voluto inseguire il puro esercizio ginnico della risata, ma rischiare con uno stile lontanissimo da quello televisivo. Un ottimo esempio è la lunga sequenza della litigata finale, girata quasi come se fosse un film di guerra di Spielberg. Per quanto riguarda i personaggi, poi, qui parteggio chiaramente per i ragazzi, ancora lontani dalla meschinità che conosceranno con l'età adulta".
In La bellezza del somaro, Castellitto interpreta Marcello, architetto di successo sposato con la psicologa Marina (Laura Morante): entrambi genitori moderni, dinamici, dialogici, ecosolidali, tolleranti, che si trovano ad affrontare lo sconcertante fidanzamento della figlia diciassettenne Rosa (Nina Torresi, presente a Napoli assieme al regista) con un misterioso settantenne, un impagabile Enzo Iannacci, che porterà alla luce le ipocrisie delle loro esistenze "politicamente corrette". "Il personaggio di Iannacci - conclude Castellitto - è una sorta di alieno, fatto apposta per smascherare le ambiguità di vite vissute all'insegna dell'apparenza". Accanto ai protagonisti, si fa apprezzare un rodatissimo gruppo di interpreti, composto dal napoletano Gianfelice Imparato (ottimo il suo manager nevrotico e perplesso) e da Emanuela Grimalda, Marco Giallini, Lidia Vitale, Erica Blanc, Barbora Bobulova, Renato Marchetti.
In La bellezza del somaro, Castellitto interpreta Marcello, architetto di successo sposato con la psicologa Marina (Laura Morante): entrambi genitori moderni, dinamici, dialogici, ecosolidali, tolleranti, che si trovano ad affrontare lo sconcertante fidanzamento della figlia diciassettenne Rosa (Nina Torresi, presente a Napoli assieme al regista) con un misterioso settantenne, un impagabile Enzo Iannacci, che porterà alla luce le ipocrisie delle loro esistenze "politicamente corrette". "Il personaggio di Iannacci - conclude Castellitto - è una sorta di alieno, fatto apposta per smascherare le ambiguità di vite vissute all'insegna dell'apparenza". Accanto ai protagonisti, si fa apprezzare un rodatissimo gruppo di interpreti, composto dal napoletano Gianfelice Imparato (ottimo il suo manager nevrotico e perplesso) e da Emanuela Grimalda, Marco Giallini, Lidia Vitale, Erica Blanc, Barbora Bobulova, Renato Marchetti.
giovedì 16 dicembre 2010
mercoledì 15 dicembre 2010
E ANCHE QUEST'ANNO ARRIVA IL "CINEPANETTONE"
Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 14 dicembre 2010)
(Il Mattino - 14 dicembre 2010)
Consueta anteprima tra calcio e cinema, quella organizzata a Napoli, presso il Med The Space multiplex di Fuorigrotta, dove va in scena il tradizionale rito prenatalizio della presentazione del nuovo "cinepanettone" targato Filmauro, Natale in Sudafrica, da venerdì nei cinema italiani.
Anche quest'anno, infatti, Aurelio De Laurentiis mette insieme le sue due passioni, portando in sala calciatori e staff tecnico del suo Napoli, tutti in prima fila per la proiezione in anteprima nazionale del film. Per il folto pubblico presente alla serata, tra l'altro, un motivo d'interesse in più è certamente la contemporanea presenza al Med di due argentini amatissimi dai rispettivi fans: il Pocho Lavezzi e la sensuale Belen Rodriguez, nuova star del "cinepanettone" 2010. Assieme alla showgirl sudamericana, radiosa e sorridente come sempre, presentano il film al Med anche gli altri protagonisti Christian De Sica, Giorgio Panariello, Max Tortora, la napoletana Serena Autieri e Barbara Tabita, accompagnati (e coccolati) dai produttori Aurelio e Luigi De Laurentiis. Proprio Belen, però, non ci mette molto per accattivarsi le simpatie della platea partenopea, lanciando un'idea al produttore-presidente: "Potrei dare il calcio d'inizio a una gara del Napoli al San Paolo, magari contro il Genoa nel girone di ritorno". La risposta di don Aurelio è prontissima e si spinge persino oltre: "Per te - dice rivolgendosi alla Rodriguez - sto pensando a un ruolo ancora più interessante. Per esempio, potresti fare da testimonial del Napoli in Sudamerica. Ci lavoreremo".
E, a proposito di lavoro, le riprese sudafricane del nuovo film di Natale della Filmauro hanno divertito molto i protagonisti, ma sono state anche faticosissime, con ciak in piena savana, spesso circondati da animali selvatici. "Ci sarebbero tantissimi aneddoti da raccontare, perché abbiamo avuto a che fare con serpenti, elefanti, babbuini", scherza (ma non troppo) Christian De Sica. E, immediatamente, Giorgio Panariello fa sganasciare il pubblico dalle risate, raccontando di quando un babbuino poco mansueto ha preso a schiaffi Massimo Ghini "mentre i due - racconta - cercavano di familiarizzare prima di girare una scena".
Comunque, è indubbio che tutte le attenzioni siano rivolte a Belen Rodriguez, che si dice entusiasta della sua prima volta al cinema: "Ho molto apprezzato la scelta del regista Neri Parenti - sottolinea Belen - di non mettere me e Christian nello stesso episodio, in modo da non copiare gli spot televisivi che facciamo assieme. Per quanto mi riguarda, mi sono trovata inserita in una vera e propria "macchina da guerra" della risata, dove tutto funziona alla perfezione e dove ho dovuto impegnarmi per entrare nei tempi comici giusti: far ridere, infatti, è la cosa più difficile che ci sia". Nel futuro di Belen, comunque, ci sarà altro cinema, a partire dalla commedia Se sei così, ti dico sì di Eugenio Cappuccio: "Mi piace molto recitare - aggiunge la showgirl, che presenterà il Festival di Sanremo assieme a Gianni Morandi ed Elisabetta Canalis - anche se penso che tutte le esperienze artistiche aiutino a crescere; pure gli spot televisivi della Tim - conclude smorzando le polemiche di questi giorni - che, a differenza di quanto è stato scritto, hanno prodotto ottimi risultati all'azienda".
Anche quest'anno, infatti, Aurelio De Laurentiis mette insieme le sue due passioni, portando in sala calciatori e staff tecnico del suo Napoli, tutti in prima fila per la proiezione in anteprima nazionale del film. Per il folto pubblico presente alla serata, tra l'altro, un motivo d'interesse in più è certamente la contemporanea presenza al Med di due argentini amatissimi dai rispettivi fans: il Pocho Lavezzi e la sensuale Belen Rodriguez, nuova star del "cinepanettone" 2010. Assieme alla showgirl sudamericana, radiosa e sorridente come sempre, presentano il film al Med anche gli altri protagonisti Christian De Sica, Giorgio Panariello, Max Tortora, la napoletana Serena Autieri e Barbara Tabita, accompagnati (e coccolati) dai produttori Aurelio e Luigi De Laurentiis. Proprio Belen, però, non ci mette molto per accattivarsi le simpatie della platea partenopea, lanciando un'idea al produttore-presidente: "Potrei dare il calcio d'inizio a una gara del Napoli al San Paolo, magari contro il Genoa nel girone di ritorno". La risposta di don Aurelio è prontissima e si spinge persino oltre: "Per te - dice rivolgendosi alla Rodriguez - sto pensando a un ruolo ancora più interessante. Per esempio, potresti fare da testimonial del Napoli in Sudamerica. Ci lavoreremo".
E, a proposito di lavoro, le riprese sudafricane del nuovo film di Natale della Filmauro hanno divertito molto i protagonisti, ma sono state anche faticosissime, con ciak in piena savana, spesso circondati da animali selvatici. "Ci sarebbero tantissimi aneddoti da raccontare, perché abbiamo avuto a che fare con serpenti, elefanti, babbuini", scherza (ma non troppo) Christian De Sica. E, immediatamente, Giorgio Panariello fa sganasciare il pubblico dalle risate, raccontando di quando un babbuino poco mansueto ha preso a schiaffi Massimo Ghini "mentre i due - racconta - cercavano di familiarizzare prima di girare una scena".
Comunque, è indubbio che tutte le attenzioni siano rivolte a Belen Rodriguez, che si dice entusiasta della sua prima volta al cinema: "Ho molto apprezzato la scelta del regista Neri Parenti - sottolinea Belen - di non mettere me e Christian nello stesso episodio, in modo da non copiare gli spot televisivi che facciamo assieme. Per quanto mi riguarda, mi sono trovata inserita in una vera e propria "macchina da guerra" della risata, dove tutto funziona alla perfezione e dove ho dovuto impegnarmi per entrare nei tempi comici giusti: far ridere, infatti, è la cosa più difficile che ci sia". Nel futuro di Belen, comunque, ci sarà altro cinema, a partire dalla commedia Se sei così, ti dico sì di Eugenio Cappuccio: "Mi piace molto recitare - aggiunge la showgirl, che presenterà il Festival di Sanremo assieme a Gianni Morandi ed Elisabetta Canalis - anche se penso che tutte le esperienze artistiche aiutino a crescere; pure gli spot televisivi della Tim - conclude smorzando le polemiche di questi giorni - che, a differenza di quanto è stato scritto, hanno prodotto ottimi risultati all'azienda".
domenica 12 dicembre 2010
SET: JOHNNIE TO GIRERA' UN FILM NOIR A NAPOLI
Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 12 dicembre 2010)
(Il Mattino - 12 dicembre 2010)
Potrebbe essere un mito del cinema asiatico, il regista di Hong Kong Johnnie To, a dirigere la versione cinematografica di 5 è il numero perfetto, il premiatissimo romanzo a fumetti scritto e disegnato da Igort, al secolo Igor Tuveri, che l'ha ambientato nella Napoli degli anni Settanta, tra camorra e guapparia. Pubblicato dal 2002 in una quindicina di Paesi (in Italia prima da Coconino Press e poi da Rizzoli), il lavoro del sardo-bolognese Tuveri - uno tra i più raffinati autori dell'avanguardia fumettistica europea - è da metà decennio in procinto di trasformarsi in film, grazie al coinvolgimento del direttore della Mostra di Venezia, Marco Muller, caparbiamente impegnato come produttore in un progetto che, negli anni, ha visto avvicendarsi alla regia cineasti italiani e stranieri come Egidio Eronico, Takeshi Kitano, lo stesso Igort. Stavolta, però, la situazione potrebbe sbloccarsi.
Infatti, Muller ha accompagnato a Napoli, nei giorni scorsi, il regista Johnnie To, per una serie di sopralluoghi e di incontri con realtà locali come Teatri Uniti (che si occuperebbe della produzione esecutiva della pellicola), resi possibili grazie al lavoro di tessitura e supporto organizzativo della Film Commission Regione Campania. Con Muller e To, durante il soggiorno partenopeo durato quattro intensi giorni, c'erano la moglie dell'autore di Hong Kong e il suo aiuto-regista, oltre allo scenografo Lino Fiorito e al direttore della Film Commission regionale Maurizio Gemma. I sopralluoghi hanno interessato buona parte dell'area vesuviana e di quella flegrea, attraversate prevalentemente in auto; e poi, in città, il porto (in particolare, i moli commerciali pieni di container stipati l'uno sull'altro), la Sanità e i Decumani (percorsi a piedi, per soffermarsi meglio sui particolari), infine le cavità della Napoli sotterranea, il cui impatto visivo ha molto colpito Johnnie To. Il coinvolgimento dell'importante regista asiatico, autore di pellicole di culto come The Mission (1999) o Election (2005), si spiega con la popolarità dell'opera di Igort anche in Estremo Oriente (dove ha lavorato con regolarità per i colossi editoriali giapponesi), ma soprattutto con gli storici contatti che il produttore Marco Muller ha con quelle realtà, in quanto raffinato sinologo nonché tra i massimi studiosi e divulgatori occidentali del cinema cinese (a partire dalla prima retrospettiva europea Ombre elettriche, realizzata nel 1982 a Torino, Milano e Roma).
E la scelta di Johnnie To potrebbe rivelarsi davvero azzeccata, se si pensa allo stile del regista di noir cinematografici innovativi come PTU (2003) o Exiled (2006) e lo si accosta ad alcune dichiarazioni di Igort, che ha collaborato alla sceneggiatura del film: "Ho cercato di osservare Napoli - spiega lo scrittore-disegnatore - con quello sguardo sornione e ironico, fra tragedia e commedia, tipico dei grandi del nostro cinema, da Fellini e Monicelli a, soprattutto, Sergio Leone. Dal punto di vista stilistico, inoltre, ho utilizzato la bicromia bianco-nero e blu perché volevo disegnare una storia priva di colore, ma che riuscisse a evocarlo e contribuisse a sviluppare delle atmosfere. Blu è il colore della notte, ma usato su un disegno chiaro rende bene anche la luce lirica del sud dell'Italia". Non può essere una coincidenza, dunque, se Leone (assieme a Sam Peckinpah e Jean-Pierre Melville, omaggiato nel 2009 con Vendicami) è un riferimento esplicito del cinema di Johnnie To, oppure se proprio il blu (notte) è il colore che domina le atmosfere dei modernissimi film noir prodotti a Hong Kong dalla metà degli anni Ottanta a tutti i Novanta.
Nella versione cartacea, 5 è il numero perfetto è un affresco al tempo stesso ironico e tragico dell'Italia anni Settanta. Con i toni del pulp, racconta la storia di un guappo in pensione, Peppino Lo Cicero, che si occupa di pesca e del figlio Nino, guappo anche lui. Quando Nino cade vittima di un agguato, però, Peppino ricomincerà a sparare. Nella prima versione cinematografica, quella che avrebbe dovuto dirigere Eronico, per il ruolo di Lo Cicero era stato scelto Toni Servillo, che poi ha dovuto rinunciare in seguito ai continui rinvii del progetto. Il possibile film diretto da Johnnie To, invece, punterebbe su un big hollywoodiano, per dare all'intera operazione un maggiore respiro internazionale: il sogno è Robert De Niro. La cordata produttiva, comunque, è ancora in fase di ulteriore ampliamento, per coinvolgere anche partner stranieri. Il budget si aggirerà sui dieci milioni di euro.
Infatti, Muller ha accompagnato a Napoli, nei giorni scorsi, il regista Johnnie To, per una serie di sopralluoghi e di incontri con realtà locali come Teatri Uniti (che si occuperebbe della produzione esecutiva della pellicola), resi possibili grazie al lavoro di tessitura e supporto organizzativo della Film Commission Regione Campania. Con Muller e To, durante il soggiorno partenopeo durato quattro intensi giorni, c'erano la moglie dell'autore di Hong Kong e il suo aiuto-regista, oltre allo scenografo Lino Fiorito e al direttore della Film Commission regionale Maurizio Gemma. I sopralluoghi hanno interessato buona parte dell'area vesuviana e di quella flegrea, attraversate prevalentemente in auto; e poi, in città, il porto (in particolare, i moli commerciali pieni di container stipati l'uno sull'altro), la Sanità e i Decumani (percorsi a piedi, per soffermarsi meglio sui particolari), infine le cavità della Napoli sotterranea, il cui impatto visivo ha molto colpito Johnnie To. Il coinvolgimento dell'importante regista asiatico, autore di pellicole di culto come The Mission (1999) o Election (2005), si spiega con la popolarità dell'opera di Igort anche in Estremo Oriente (dove ha lavorato con regolarità per i colossi editoriali giapponesi), ma soprattutto con gli storici contatti che il produttore Marco Muller ha con quelle realtà, in quanto raffinato sinologo nonché tra i massimi studiosi e divulgatori occidentali del cinema cinese (a partire dalla prima retrospettiva europea Ombre elettriche, realizzata nel 1982 a Torino, Milano e Roma).
E la scelta di Johnnie To potrebbe rivelarsi davvero azzeccata, se si pensa allo stile del regista di noir cinematografici innovativi come PTU (2003) o Exiled (2006) e lo si accosta ad alcune dichiarazioni di Igort, che ha collaborato alla sceneggiatura del film: "Ho cercato di osservare Napoli - spiega lo scrittore-disegnatore - con quello sguardo sornione e ironico, fra tragedia e commedia, tipico dei grandi del nostro cinema, da Fellini e Monicelli a, soprattutto, Sergio Leone. Dal punto di vista stilistico, inoltre, ho utilizzato la bicromia bianco-nero e blu perché volevo disegnare una storia priva di colore, ma che riuscisse a evocarlo e contribuisse a sviluppare delle atmosfere. Blu è il colore della notte, ma usato su un disegno chiaro rende bene anche la luce lirica del sud dell'Italia". Non può essere una coincidenza, dunque, se Leone (assieme a Sam Peckinpah e Jean-Pierre Melville, omaggiato nel 2009 con Vendicami) è un riferimento esplicito del cinema di Johnnie To, oppure se proprio il blu (notte) è il colore che domina le atmosfere dei modernissimi film noir prodotti a Hong Kong dalla metà degli anni Ottanta a tutti i Novanta.
Nella versione cartacea, 5 è il numero perfetto è un affresco al tempo stesso ironico e tragico dell'Italia anni Settanta. Con i toni del pulp, racconta la storia di un guappo in pensione, Peppino Lo Cicero, che si occupa di pesca e del figlio Nino, guappo anche lui. Quando Nino cade vittima di un agguato, però, Peppino ricomincerà a sparare. Nella prima versione cinematografica, quella che avrebbe dovuto dirigere Eronico, per il ruolo di Lo Cicero era stato scelto Toni Servillo, che poi ha dovuto rinunciare in seguito ai continui rinvii del progetto. Il possibile film diretto da Johnnie To, invece, punterebbe su un big hollywoodiano, per dare all'intera operazione un maggiore respiro internazionale: il sogno è Robert De Niro. La cordata produttiva, comunque, è ancora in fase di ulteriore ampliamento, per coinvolgere anche partner stranieri. Il budget si aggirerà sui dieci milioni di euro.
venerdì 10 dicembre 2010
giovedì 9 dicembre 2010
mercoledì 8 dicembre 2010
martedì 7 dicembre 2010
UN RICORDO DI INGRID PITT, LA CARMILLA DELLA HAMMER
Di Franco Pezzini
(Carmilla - 6 dicembre 2010)
(Carmilla - 6 dicembre 2010)
[...] Ingrid Pitt, la più nota Carmilla del cinema, ha chiuso gli occhi il 23 novembre in un ospedale londinese, appena compiuti i 73 anni e a distanza di poche settimane dalla scomparsa del regista che per la Hammer l'aveva diretta in quel ruolo, Roy Ward Baker, in The Vampire Lovers (Vampiri amanti) del 1970. Il velato accento polacco - era nata a Treblinka, il 21 novembre 1937 - e una certa teatralità tra il malinconico e il melodrammatico fanno parlare di lei come di un Bela Lugosi al femminile. E in effetti le apparizioni dell'attrice in contesti gotici - non numerose, ma fondamentali - bastano a consacrarla tra le "Queens of Horror" più carismatiche ed effervescenti. Quando riceve la parte di Carmilla, l'attrice ha alle spalle una vita drammatica e avventurosa. Per l'anagrafe Ingoushka Petrov, è figlia di uno scienziato che rifiuta di collaborare ai piani missilistici nazisti e di un'ebrea polacca. A cinque anni - e per i successivi tre - vive prigioniera con la mamma nel campo di concentramento di Stutthof; ma, portate nella foresta per essere fucilate, le due donne riescono a fuggire e sono accolte tra i partigiani. Con il nuovo regime, incontriamo Ingrid a Berlino Est impegnata in lavoretti per i Berliner Ensemble, decisa a divenire attrice: il suo capo, Helene Weigel, vedova di Brecht, salva varie volte dall'arresto la giovane poco prudente nelle proprie opinioni sul regime. Quando le cose si mettono male, la sera stessa del debutto in teatro, Ingrid sfugge alla Volkspolizei con ancora il costume addosso e, dopo un tuffo nella Sprea, trova la salvezza, un bagno caldo e un po' di brandy in un bordello dal lato occidentale. Dopo una parentesi matrimoniale americana con un militare, torna nel Vecchio Mondo e appare con piccole parti in vari film spagnoli, l'unico dei quali ad avere risonanza all'estero è El sonido de la muerte (Prigionieri dell'orrore, 1964), dove recita a fianco di Soledad Miranda, futura e indimenticata interprete di vampire per Jess Franco. E saranno proprio Ingrid e Soledad, seguite certo da altre celebri colleghe ma mai eguagliate per presenza scenica, ad annunciare quell'Età d'oro delle vampire lesbiche (come è stata definita) che vede Carmilla imporsi nella nuova galleria teratologica di massa. Dopo altri piccoli ruoli da un lato all'altro dell'Atlantico, Ingrid ha infine la ventura di entrare nel cast di Where Eagles Dare (Dove osano le aquile, 1968), con la parte interessante dell'agente Fräulein Heidi: ed è proprio questo film che la fa notare dagli ammiragli Hammer. Di una Hammer in profonda ridefinizione e, ormai, negli anni del crepuscolo: anche se tale stagione tanto criticata mostra in realtà una vitalità e una capacità spregiudicata di conciliare tradizione e novità (i connubi tra vampiri e cappa-e-spada o persino kung-fu), con una fantasia che agli occhi odierni ha dello sbalorditivo. È in questo contesto che Roy Ward Baker (oggi è giusto ricordare anche lui), il successore insieme più autentico e più sovversivo di Terence Fisher, vara l'accesso di Carmilla al pandemonium Hammer. Illuminanti a questo proposito le pagine critiche di Teo Mora: quasi in consonanza con le tesi anarchiche dell'antipsichiatria inglese, solo in apparenza Baker aderisce alla separazione fisheriana tra mondo dell'Ordine e mondo del Caos, corrispondenti alla dicotomia Quotidiano / Soprannaturale. E, rovesciandone il segno in termini provocatori ("follia" liberatoria / normalità repressiva), permette una lettura completamente rinnovata del mostro. Ma è Ingrid Pitt / Carmilla, con la sua educazione sentimentale e sessuale delle giovani ospiti-vittime, a compiere l'opera, offrendo alla vampira una dignità torbida e complessa di personaggio - e una simpatia, il che non è poco - ben oltre i limiti delle battute concessele e tale da consacrarle un posto nella galleria di figure esemplari Hammer, nell'ambito di una mitologia di fortissimo impatto popolare.
Certo, in Vampiri amanti Carmilla non è l'adolescente di Le Fanu ma una giovane donna dall'aggressiva sessualità, in grado di sedurre e distruggere chiunque possa scoprire la sua vera natura. Eppure, al di là di questa e altre licenze, la versione bakeriana riesce a conservare la radicale ambiguità originaria delle figure e della vicenda, offrendone una lettura rispettosa e avvincente, dove anche la sensualità (non volgare né scontata, anche se sostanziata in nudità e atti erotici che il testo non conosce) non tradisce lo spirito originario. [...] E se la Hammer ha all'epoca motivi spregiudicatamente pragmatici e non certo libertari per cavalcare i temi della devianza sessuale e di una vivace dialettica erotica, dell'oppressione sessista e di una violenza (moderatamente) splatter, nei fatti, e grazie anche alle mezzetinte interpretative di Ingrid Pitt e Peter Cushing, Vampiri amanti mantiene ancora a una visione odierna un'affascinante carica provocatoria. Se la pellicola costituirà, anzi, il protofilm di un'intera saga Hammer dedicata ai Karnstein e Ingrid non parteciperà ad altre puntate, al contempo però rifiuterà varie offerte per film di vampiri banalmente erotici.
L'anno successivo, comunque, Ingrid Pitt colpisce ancora. Sempre per la Hammer la ritroviamo infatti in Countess Dracula (La morte va a braccetto con le vergini, 1971), l'opera che più direttamente consegna all'immaginario del cinema popolare la storia della Contessa Báthory, tra le innumerevoli sul tema che in quegli anni pare ossessionare i registi. Non a caso, il titolo un po' fuorviante, che sembra alludere a una nuova puntata del ciclo sul Conte transilvano, costituisce oggi il soprannome col quale la Contessa Sanguinaria è meglio conosciuta nei paesi anglofoni. Girato dal regista Peter Sasdy e prodotto da Alexander Paal - entrambi ungheresi espatriati - su sceneggiatura di Jeremy Paul dalla fantasiosa biografia di Valentine Penrose (1962, tradotta in inglese nel 1970), La morte va a braccetto con le vergini romanza melodrammaticamente la vita della nobildonna sulla falsariga delle vecchie voci in materia di cosmesi col sangue. Il clima claustrofobico è costruito non tanto sul tema dei crimini della protagonista - lo sguardo resta quello disinvolto di lei, per cui la morte delle serventi costituisce un dettaglio irrilevante - quanto sulle improvvise impennate di una vecchiaia sempre più rapida e disfatta: l'attrice alterna, dunque, sequenze in cui appare vizza e ingrigita con altre di splendore, nel fulgore di una bellezza cui il termine "sexy" (speso ancora largamente nelle commemorazioni di questi giorni) non offre giustizia. Certo, Ingrid Pitt è stata una delle attrici più sexy della sua stagione, ma in realtà molto di più: la sua bellezza è supportata da un carattere, uno spessore e un'intensità memorabilmente prestati ai ruoli.
[...] Ormai Ingrid è LA vampira. Tanto più che, in quello stesso 1971, viene arruolata in una produzione della casa rivale della Hammer, quella Amicus che ha portato in Inghilterra uno stile all'americana molto più fumettistico e si è specializzata in film a episodi. Come, appunto, The House That Dripped Blood (La casa che grondava sangue) di Peter Duffell, costruito collegando quattro storie di Robert Bloch: Ingrid compare nell'ultimo episodio, il grottesco The Cloak, impegnata nella caricatura di se stessa, sia come diva di una-casa-di-produzione-di-pellicole-horror (la Hammer, ovvio) sia come succhiasangue. Troviamo, dunque, la sua sofisticata, elegante e seducente Carla Lynde concedersi una rivincita a suon di canini sul collega specializzato in film vampireschi, interpretato, per il rifiuto di Christopher Lee, dal più modesto ma godibile Jon Pertwee. In altri episodi compaiono, però, Lee e Cushing e il film è l'unico, curiosamente non-Hammer, a riunire in scampagnata i tre attori-simbolo della Hammer stessa.
Se poi consideriamo che Ingrid tornerà un paio d'anni dopo, con un ruolo di contorno ma significativo, in quel capolavoro assoluto dell'horror che è The Wicker Man (1973) di Robin Hardy - con Lee come mattatore, e ci manca poco che entri anche Cushing, che deve però rifiutare la parte per altri impegni - è agevole comprendere come l'attrice possa a quel punto vantare una statura di simbolo nell'immaginario horror. Ma non solo nell'horror, a scorrere la lista delle interpretazioni in film fantastici, thriller e commedie, produzioni televisive e anche teatrali di svariato genere; e il diradare, nel decennio successivo, delle sue apparizioni su schermi e palchi, apre una vivace stagione di scrittrice, commentatrice (anche politica) e imprenditrice della propria immagine. Il suo sito, Pitt of Horror, diviene il portale di un dialogo costante con i fans, pragmaticamente aperto al merchandising. L'ultima apparizione su schermo, l'intrigante Sea of Dust (2008), sarà però ancora un tributo agli horror degli anni Sessanta e Settanta; e, qualche mese prima di morire, riuscirà a chiudere la narrazione di Ingrid Pitt: Beyond the Forest, un cortometraggio animato sulla sua esperienza con i nazisti, di uscita prevista nel 2011.
[...] Ha chiuso gli occhi, ho scritto all'inizio, ma ci aspettiamo quasi che li riapra, come la bellissima vampira dal suo sonno. E al di là delle convinzioni personali di ciascuno su cosa possa seguire questa vita, una forma di sopravvivenza è certa: perché Ingrid Pitt, Contessa Karnstein, non la dimenticheremo mai.
Certo, in Vampiri amanti Carmilla non è l'adolescente di Le Fanu ma una giovane donna dall'aggressiva sessualità, in grado di sedurre e distruggere chiunque possa scoprire la sua vera natura. Eppure, al di là di questa e altre licenze, la versione bakeriana riesce a conservare la radicale ambiguità originaria delle figure e della vicenda, offrendone una lettura rispettosa e avvincente, dove anche la sensualità (non volgare né scontata, anche se sostanziata in nudità e atti erotici che il testo non conosce) non tradisce lo spirito originario. [...] E se la Hammer ha all'epoca motivi spregiudicatamente pragmatici e non certo libertari per cavalcare i temi della devianza sessuale e di una vivace dialettica erotica, dell'oppressione sessista e di una violenza (moderatamente) splatter, nei fatti, e grazie anche alle mezzetinte interpretative di Ingrid Pitt e Peter Cushing, Vampiri amanti mantiene ancora a una visione odierna un'affascinante carica provocatoria. Se la pellicola costituirà, anzi, il protofilm di un'intera saga Hammer dedicata ai Karnstein e Ingrid non parteciperà ad altre puntate, al contempo però rifiuterà varie offerte per film di vampiri banalmente erotici.
L'anno successivo, comunque, Ingrid Pitt colpisce ancora. Sempre per la Hammer la ritroviamo infatti in Countess Dracula (La morte va a braccetto con le vergini, 1971), l'opera che più direttamente consegna all'immaginario del cinema popolare la storia della Contessa Báthory, tra le innumerevoli sul tema che in quegli anni pare ossessionare i registi. Non a caso, il titolo un po' fuorviante, che sembra alludere a una nuova puntata del ciclo sul Conte transilvano, costituisce oggi il soprannome col quale la Contessa Sanguinaria è meglio conosciuta nei paesi anglofoni. Girato dal regista Peter Sasdy e prodotto da Alexander Paal - entrambi ungheresi espatriati - su sceneggiatura di Jeremy Paul dalla fantasiosa biografia di Valentine Penrose (1962, tradotta in inglese nel 1970), La morte va a braccetto con le vergini romanza melodrammaticamente la vita della nobildonna sulla falsariga delle vecchie voci in materia di cosmesi col sangue. Il clima claustrofobico è costruito non tanto sul tema dei crimini della protagonista - lo sguardo resta quello disinvolto di lei, per cui la morte delle serventi costituisce un dettaglio irrilevante - quanto sulle improvvise impennate di una vecchiaia sempre più rapida e disfatta: l'attrice alterna, dunque, sequenze in cui appare vizza e ingrigita con altre di splendore, nel fulgore di una bellezza cui il termine "sexy" (speso ancora largamente nelle commemorazioni di questi giorni) non offre giustizia. Certo, Ingrid Pitt è stata una delle attrici più sexy della sua stagione, ma in realtà molto di più: la sua bellezza è supportata da un carattere, uno spessore e un'intensità memorabilmente prestati ai ruoli.
[...] Ormai Ingrid è LA vampira. Tanto più che, in quello stesso 1971, viene arruolata in una produzione della casa rivale della Hammer, quella Amicus che ha portato in Inghilterra uno stile all'americana molto più fumettistico e si è specializzata in film a episodi. Come, appunto, The House That Dripped Blood (La casa che grondava sangue) di Peter Duffell, costruito collegando quattro storie di Robert Bloch: Ingrid compare nell'ultimo episodio, il grottesco The Cloak, impegnata nella caricatura di se stessa, sia come diva di una-casa-di-produzione-di-pellicole-horror (la Hammer, ovvio) sia come succhiasangue. Troviamo, dunque, la sua sofisticata, elegante e seducente Carla Lynde concedersi una rivincita a suon di canini sul collega specializzato in film vampireschi, interpretato, per il rifiuto di Christopher Lee, dal più modesto ma godibile Jon Pertwee. In altri episodi compaiono, però, Lee e Cushing e il film è l'unico, curiosamente non-Hammer, a riunire in scampagnata i tre attori-simbolo della Hammer stessa.
Se poi consideriamo che Ingrid tornerà un paio d'anni dopo, con un ruolo di contorno ma significativo, in quel capolavoro assoluto dell'horror che è The Wicker Man (1973) di Robin Hardy - con Lee come mattatore, e ci manca poco che entri anche Cushing, che deve però rifiutare la parte per altri impegni - è agevole comprendere come l'attrice possa a quel punto vantare una statura di simbolo nell'immaginario horror. Ma non solo nell'horror, a scorrere la lista delle interpretazioni in film fantastici, thriller e commedie, produzioni televisive e anche teatrali di svariato genere; e il diradare, nel decennio successivo, delle sue apparizioni su schermi e palchi, apre una vivace stagione di scrittrice, commentatrice (anche politica) e imprenditrice della propria immagine. Il suo sito, Pitt of Horror, diviene il portale di un dialogo costante con i fans, pragmaticamente aperto al merchandising. L'ultima apparizione su schermo, l'intrigante Sea of Dust (2008), sarà però ancora un tributo agli horror degli anni Sessanta e Settanta; e, qualche mese prima di morire, riuscirà a chiudere la narrazione di Ingrid Pitt: Beyond the Forest, un cortometraggio animato sulla sua esperienza con i nazisti, di uscita prevista nel 2011.
[...] Ha chiuso gli occhi, ho scritto all'inizio, ma ci aspettiamo quasi che li riapra, come la bellissima vampira dal suo sonno. E al di là delle convinzioni personali di ciascuno su cosa possa seguire questa vita, una forma di sopravvivenza è certa: perché Ingrid Pitt, Contessa Karnstein, non la dimenticheremo mai.
lunedì 6 dicembre 2010
LO SCRITTORE GIANNI BIONDILLO E I SUOI SUPEREROI
Di Gianni Biondillo
(Io Donna - 4/10 dicembre 2010)
(Io Donna - 4/10 dicembre 2010)
Ognuno ha l'immaginario che si merita. O forse, più semplicemente, quello che si è trovato fra i piedi. Fossi cresciuto in un'altra epoca, chissà, avrei eroi differenti, mitologie più auliche, referenti più alti. Io sotto i banchi di scuola, alle elementari, non nascondevo dallo sguardo accigliato della mia maestra libelli rivoluzionari o romanzi magniloquenti ma i fumetti sgualciti dei supereroi americani. I giornaletti, li chiamava la maestra, spregiativa.
Il mio mondo fantastico ha preso il volo lì, di nascosto dalle autorità scolastiche. In casa poi, dato che non c'erano libri, figlio del sottoproletariato urbano, già il fatto che leggessi avidamente quei fumetti mi faceva sembrare strano, persino un po' eccentrico, agli occhi di molti. Perché non esce, si chiedevano, perché non va a giocare a pallone? Certo, ci andavo anche, ma vuoi mettere leggere vorace la nuova avventura di Capitan America? A pensarci oggi dovrei vergognarmi, lui così repubblicano, reazionario, ma io che ne potevo sapere dell'imperialismo capitalista a sette anni? Che cosa meravigliosa era scambiare con i compagnetti gli albi della gloriosa Editoriale Corno: "Ti do il numero 10 dell'Uomo Ragno se tu mi dai il numero 5 di Devil!".
Continuare gli studi, laurearsi, diventare adulti è servito a poco. Appena mi capita un fumetto fra le mani lo sbrano. So tutto della mitologia norrena non certo grazie ai miei studi di storia medievale, ma per la lettura accanita di Thor, il dio del tuono. Che personaggio impossibile, a guardarlo bene: con quei capelli biondi, lunghi fino alle spalle, e quell'elmo da vichingo! Una vera icona gay. Ora che ci penso sono sempre stati una cosa per maschi, i fumetti. Poche ragazze, insomma, con cui parlare di Superman. Ma nel tempo un certo puritanesimo guerresco veniva frantumandosi con l'irrompere dei primi mutamenti del corpo: i peli sotto le ascelle, la voce più cavernosa, le pulsioni erotiche... Le domande fondamentali della vita cambiavano da "Secondo te è più forte Hulk o la Cosa?" a, più maliziose, "Ma Mister Fantastic, quando fa sesso con la donna invisibile, allunga anche i suoi attributi genitali?".
Grande palestra dell'immaginario, il fumetto (adoro la parola "fumetto", ce l'abbiamo solo noi italiani, la trovo addirittura poetica). Ingenuo e popolare. Le gesta di Batman o degli X-Men, per me, si svolgevano in luoghi misteriosi e lontani, proprio come erano Tebe o Sparta per gli ateniesi che purificavano il loro animo guardando le tragedie nei teatri antichi. Certo c'è sempre stato un fumetto d'autore, ma non se la tirava! Autori come Alberto Breccia o Hugo Pratt sapevano che la forza del mezzo stava nella sua capillarità a basso costo, così da essere letti da chiunque. Le edicole erano i templi del mio culto privato, dove sacrificare i risparmi nel nome della fantasia al potere. Da adulto ho visto mutare il mercato, contrarsi, subire l'ultima fiammata con l'avvento dei manga giapponesi, e poi sfinire. Non dico morire, ma invecchiare. Nelle fumetterie è più facile incontrare quarantenni, insomma, che ragazzini. Loro, e hanno ragione, giocano alla PlayStation o alla Wii; il loro immaginario si sta formando lì: più dinamico, interattivo, veloce.
Invecchiare, però, significa anche crescere in qualità, intendiamoci. Dagli anni Novanta del secolo scorso autori straordinari hanno scritto vere epopee contemporanee, di grande complessità narrativa: Neil Gaiman, Alan Moore, Frank Miller… Molta della narrativa o della fiction contemporanea, anch'essa "diventata adulta" - e parlo, per dire, di Lost - deve a questi autori più di quello che è mai stato dichiarato. In Italia la critica letteraria snobba la letteratura disegnata, per quella intrinseca alterigia della categoria, ma mi capita spesso di parlare con tono carbonaro a poeti o narratori e scoprirli come me appassionati del genere. [...] M'è tornata alla mente una miniserie, Top 10, di Alan Moore. In una ipotetica città americana tutti, ma proprio tutti, buoni, cattivi, vecchi, bambini, persino i cani, possiedono costumi e superpoteri. Uno più strampalato dell'altro. Se un superpotere, che spesso appare come una difformità fisica, ti esclude dalla normalità, cos'è una società fatta di gente tutta difforme, differente, aliena? È una società tollerante, alla fine: c'è chi si innamora e chi impazzisce, ci sono i malvagi e i difensori della legge, c'è chi lavora e chi ozia, com'è dappertutto, insomma. Una metafora pop e poetica della società multietnica, una lezione sulla diversità, che oggi in Italia andrebbe letta a scuola (quella dove mi proibivano di leggere i fumetti). Perché quelle figure che ho imparato a conoscere da bambino sono ormai condivise da tutti noi; tracimano dalle pagine dei fumetti della nostra infanzia e diventano icone del contemporaneo. Entrano nei film, nelle fotografie, nel costume. Vengono manipolate alla bisogna, portandosi dietro la purezza della loro ingenuità primigenia, come certe immagini sacre di cappelle votive di campagna [...].
Il mio mondo fantastico ha preso il volo lì, di nascosto dalle autorità scolastiche. In casa poi, dato che non c'erano libri, figlio del sottoproletariato urbano, già il fatto che leggessi avidamente quei fumetti mi faceva sembrare strano, persino un po' eccentrico, agli occhi di molti. Perché non esce, si chiedevano, perché non va a giocare a pallone? Certo, ci andavo anche, ma vuoi mettere leggere vorace la nuova avventura di Capitan America? A pensarci oggi dovrei vergognarmi, lui così repubblicano, reazionario, ma io che ne potevo sapere dell'imperialismo capitalista a sette anni? Che cosa meravigliosa era scambiare con i compagnetti gli albi della gloriosa Editoriale Corno: "Ti do il numero 10 dell'Uomo Ragno se tu mi dai il numero 5 di Devil!".
Continuare gli studi, laurearsi, diventare adulti è servito a poco. Appena mi capita un fumetto fra le mani lo sbrano. So tutto della mitologia norrena non certo grazie ai miei studi di storia medievale, ma per la lettura accanita di Thor, il dio del tuono. Che personaggio impossibile, a guardarlo bene: con quei capelli biondi, lunghi fino alle spalle, e quell'elmo da vichingo! Una vera icona gay. Ora che ci penso sono sempre stati una cosa per maschi, i fumetti. Poche ragazze, insomma, con cui parlare di Superman. Ma nel tempo un certo puritanesimo guerresco veniva frantumandosi con l'irrompere dei primi mutamenti del corpo: i peli sotto le ascelle, la voce più cavernosa, le pulsioni erotiche... Le domande fondamentali della vita cambiavano da "Secondo te è più forte Hulk o la Cosa?" a, più maliziose, "Ma Mister Fantastic, quando fa sesso con la donna invisibile, allunga anche i suoi attributi genitali?".
Grande palestra dell'immaginario, il fumetto (adoro la parola "fumetto", ce l'abbiamo solo noi italiani, la trovo addirittura poetica). Ingenuo e popolare. Le gesta di Batman o degli X-Men, per me, si svolgevano in luoghi misteriosi e lontani, proprio come erano Tebe o Sparta per gli ateniesi che purificavano il loro animo guardando le tragedie nei teatri antichi. Certo c'è sempre stato un fumetto d'autore, ma non se la tirava! Autori come Alberto Breccia o Hugo Pratt sapevano che la forza del mezzo stava nella sua capillarità a basso costo, così da essere letti da chiunque. Le edicole erano i templi del mio culto privato, dove sacrificare i risparmi nel nome della fantasia al potere. Da adulto ho visto mutare il mercato, contrarsi, subire l'ultima fiammata con l'avvento dei manga giapponesi, e poi sfinire. Non dico morire, ma invecchiare. Nelle fumetterie è più facile incontrare quarantenni, insomma, che ragazzini. Loro, e hanno ragione, giocano alla PlayStation o alla Wii; il loro immaginario si sta formando lì: più dinamico, interattivo, veloce.
Invecchiare, però, significa anche crescere in qualità, intendiamoci. Dagli anni Novanta del secolo scorso autori straordinari hanno scritto vere epopee contemporanee, di grande complessità narrativa: Neil Gaiman, Alan Moore, Frank Miller… Molta della narrativa o della fiction contemporanea, anch'essa "diventata adulta" - e parlo, per dire, di Lost - deve a questi autori più di quello che è mai stato dichiarato. In Italia la critica letteraria snobba la letteratura disegnata, per quella intrinseca alterigia della categoria, ma mi capita spesso di parlare con tono carbonaro a poeti o narratori e scoprirli come me appassionati del genere. [...] M'è tornata alla mente una miniserie, Top 10, di Alan Moore. In una ipotetica città americana tutti, ma proprio tutti, buoni, cattivi, vecchi, bambini, persino i cani, possiedono costumi e superpoteri. Uno più strampalato dell'altro. Se un superpotere, che spesso appare come una difformità fisica, ti esclude dalla normalità, cos'è una società fatta di gente tutta difforme, differente, aliena? È una società tollerante, alla fine: c'è chi si innamora e chi impazzisce, ci sono i malvagi e i difensori della legge, c'è chi lavora e chi ozia, com'è dappertutto, insomma. Una metafora pop e poetica della società multietnica, una lezione sulla diversità, che oggi in Italia andrebbe letta a scuola (quella dove mi proibivano di leggere i fumetti). Perché quelle figure che ho imparato a conoscere da bambino sono ormai condivise da tutti noi; tracimano dalle pagine dei fumetti della nostra infanzia e diventano icone del contemporaneo. Entrano nei film, nelle fotografie, nel costume. Vengono manipolate alla bisogna, portandosi dietro la purezza della loro ingenuità primigenia, come certe immagini sacre di cappelle votive di campagna [...].
domenica 5 dicembre 2010
PANNONE: DALLA STORIA D'ITALIA A UN FILM SUL VESUVIO
Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 5 dicembre 2010)
(Il Mattino - 5 dicembre 2010)
Nel futuro prossimo del documentarista Gianfranco Pannone, uno tra i migliori specialisti italiani di cinema del reale, c'è un film dedicato al Vesuvio. "S'intitolerà Sul vulcano - anticipa il regista di origini partenopee - e inizierò a girarlo l'anno prossimo, subito dopo un altro progetto sulla comunità ebraica romana". Pannone scopre le carte sul nuovo film a margine della presentazione in anteprima per Napoli e la Campania di Ma che storia…, il suo recente documentario sui primi 150 anni dell'Italia unita, proiettato venerdì sera al cinema Astra di via Mezzocannone, nell'ambito di AstraDoc, l'interessante rassegna organizzata dall'Arcimovie di Ponticelli e dal Coinor dell'Università Federico II. La serata napoletana, tra l'altro, serve al regista anche per festeggiare, alla presenza di un ospite illustre come Ugo Gregoretti, la vittoria del suo film al Festival del cinema italiano di Madrid, dove giovedì è stato premiato come miglior documentario. In precedenza, Ma che storia... aveva suscitato grande interesse durante la Mostra del Cinema di Venezia, alla quale ha partecipato nella sezione Controcampo Italiano (qui, nella foto, Pannone tra Mario Martone e Ambrogio Sparagna, a Venezia: tutti e tre in camicia rossa garibaldina).
Ma, Pannone, come nasce il suo progetto dedicato al Vesuvio?
"E' un'idea che mi affascinava da tempo e che, tra l'altro, mi permetterà di tornare a lavorare nei miei luoghi d'origine. Sto ancora riflettendo sulla struttura da dare al film, ma spero di riuscire a restituire la complessità di un luogo come il Vesuvio, che secondo i vulcanologi è il più pericoloso d'Europa. Tutto ciò anche a causa della densità abitativa dell'intera area circostante".
Vi sarà, comunque, continuità di stile e struttura con i suoi precedenti lavori?
"Penso di sì, anche perché io ho un'idea ben precisa del documentario, che definisco "creativo" per come reinventa creativamente la realtà, nei confronti della quale deve porsi in maniera orizzontale, cioè ascoltarla senza rifarsi a tesi precostituite. Anche in futuro, poi, cercherò di non mettermi mai sulla difensiva dal punto di vista stilistico, ma di realizzare film che possano stare sul mercato e rivolgersi al più ampio pubblico possibile".
Tutto ciò, nonostante in Italia gli spazi per il documentario siano davvero pochi.
"Il problema, però, è anche di chi i documentari li fa, in particolare i giovani, che in assenza di mezzi si abituano ad accontentarsi e a pensare in piccolo, rischiando così l'autismo espressivo. Per me, invece, il documentario continua a offrire maggiore libertà rispetto al cinema di fiction, anche in una situazione drammatica come quella attuale, dove è diventato difficile mettere assieme persino budget di 200mila euro".
Dopo il clamore suscitato lo scorso anno con Il sol dell'avvenire, dedicato alla nascita delle Brigate rosse, con Ma che storia… lei racconta i primi 150 anni dell'Italia unita. Come ha affrontato una materia tanto vasta e complessa?
"Con l'ausilio dei tesori visivi, in buona parte misconosciuti, conservati nell'Archivio Luce, un autentico scrigno di gemme preziose. Così, attraverso l'utilizzo di migliaia di spezzoni di cinegiornali e documentari, ho provato a confrontarmi con l'idea che gli italiani hanno della propria storia, in modo non consolatorio né vittimistico, dalla presa di Roma al terremoto dell'Irpinia, dall'epoca dei briganti a quella degli emigranti, dal fascismo al boom economico. E ho fatto interagire le immagini con una serie di brani letterari sull'identità italiana, letti da Ugo Gregoretti, Leo Gullotta, Roberto Citran e Roberto De Francesco".
Un ruolo fondamentale, però, lo ha la colonna sonora, assemblata dall'etnomusicologo Ambrogio Sparagna.
"E difficilmente sarei arrivato a questo film, se non avessi conosciuto, grazie a un prezioso complice come Ambrogio, il patrimonio musicale di tradizione orale del Paese. Sparagna, infatti, ha selezionato canti popolari, stornelli più o meno ironici, grida di dolore della povera gente, canti dei briganti, ma anche contributi di autori come Viviani, rendendo in qualche modo Ma che storia… anche un film musicale. E proprio in questo patrimonio, prevalentemente orale, ho individuato gli anticorpi veri del popolo italiano".
Ma, Pannone, come nasce il suo progetto dedicato al Vesuvio?
"E' un'idea che mi affascinava da tempo e che, tra l'altro, mi permetterà di tornare a lavorare nei miei luoghi d'origine. Sto ancora riflettendo sulla struttura da dare al film, ma spero di riuscire a restituire la complessità di un luogo come il Vesuvio, che secondo i vulcanologi è il più pericoloso d'Europa. Tutto ciò anche a causa della densità abitativa dell'intera area circostante".
Vi sarà, comunque, continuità di stile e struttura con i suoi precedenti lavori?
"Penso di sì, anche perché io ho un'idea ben precisa del documentario, che definisco "creativo" per come reinventa creativamente la realtà, nei confronti della quale deve porsi in maniera orizzontale, cioè ascoltarla senza rifarsi a tesi precostituite. Anche in futuro, poi, cercherò di non mettermi mai sulla difensiva dal punto di vista stilistico, ma di realizzare film che possano stare sul mercato e rivolgersi al più ampio pubblico possibile".
Tutto ciò, nonostante in Italia gli spazi per il documentario siano davvero pochi.
"Il problema, però, è anche di chi i documentari li fa, in particolare i giovani, che in assenza di mezzi si abituano ad accontentarsi e a pensare in piccolo, rischiando così l'autismo espressivo. Per me, invece, il documentario continua a offrire maggiore libertà rispetto al cinema di fiction, anche in una situazione drammatica come quella attuale, dove è diventato difficile mettere assieme persino budget di 200mila euro".
Dopo il clamore suscitato lo scorso anno con Il sol dell'avvenire, dedicato alla nascita delle Brigate rosse, con Ma che storia… lei racconta i primi 150 anni dell'Italia unita. Come ha affrontato una materia tanto vasta e complessa?
"Con l'ausilio dei tesori visivi, in buona parte misconosciuti, conservati nell'Archivio Luce, un autentico scrigno di gemme preziose. Così, attraverso l'utilizzo di migliaia di spezzoni di cinegiornali e documentari, ho provato a confrontarmi con l'idea che gli italiani hanno della propria storia, in modo non consolatorio né vittimistico, dalla presa di Roma al terremoto dell'Irpinia, dall'epoca dei briganti a quella degli emigranti, dal fascismo al boom economico. E ho fatto interagire le immagini con una serie di brani letterari sull'identità italiana, letti da Ugo Gregoretti, Leo Gullotta, Roberto Citran e Roberto De Francesco".
Un ruolo fondamentale, però, lo ha la colonna sonora, assemblata dall'etnomusicologo Ambrogio Sparagna.
"E difficilmente sarei arrivato a questo film, se non avessi conosciuto, grazie a un prezioso complice come Ambrogio, il patrimonio musicale di tradizione orale del Paese. Sparagna, infatti, ha selezionato canti popolari, stornelli più o meno ironici, grida di dolore della povera gente, canti dei briganti, ma anche contributi di autori come Viviani, rendendo in qualche modo Ma che storia… anche un film musicale. E proprio in questo patrimonio, prevalentemente orale, ho individuato gli anticorpi veri del popolo italiano".
sabato 4 dicembre 2010
PER MARIO MARTONE UN PREMIO ANCHE A SORRENTO
Di Diego Del Pozzo
Per chi fa film, essere visti da più pubblico possibile è cosa essenziale, soprattutto se ciò che si ha da dire riguarda la memoria storica di una Nazione. Lo sa bene Mario Martone, che alle Giornate professionali di Sorrento si mostra sinceramente soddisfatto per i numeri in sala del suo kolossal Noi credevamo, rilettura problematica e antieroica del periodo risorgimentale, ricostruito dal punto di vista di coloro che subirono tale processo, tra disillusioni e tradimenti politici ed esistenziali. "Con questa pellicola - sottolinea Martone a margine della consegna del Premio Fac per il film d'arte e cultura - pensavo francamente di poter vincere qualcosa alla Mostra di Venezia, ma mai mi sarei aspettato, invece, un tale successo di pubblico". Soprattutto dopo la prima distribuzione in sole trenta copie, verrebbe da aggiungere. "Invece, gli spettatori - prosegue il regista napoletano - hanno voluto premiare il film in maniera spontanea, spinti semplicemente da ciò che abbiamo inteso raccontare. Ormai le copie sono salite a ottanta e l'incasso è superiore agli 800mila euro, con serie prospettive di superare il muro del milione di euro già in questo week-end. Tutto ciò, nonostante la lunghezza del film e un approccio narrativamente non certo semplice". Martone, peraltro, si sta dedicando intensamente alla promozione di Noi credevamo (qui sopra, il regista in una foto scattata sul set). "In queste settimane - racconta - sto girando l'Italia e incontrando il pubblico, da Nord a Sud. E, ovunque, sto riscontrando un enorme interesse e una partecipazione sincera. Tra l'altro, continua a sorprendermi il grande successo del film da Firenze in su". Parte del merito dell'inatteso boom di Noi credevamo (qui sotto, nella foto di Pietro Coccia, il regista Mario Martone con me e col collega e amico Renato Rizzardi) va agli esercenti che lo hanno sostenuto con convinzione. E proprio ai gestori delle sale sono riservati gli ultimi premi consegnati ieri a Sorrento, durante la giornata conclusiva della kermesse. E, tra le strutture premiate con i Biglietti d'oro dell'Anec per aver totalizzato il maggior numero di presenze, ve ne sono anche due situate in Campania: il Med The Space cinema di Napoli tra i multiplex con almeno otto schermi e l'Armida di Sorrento tra le monosale delle località con meno di 50mila abitanti. Erano diversi anni che due cinema campani non entravano nella rosa dei quindici vincitori.
Tra i film della prossima stagione cinematografica presentati, col trailer, nel corso dell'ultima giornata va registrato il forte apprezzamento degli esercenti nei confronti di Cose dell'altro mondo, diretto dal napoletano Francesco Patierno e distribuito da Medusa. La pellicola, presentata direttamente dal vicepresidente e amministratore delegato Gianpaolo Letta, si pone una domanda paradossale per far riflettere sul tema del razzismo: cosa succederebbe se una mattina, di punto in bianco, tutti gli extracomunitari svanissero dall'Italia? "Accade proprio questo - racconta Patierno - nel piccolo paesino del Veneto nel quale abbiamo ambientato la vicenda. E a scatenare lo strano evento è l'anatema di un industrialotto locale interpretato da Diego Abatantuono. Con lui, compongono il tris di protagonisti Valerio Mastandrea e Valentina Lodovini. Da parte mia, ho provato a realizzare una commedia di costume che fosse non convenzionale e che, in un contesto realistico, ruotasse attorno a uno spunto assolutamente surreale". Del film s'è molto parlato qualche mese fa, quando il sindaco leghista di Treviso, Gian Paolo Gobbi, sfrattò la produzione tra le polemiche, costringendola a "emigrare" nella vicina Bassano. "Ma non mi va - conclude il regista - di ritornare su quello spiacevole episodio. Diciamo che all'epoca ha fatto parecchia pubblicità al nostro film".
Tra i film della prossima stagione cinematografica presentati, col trailer, nel corso dell'ultima giornata va registrato il forte apprezzamento degli esercenti nei confronti di Cose dell'altro mondo, diretto dal napoletano Francesco Patierno e distribuito da Medusa. La pellicola, presentata direttamente dal vicepresidente e amministratore delegato Gianpaolo Letta, si pone una domanda paradossale per far riflettere sul tema del razzismo: cosa succederebbe se una mattina, di punto in bianco, tutti gli extracomunitari svanissero dall'Italia? "Accade proprio questo - racconta Patierno - nel piccolo paesino del Veneto nel quale abbiamo ambientato la vicenda. E a scatenare lo strano evento è l'anatema di un industrialotto locale interpretato da Diego Abatantuono. Con lui, compongono il tris di protagonisti Valerio Mastandrea e Valentina Lodovini. Da parte mia, ho provato a realizzare una commedia di costume che fosse non convenzionale e che, in un contesto realistico, ruotasse attorno a uno spunto assolutamente surreale". Del film s'è molto parlato qualche mese fa, quando il sindaco leghista di Treviso, Gian Paolo Gobbi, sfrattò la produzione tra le polemiche, costringendola a "emigrare" nella vicina Bassano. "Ma non mi va - conclude il regista - di ritornare su quello spiacevole episodio. Diciamo che all'epoca ha fatto parecchia pubblicità al nostro film".
giovedì 2 dicembre 2010
A SORRENTO IL NUOVO CAMERON E TOTO' IN 3D
Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 2 dicembre 2010)
(Il Mattino - 2 dicembre 2010)
Il 3D è il vero vincitore della trentatreesima edizione delle Giornate professionali di cinema, che ieri sera a Sorrento ha visto premiato il kolossal cameroniano Avatar (tridimensionale, appunto) come miglior incasso della stagione davanti a Benvenuti al Sud e Alice in Wonderland (anch'esso in 3D), ma che, soprattutto, ha detto con chiarezza come il cinema del futuro prossimo sia destinato a sfruttare in maniera sempre più massiccia i nuovi ritrovati delle tecnologie digitali. Basti pensare a come almeno un terzo delle centinaia di trailer proiettati in questi giorni all'Hilton Sorrento Palace anticipino film realizzati in 3D. E, a ulteriore conferma, basti il clamore suscitato ieri dalla presentazione di tre progetti cinematografici, due italiani e uno hollywoodiano, previsti per la nuova stagione cinematografica e destinati, ciascuno a modo suo, a proporre un ulteriore avanzamento nella corsa continua verso il cinema del futuro.
Quando si parla di futuro, il primo cineasta che balza alla mente è James Cameron, che dopo il tecnologicamente epocale Avatar sceglie proprio Sorrento per presentare, attraverso un video registrato per le Giornate professionali, il suo nuovo gioiellino in 3D, Sanctum, da lui concepito e prodotto per la regia di uno specialista di riprese subacquee e sotterranee come Alister Grierson: "Stavolta, ho applicato la tecnologia 3D - sottolinea il regista di origini canadesi - a un'ambientazione realistica: quella delle grotte e delle profondità sottomarine, per dimostrare che si posso creare effetti tridimensionali sbalorditivi anche senza andare sul pianeta Pandora. Inoltre, ho voluto esplorare il rapporto padre-figlio, i due speleologici protagonisti, come non avevo mai fatto in precedenza. Sanctum, tra l'altro, si avvale delle stesse tecnologie e delle medesime cineprese che ho utilizzato per Avatar, ma il contesto realistico rende tutto ancora più impressionante. Sono certo che gli appassionati non resteranno delusi da questo thriller ambientato in scenari straordinari e spaventosi come quelli offerti dalle profondità terrestri e marine". Il film sarà distribuito a febbraio dalla Eagle Pictures.
Il colpo di teatro della giornata, però, lo riserva Aurelio De Laurentiis, che apre la convention Filmauro con l'anteprima dei primi dieci minuti di Totò in 3D, ovvero Il più comico spettacolo del mondo, la pellicola ambientata nel mondo del circo diretta da Mario Mattoli nel 1953 e sceneggiata, tra gli altri, anche da Mario Monicelli. "Non sapevo nemmeno - racconta De Laurentiis - che questo film fosse stato girato in 3D. L'ho scoperto quando abbiamo iniziato a restaurarlo e, devo dire, sono rimasto sorpreso dalla modernità di certe soluzioni visive, che utilizzano al meglio, già nel 1953, le potenzialità della messa in scena tridimensionale". La visione entusiasma la platea degli esercenti, che evidentemente percepiscono le potenzialità commerciali della pellicola nella quale Totò recita nel costume del clown Tottons. "Il film - prosegue De Laurentiis - era in condizioni disastrose, ma il nostro restauro lo sta riportando a nuovo splendore. Saremo pronti per settembre del prossimo anno, poi lo presenteremo alla Festa di Roma e usciremo in sala subito dopo, anche se Totò 3D potrebbe essere perfetto pure per un'uscita natalizia". Il secondo progetto 3D italiano presentato ieri a Sorrento è il thriller Parking Lot, di Francesco Gasperoni, quarantaduenne studioso di fisica, che ha inventato e brevettato il nuovo sistema di ripresa tridimensionale 3Demon, utilizzato per il suo lavoro, scritto e interpretato da Harriet MacMasters-Green. "Il 3D non è costoso, ma soltanto complicato", spiega il regista. "Il mio sistema - prosegue - l'ho perfezionato usando persino costruzioni Lego e investendo poco più di 500 euro. In un mese, poi, ho fatto tutto il resto, miniaturizzando macchine che adesso esistono e funzionano. Per girare il film ho impiegato quattro settimane e, anche se per ora non abbiamo ancora distribuzione italiana, abbiamo destato grande interesse all'estero".
Quando si parla di futuro, il primo cineasta che balza alla mente è James Cameron, che dopo il tecnologicamente epocale Avatar sceglie proprio Sorrento per presentare, attraverso un video registrato per le Giornate professionali, il suo nuovo gioiellino in 3D, Sanctum, da lui concepito e prodotto per la regia di uno specialista di riprese subacquee e sotterranee come Alister Grierson: "Stavolta, ho applicato la tecnologia 3D - sottolinea il regista di origini canadesi - a un'ambientazione realistica: quella delle grotte e delle profondità sottomarine, per dimostrare che si posso creare effetti tridimensionali sbalorditivi anche senza andare sul pianeta Pandora. Inoltre, ho voluto esplorare il rapporto padre-figlio, i due speleologici protagonisti, come non avevo mai fatto in precedenza. Sanctum, tra l'altro, si avvale delle stesse tecnologie e delle medesime cineprese che ho utilizzato per Avatar, ma il contesto realistico rende tutto ancora più impressionante. Sono certo che gli appassionati non resteranno delusi da questo thriller ambientato in scenari straordinari e spaventosi come quelli offerti dalle profondità terrestri e marine". Il film sarà distribuito a febbraio dalla Eagle Pictures.
Il colpo di teatro della giornata, però, lo riserva Aurelio De Laurentiis, che apre la convention Filmauro con l'anteprima dei primi dieci minuti di Totò in 3D, ovvero Il più comico spettacolo del mondo, la pellicola ambientata nel mondo del circo diretta da Mario Mattoli nel 1953 e sceneggiata, tra gli altri, anche da Mario Monicelli. "Non sapevo nemmeno - racconta De Laurentiis - che questo film fosse stato girato in 3D. L'ho scoperto quando abbiamo iniziato a restaurarlo e, devo dire, sono rimasto sorpreso dalla modernità di certe soluzioni visive, che utilizzano al meglio, già nel 1953, le potenzialità della messa in scena tridimensionale". La visione entusiasma la platea degli esercenti, che evidentemente percepiscono le potenzialità commerciali della pellicola nella quale Totò recita nel costume del clown Tottons. "Il film - prosegue De Laurentiis - era in condizioni disastrose, ma il nostro restauro lo sta riportando a nuovo splendore. Saremo pronti per settembre del prossimo anno, poi lo presenteremo alla Festa di Roma e usciremo in sala subito dopo, anche se Totò 3D potrebbe essere perfetto pure per un'uscita natalizia". Il secondo progetto 3D italiano presentato ieri a Sorrento è il thriller Parking Lot, di Francesco Gasperoni, quarantaduenne studioso di fisica, che ha inventato e brevettato il nuovo sistema di ripresa tridimensionale 3Demon, utilizzato per il suo lavoro, scritto e interpretato da Harriet MacMasters-Green. "Il 3D non è costoso, ma soltanto complicato", spiega il regista. "Il mio sistema - prosegue - l'ho perfezionato usando persino costruzioni Lego e investendo poco più di 500 euro. In un mese, poi, ho fatto tutto il resto, miniaturizzando macchine che adesso esistono e funzionano. Per girare il film ho impiegato quattro settimane e, anche se per ora non abbiamo ancora distribuzione italiana, abbiamo destato grande interesse all'estero".
mercoledì 1 dicembre 2010
MONICELLI: IL "DIRECTOR'S CUT" E' DEL REGISTA
Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 30 novembre 2010)
(Il Mattino - 30 novembre 2010)
Mario Monicelli si è ucciso, buttandosi giù dal quinto piano del reparto di urologia dell'ospedale San Giovanni di Roma, dov'era ricoverato da domenica per un tumore alla prostata. Erano le 21 di ieri, poco dopo essersi sottoposto alla terapia, quando il regista, 95 anni, padre della commedia all'italiana, si è lanciato nel vuoto. Il corpo del cineasta è stato trovato dagli addetti sanitari a terra, disteso nei viali vicino alle aiuole, a pochi metri dal pronto soccorso. È stato subito riparato dalla pioggia con una lunga busta bianca, mentre sopra, in alto, a una decina di metri di altezza, una luce segnalava il balcone dal quale Monicelli si era lanciato giù. Subito in ospedale sono giunti l'ultima compagna Chiara Rapaccini (si erano conosciuti quando lui aveva 59 anni e lei 19, hanno avuto la figlia Rosa, quando lei ne aveva 34 e lui 74) e i familiari. Inutile è stata la ricerca di qualche messaggio di addio, perché Monicelli non ha lasciato nessun biglietto nella sua stanza a spiegazione del drammatico gesto.
Nelle case degli italiani la notizia è arrivata con Fabio Fazio, che ha interrotto l'ultima puntata di Vieni via con me su Raitre: "Non posso andare avanti, devo dirvi che è morto Mario Monicelli. Lo avremmo tanto voluto qui, ma era malato e adesso non c'è più", ha detto il conduttore, visibilmente commosso. Poi, nel gioco a due con Roberto Saviano "Resto perché/Vado via perché", di nuovo un ricordo del regista: "Resto perché voglio rivedere tanti film di Monicelli", ha detto Fazio, elencando tutti i titoli più celebri, da I soliti ignoti a La grande guerra, da L'armata Brancaleone a Speriamo che sia femmina, da Il marchese del grillo a Parenti serpenti. "Quello che è successo mi ha lasciato estremamente basito", ha commentato a caldo Aurelio De Laurentiis: "Io che lo conoscevo profondamente e sapevo della sua grande dignità e del suo desiderio di essere sempre indipendente e autonomo, posso capire questo gesto. Ultimamente aveva perso anche la vista ma fino all'ultimo era stato capace di una deambulazione perfetta. Insomma, una persona sana che non tollerava l'idea di poter dipendere da qualcuno", ha commentato il produttore, che ha firmato tanti dei film di Monicelli, da Un borghese piccolo piccolo ad Amici miei. "Ultimamente aveva perso molti punti di riferimento con la morte, per esempio, di Pinelli e Suso Cecchi d'Amico", ha continuato De Laurentiis, cercando di spiegarsi i motivi della scelta dell'anziano maestro, piegato dalla malattia nel fisico, mai nel morale, almeno mai sino al punto di perdere il gusto per la battuta salace, anzi feroce. Almeno sino a ieri, quando si è ucciso come il padre, ponendo fine a una vita che gli sembrava non più degna di essere vissuta.
Era favorevole all'eutanasia, il regista. Per lui quello dell'eutanasia era "un tema che si potrebbe benissimo trattare come una commedia all'italiana, ironizzando e mettendo in ridicolo quelli che pensano che un disgraziato debba rimanere lì a soffrire, per grazia di non si sa chi, per la deontologia del medico, o per chissà cosa altro". Ne aveva parlato anche in tv a Le Iene e a Radio Radicale: "La commedia non è mai stata violentissima contro la Chiesa e, anzi, ha sempre raccontato i preti come persone con le quali si potesse convivere, poiché nessun sacerdote è stato terribilmente prono alle regole della sua confessione, della quale magari ha rotto i digiuni commettendo anche peccati carnali. Dunque, perché dovrebbe esserci un Dio così terribile da non concedere il perdono? Perciò, noi ci si fida di questo assunto e si fa come si vuole".
"Non so che cosa si dirà domani di quello che è successo, ma una cosa va detta", ha commentato commosso il regista Giovanni Veronesi: "Non ho mai sentito nessuno che si suicida a 95 anni. Era davvero speciale".
Nelle case degli italiani la notizia è arrivata con Fabio Fazio, che ha interrotto l'ultima puntata di Vieni via con me su Raitre: "Non posso andare avanti, devo dirvi che è morto Mario Monicelli. Lo avremmo tanto voluto qui, ma era malato e adesso non c'è più", ha detto il conduttore, visibilmente commosso. Poi, nel gioco a due con Roberto Saviano "Resto perché/Vado via perché", di nuovo un ricordo del regista: "Resto perché voglio rivedere tanti film di Monicelli", ha detto Fazio, elencando tutti i titoli più celebri, da I soliti ignoti a La grande guerra, da L'armata Brancaleone a Speriamo che sia femmina, da Il marchese del grillo a Parenti serpenti. "Quello che è successo mi ha lasciato estremamente basito", ha commentato a caldo Aurelio De Laurentiis: "Io che lo conoscevo profondamente e sapevo della sua grande dignità e del suo desiderio di essere sempre indipendente e autonomo, posso capire questo gesto. Ultimamente aveva perso anche la vista ma fino all'ultimo era stato capace di una deambulazione perfetta. Insomma, una persona sana che non tollerava l'idea di poter dipendere da qualcuno", ha commentato il produttore, che ha firmato tanti dei film di Monicelli, da Un borghese piccolo piccolo ad Amici miei. "Ultimamente aveva perso molti punti di riferimento con la morte, per esempio, di Pinelli e Suso Cecchi d'Amico", ha continuato De Laurentiis, cercando di spiegarsi i motivi della scelta dell'anziano maestro, piegato dalla malattia nel fisico, mai nel morale, almeno mai sino al punto di perdere il gusto per la battuta salace, anzi feroce. Almeno sino a ieri, quando si è ucciso come il padre, ponendo fine a una vita che gli sembrava non più degna di essere vissuta.
Era favorevole all'eutanasia, il regista. Per lui quello dell'eutanasia era "un tema che si potrebbe benissimo trattare come una commedia all'italiana, ironizzando e mettendo in ridicolo quelli che pensano che un disgraziato debba rimanere lì a soffrire, per grazia di non si sa chi, per la deontologia del medico, o per chissà cosa altro". Ne aveva parlato anche in tv a Le Iene e a Radio Radicale: "La commedia non è mai stata violentissima contro la Chiesa e, anzi, ha sempre raccontato i preti come persone con le quali si potesse convivere, poiché nessun sacerdote è stato terribilmente prono alle regole della sua confessione, della quale magari ha rotto i digiuni commettendo anche peccati carnali. Dunque, perché dovrebbe esserci un Dio così terribile da non concedere il perdono? Perciò, noi ci si fida di questo assunto e si fa come si vuole".
"Non so che cosa si dirà domani di quello che è successo, ma una cosa va detta", ha commentato commosso il regista Giovanni Veronesi: "Non ho mai sentito nessuno che si suicida a 95 anni. Era davvero speciale".
sabato 27 novembre 2010
venerdì 26 novembre 2010
martedì 23 novembre 2010
DAL BLOG "OBIETTIVO CALCIO": "IL DISAGIO"
Obiettivo Calcio: Il disagio: "Un tragico fatto di cronaca. Accade alle porte di Bologna. Un ragazzino di 15 anni si suicida con la pistola che il padre custodiva (con regolare porto d'armi) in casa. Una fine inspiegabile..."
lunedì 22 novembre 2010
venerdì 19 novembre 2010
A NAPOLI UN EVENTO CULTURALE SUL RISORGIMENTO
Di Diego Del Pozzo
Mentre Noi credevamo di Mario Martone (nella foto, una scena del film) fa segnare l'incasso medio più elevato dello scorso week-end cinematografico - 4.288 euro per sala (per totali 124.356), contro i 2.974 euro della commedia Maschi contro femmine - e si dimostra più forte di chi ha voluto distribuirlo in sole trenta copie (che, per fortuna, da oggi diventano cinquantacinque), anche l'Università degli Studi di Napoli "Federico II" celebra il centocinquantesimo anniversario dell'Unità d'Italia, con Visioni e revisioni del Risorgimento nel cinema italiano (1905-2010), una lunga rassegna di cinema e storia che è stata inaugurata ieri pomeriggio e andrà avanti fino al 7 aprile del prossimo anno. L'interessante iniziativa culturale, curata da Massimo Cattaneo e Marcella Marmo e organizzata dal Dipartimento di Discipline Storiche "Ettore Lepore" assieme al Centro Interdipartimentale per la Storia delle Società Rurali, al Dottorato in Storia e all'Accademia di Belle Arti di Napoli, propone un intenso calendario di appuntamenti con film italiani che, dal muto a oggi, hanno riletto l'epopea risorgimentale da differenti punti di vista. A corredo delle proiezioni, il programma offre anche tavole rotonde, presentazioni librarie, incontri con gli autori. "Dai cortometraggi muti che portavano nelle prime sale all'inizio del Novecento un Risorgimento di eroi, fino al film di Martone appena uscito e dedicato alle sofferenti biografie di patrioti delusi, il cinema italiano - sottolineano i curatori Cattaneo e Marmo - ha ripercorso la vicenda fondante dell'unificazione con una ricca produzione di fiction, di volta in volta contemporanea allo svolgersi della storia nazionale e alle complesse vie della memoria sociale".
L'appuntamento inaugurale di ieri pomeriggio è stato dedicato alla presentazione del libro di Pietro Cavallo Viva l'Italia. Storia, cinema e identità nazionale (1932-1962) edito da Liguori. A introdurre il volume, assieme all'autore, sono intervenuti gli storici Marcella Marmo, Andrea Graziosi e Pasquale Iaccio. La manifestazione proseguirà, poi, dal 1 al 3 dicembre presso la biblioteca della Società di Storia patria (nel Maschio Angioino), con una tre giorni su Il Risorgimento inquieto di Luchino Visconti. Il Gattopardo e Senso dal testo letterario al film, con proiezioni dei due capolavori viscontiani e dibattiti con specialisti come Giulio Ferroni, Marina Mayrhofer, Paolo Macry e Guido D'Agostino. Dal 9 al 16 dicembre, quindi, la Facoltà di Giurisprudenza della "Federico II" ospiterà il mini-ciclo Dal cinema muto al Ventennio al centenario dell'Unità: il Risorgimento tra celebrazione e propaganda, con visioni di classici come La presa di Roma di Filoteo Alberini o 1860 di Alessandro Blasetti e interventi di Mario Franco, Vincenzo Esposito, Renata De Lorenzo, Giovanni Muto.
Col nuovo anno, la rassegna riprenderà ospitando i registi Antonietta De Lillo (della quale, il 13 gennaio, si vedrà Il resto di niente), Lamberto Lambertini (27 gennaio, Fuoco su di me), Paolo e Vittorio Taviani (3 febbraio, Allonsanfan) per riflettere sulle rivoluzioni precedenti al Risorgimento. Nelle settimane successive, tutti i giovedì dal 17 febbraio al 24 marzo, saranno proiettati film (sempre introdotti da storici ed esperti) su Risorgimento e Mezzogiorno tra utopie e realtà, da Bronte di Florestano Vancini fino a Il brigante di Tacca di Lupo di Pietro Germi. Seguirà un approfondimento sul brigantaggio, il 30 e 31 marzo, con tavola rotonda coordinata da Marcella Marmo e Giuseppe Civile e proiezione de Li chiamarono… briganti di Pasquale Squitieri. In conclusione, il 7 aprile 2011, Mario Martone interverrà a una tavola rotonda dedicata proprio al suo film Noi credevamo.
L'appuntamento inaugurale di ieri pomeriggio è stato dedicato alla presentazione del libro di Pietro Cavallo Viva l'Italia. Storia, cinema e identità nazionale (1932-1962) edito da Liguori. A introdurre il volume, assieme all'autore, sono intervenuti gli storici Marcella Marmo, Andrea Graziosi e Pasquale Iaccio. La manifestazione proseguirà, poi, dal 1 al 3 dicembre presso la biblioteca della Società di Storia patria (nel Maschio Angioino), con una tre giorni su Il Risorgimento inquieto di Luchino Visconti. Il Gattopardo e Senso dal testo letterario al film, con proiezioni dei due capolavori viscontiani e dibattiti con specialisti come Giulio Ferroni, Marina Mayrhofer, Paolo Macry e Guido D'Agostino. Dal 9 al 16 dicembre, quindi, la Facoltà di Giurisprudenza della "Federico II" ospiterà il mini-ciclo Dal cinema muto al Ventennio al centenario dell'Unità: il Risorgimento tra celebrazione e propaganda, con visioni di classici come La presa di Roma di Filoteo Alberini o 1860 di Alessandro Blasetti e interventi di Mario Franco, Vincenzo Esposito, Renata De Lorenzo, Giovanni Muto.
Col nuovo anno, la rassegna riprenderà ospitando i registi Antonietta De Lillo (della quale, il 13 gennaio, si vedrà Il resto di niente), Lamberto Lambertini (27 gennaio, Fuoco su di me), Paolo e Vittorio Taviani (3 febbraio, Allonsanfan) per riflettere sulle rivoluzioni precedenti al Risorgimento. Nelle settimane successive, tutti i giovedì dal 17 febbraio al 24 marzo, saranno proiettati film (sempre introdotti da storici ed esperti) su Risorgimento e Mezzogiorno tra utopie e realtà, da Bronte di Florestano Vancini fino a Il brigante di Tacca di Lupo di Pietro Germi. Seguirà un approfondimento sul brigantaggio, il 30 e 31 marzo, con tavola rotonda coordinata da Marcella Marmo e Giuseppe Civile e proiezione de Li chiamarono… briganti di Pasquale Squitieri. In conclusione, il 7 aprile 2011, Mario Martone interverrà a una tavola rotonda dedicata proprio al suo film Noi credevamo.
giovedì 18 novembre 2010
CAMUS-PASOLINI: INTERVISTA A STANISLAS NORDEY
Di Diego Del Pozzo
Grazie alla sua storica versione teatrale di Bestia da stile, messa in scena nel 1992 nella sezione "Off" del Festival di Avignone, Stanislas Nordey ha il merito di aver fatto scoprire alla Francia il Pier Paolo Pasolini autore teatrale, fino ad allora mai rappresentato sui palcoscenici dell'Esagono, dov'era conosciuto e ammirato soprattutto come poeta e cineasta. Da allora, il teatro pasoliniano ha accompagnato l'intera carriera di Nordey, quarantacinquenne attore e regista premiato, negli anni, con riconoscimenti teatrali prestigiosi come il Laurence Olivier Award e il premio Georges Lerminier del Syndicat de la Critique. Nordey (qui nella foto), reduce dalla regia teatrale de I giusti di Albert Camus, è intervenuto alle Giornate Camus-Pasolini, organizzate a Napoli dall'Istituto francese Grenoble, con le Università Federico II, L'Orientale, Paris 3 e Amiens, la Fondazione Banco di Napoli, la Cineteca di Bologna (per il Fondo Pasolini) e Sofia. In particolare, ha partecipato alla giornata inaugurale della manifestazione, dedicata al tema Mettere in scena Camus e Pasolini, del quale ha discusso con Maurizio Scaparro, Orlando Cinque e Laura Angiulli.
Cosa hanno in comune, dunque, il teatro di Camus e quello di Pasolini?
"Ben poco, perché perseguono fini differenti, pur rifacendosi entrambi alla tragedia antica. Pasolini rivendica le difficoltà del suo linguaggio teatrale, mentre Camus riesce ad abbinare facile e difficile. Più in generale, invece, entrambi sono sempre stati considerati degli eclettici, se visti dall'esterno, per aver frequentato regolarmente linguaggi artistici diversi. In realtà, tutti e due hanno saputo declinare le proprie ossessioni in forme differenti, abbinando spesso saggio e narrazione con rara efficacia".
Negli anni, il teatro pasoliniano ha fatto quasi da bussola al suo percorso artistico.
"Ho iniziato proprio con lui, mettendo in scena Bestia da stile nel 1992. Poi, sono seguiti Calderon, Pilade, Porcile e il ruolo da attore in Orgia: insomma, ho lavorato su cinque dei sei testi teatrali di Pasolini. Ma non è solo questo, perché ho basato la mia stessa estetica sul suo manifesto teatrale, portandone le indicazioni sulla scena francese e contribuendo, in qualche modo, alla ridefinizione dei ruoli di attori e regista secondo le modernissime intuizioni pasoliniane. Nel corso degli anni, quindi, ho orientato le mie scelte artistiche basandomi sul suo linguaggio e ho sempre utilizzato Pasolini come parametro di riferimento anche quando mi sono confrontato con testi di altri autori".
Cosa la colpisce di più dell'opera pasoliniana?
"Certamente la sua straordinaria capacità di abbinare forza poetica e analisi politica. Tra i suoi tanti aspetti differenti, comunque, io preferisco il Pasolini poeta. Amo molto, però, anche il suo cinema. In particolare, un film come Salò, inconoscibile e controverso a ogni nuova visione".
Dopo la regia de I giusti di Camus, che le è valso il premio Georges Lerminier, ha in programma un ritorno a Pasolini?
"In effetti sì, perché ho in mente di fare qualcosa da Petrolio, uno tra i suoi testi più dirompenti. Però, sto lavorando anche a una versione de La metamorfosi di Kafka e alla commedia Trovarsi di Pirandello".
Dopo gli incontri ospitati dal Grenoble e dedicati al teatro e al cinema dei due autori, le Giornate Camus-Pasolini si concludono oggi (a partire dalle 9.30), a Palazzo Giusso dell'Orientale (largo San Giovanni Maggiore, 30), con la tavola rotonda Il mito e la tragedia.
Cosa hanno in comune, dunque, il teatro di Camus e quello di Pasolini?
"Ben poco, perché perseguono fini differenti, pur rifacendosi entrambi alla tragedia antica. Pasolini rivendica le difficoltà del suo linguaggio teatrale, mentre Camus riesce ad abbinare facile e difficile. Più in generale, invece, entrambi sono sempre stati considerati degli eclettici, se visti dall'esterno, per aver frequentato regolarmente linguaggi artistici diversi. In realtà, tutti e due hanno saputo declinare le proprie ossessioni in forme differenti, abbinando spesso saggio e narrazione con rara efficacia".
Negli anni, il teatro pasoliniano ha fatto quasi da bussola al suo percorso artistico.
"Ho iniziato proprio con lui, mettendo in scena Bestia da stile nel 1992. Poi, sono seguiti Calderon, Pilade, Porcile e il ruolo da attore in Orgia: insomma, ho lavorato su cinque dei sei testi teatrali di Pasolini. Ma non è solo questo, perché ho basato la mia stessa estetica sul suo manifesto teatrale, portandone le indicazioni sulla scena francese e contribuendo, in qualche modo, alla ridefinizione dei ruoli di attori e regista secondo le modernissime intuizioni pasoliniane. Nel corso degli anni, quindi, ho orientato le mie scelte artistiche basandomi sul suo linguaggio e ho sempre utilizzato Pasolini come parametro di riferimento anche quando mi sono confrontato con testi di altri autori".
Cosa la colpisce di più dell'opera pasoliniana?
"Certamente la sua straordinaria capacità di abbinare forza poetica e analisi politica. Tra i suoi tanti aspetti differenti, comunque, io preferisco il Pasolini poeta. Amo molto, però, anche il suo cinema. In particolare, un film come Salò, inconoscibile e controverso a ogni nuova visione".
Dopo la regia de I giusti di Camus, che le è valso il premio Georges Lerminier, ha in programma un ritorno a Pasolini?
"In effetti sì, perché ho in mente di fare qualcosa da Petrolio, uno tra i suoi testi più dirompenti. Però, sto lavorando anche a una versione de La metamorfosi di Kafka e alla commedia Trovarsi di Pirandello".
Dopo gli incontri ospitati dal Grenoble e dedicati al teatro e al cinema dei due autori, le Giornate Camus-Pasolini si concludono oggi (a partire dalle 9.30), a Palazzo Giusso dell'Orientale (largo San Giovanni Maggiore, 30), con la tavola rotonda Il mito e la tragedia.
Ps: Una versione più breve di questa intervista è stata pubblicata ieri sul quotidiano Il Mattino.
martedì 16 novembre 2010
domenica 14 novembre 2010
CINEMA: NON HANNO CREDUTO IN "NOI CREDEVAMO"
Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 13 novembre 2010)
(Il Mattino - 13 novembre 2010)
Continua a far discutere la scelta della Rai, attraverso il marchio 01 Distribution, di limitare l'uscita nei cinema di Noi credevamo di Mario Martone a sole trenta copie in tutta Italia, nonostante il successo di pubblico e critica ottenuto dal film alla Mostra di Venezia, accompagnato anche da quelle polemiche che - a pochi mesi dall'anniversario dei centocinquant'anni dell'Unità nazionale - avrebbero potuto creare attorno alla sanguigna e problematica rilettura martoniana del Risorgimento un caso mediatico.
Così, però, non è stato; e dunque, anche venerdì sera, durante la presentazione napoletana al multicinema Modernissimo, i tanti attori presenti in sala hanno colto l'occasione per far sentire la propria voce a sostegno di un progetto nel quale tutti loro hanno, evidentemente, creduto molto. "Forse qualcuno non voleva dare troppo spazio a questo film - spiega, per esempio, Renato Carpentieri, che interpreta Carlo Poerio - per come indaga lungo alcune direttrici interrotte del Risorgimento italiano e per come, in maniera estremamente contemporanea, fa capire ai giovani che, a volte, ribellarsi è giusto". Gli fa eco anche Enzo Salomone (che nel film è il marchese Pica): "Evidentemente, non potendo censurarlo hanno pensato di limitarne al massimo la diffusione. In più, va anche considerato che, probabilmente, in Rai avranno pensato pure a non danneggiare il presumibile passaggio televisivo della versione lunga, che potrebbe avvenire l'anno prossimo in occasione del centocinquantenario dell'Unità: così, meno persone vedono il film al cinema e più audience ci sarà allora".
Assieme a Carpentieri e Salomone, hanno salutato il folto pubblico presente al Modernissimo anche gli altri attori Antonio Pennarella, Antonello Cossia, Salvatore Cantalupo, Marco Mario De Notaris, Danilo Rovani, Maria Scorza e l'aiuto regista Raffaele Di Florio. E proprio Pennarella individua un nuovo, possibile sbocco per aumentare la diffusione del film: "Per me, dovrebbe essere mostrato ai ragazzi delle scuole, per fargli conoscere il Risorgimento anche da un altro punto di vista. Nel film, infatti, c'è un forte intento didattico, nel senso più alto del termine, proprio come nei capolavori storici che realizzò Roberto Rossellini per la televisione. A me, per esempio, ha ricordato molto proprio il Luigi XIV rosselliniano". Salvatore Cantalupo, da parte sua, è più drastico: "Il film di Martone riapre questioni ancora irrisolte e fa riflettere su temi che, storicamente, si è invece sempre preferito mettere a tacere: è questa, probabilmente, la sua colpa".
Kolossal costato non più di sei milioni di euro, Noi credevamo riunisce, assieme agli attori presenti ieri al Modernissimo, alcuni tra gli interpreti migliori del panorama cinematografico italiano: Luigi Lo Cascio, Valerio Binasco, Francesca Inaudi, Toni Servillo, Luca Zingaretti, Luca Barbareschi, Anna Bonaiuto, Andrea Renzi, Roberto De Francesco. "In un periodo nel quale - aggiunge Antonio Pennarella - gli attori di professione sono sempre più danneggiati da quelli presi dalla strada, fa piacere che un autore sensibile e intelligente come Mario Martone si sia affidato a veri professionisti anche solo per poche battute". E sulla questione della distribuzione zoppicante dice la sua, da Milano, anche Toni Servillo, che nel film è un Giuseppe Mazzini dalle mille sfaccettature: "Mi auguro che le trenta copie di Noi credevamo facciano il loro dovere e il tutto esaurito nelle sale, spettacolo per spettacolo. Però, c'è amarezza se si pensa che vengono distribuite in centinaia di copie pellicole delle quali non andare particolarmente fieri".
Così, però, non è stato; e dunque, anche venerdì sera, durante la presentazione napoletana al multicinema Modernissimo, i tanti attori presenti in sala hanno colto l'occasione per far sentire la propria voce a sostegno di un progetto nel quale tutti loro hanno, evidentemente, creduto molto. "Forse qualcuno non voleva dare troppo spazio a questo film - spiega, per esempio, Renato Carpentieri, che interpreta Carlo Poerio - per come indaga lungo alcune direttrici interrotte del Risorgimento italiano e per come, in maniera estremamente contemporanea, fa capire ai giovani che, a volte, ribellarsi è giusto". Gli fa eco anche Enzo Salomone (che nel film è il marchese Pica): "Evidentemente, non potendo censurarlo hanno pensato di limitarne al massimo la diffusione. In più, va anche considerato che, probabilmente, in Rai avranno pensato pure a non danneggiare il presumibile passaggio televisivo della versione lunga, che potrebbe avvenire l'anno prossimo in occasione del centocinquantenario dell'Unità: così, meno persone vedono il film al cinema e più audience ci sarà allora".
Assieme a Carpentieri e Salomone, hanno salutato il folto pubblico presente al Modernissimo anche gli altri attori Antonio Pennarella, Antonello Cossia, Salvatore Cantalupo, Marco Mario De Notaris, Danilo Rovani, Maria Scorza e l'aiuto regista Raffaele Di Florio. E proprio Pennarella individua un nuovo, possibile sbocco per aumentare la diffusione del film: "Per me, dovrebbe essere mostrato ai ragazzi delle scuole, per fargli conoscere il Risorgimento anche da un altro punto di vista. Nel film, infatti, c'è un forte intento didattico, nel senso più alto del termine, proprio come nei capolavori storici che realizzò Roberto Rossellini per la televisione. A me, per esempio, ha ricordato molto proprio il Luigi XIV rosselliniano". Salvatore Cantalupo, da parte sua, è più drastico: "Il film di Martone riapre questioni ancora irrisolte e fa riflettere su temi che, storicamente, si è invece sempre preferito mettere a tacere: è questa, probabilmente, la sua colpa".
Kolossal costato non più di sei milioni di euro, Noi credevamo riunisce, assieme agli attori presenti ieri al Modernissimo, alcuni tra gli interpreti migliori del panorama cinematografico italiano: Luigi Lo Cascio, Valerio Binasco, Francesca Inaudi, Toni Servillo, Luca Zingaretti, Luca Barbareschi, Anna Bonaiuto, Andrea Renzi, Roberto De Francesco. "In un periodo nel quale - aggiunge Antonio Pennarella - gli attori di professione sono sempre più danneggiati da quelli presi dalla strada, fa piacere che un autore sensibile e intelligente come Mario Martone si sia affidato a veri professionisti anche solo per poche battute". E sulla questione della distribuzione zoppicante dice la sua, da Milano, anche Toni Servillo, che nel film è un Giuseppe Mazzini dalle mille sfaccettature: "Mi auguro che le trenta copie di Noi credevamo facciano il loro dovere e il tutto esaurito nelle sale, spettacolo per spettacolo. Però, c'è amarezza se si pensa che vengono distribuite in centinaia di copie pellicole delle quali non andare particolarmente fieri".
giovedì 11 novembre 2010
martedì 9 novembre 2010
lunedì 8 novembre 2010
QUANDO I SUPEREROI DIVENTANO "ANIMATI"...
Di Raffaele De Fazio
Già da diversi decenni, i comics supereroistici flirtano con l'universo dell'animazione, soprattutto televisiva. Basti pensare al Superman dei Fleischer negli anni Quaranta, ai Marvel Cartoons canadesi dei Sixties o ai supereroi inventati per la Hanna & Barbera da Alex Toth, che contribuì successivamente anche al serial dei Super-Amici nel corso degli anni Settanta.
Limitandoci alla new wave dell'animazione supereroistica, invece, la vera svolta arriva nel 1992, quando la Warner affida a Bruce Timm, Alan Burnett e Paul Dini il compito di riportare Batman sui teleschermi americani per sfruttare il successo del lungometraggio di Tim Burton. Timm decide di puntare, nell'aspetto grafico, su una commistione tra il look del Superman dei Fleischer e le atmosfere dark dello stesso Burton, strizzando l'occhio sia ai chiaroscuri di Alex Toth che al cinema noir degli anni Trenta e Quaranta. Ne scaturiscono una Gotham City cupa e claustrofobica e un Cavaliere Oscuro che non ha nulla da invidiare a quello di alcune miniserie fumettistiche di poco antecedenti, quali Year One di Miller e Mazzuchelli. La serie ha un notevole successo grazie anche alle ottime sceneggiature di Dini, che per il cartoon ricreò alcuni tra i villains classici del Pipistrello rendendoli nuovamente accattivanti (penso al tormentato Mr. Freeze o a Clayface) e creò, inoltre, il geniale personaggio di Harley Quinn, l'aiutante/amante del Joker, poi entrata anche nel DC Universe ufficiale "di carta". Successivamente, lo stesso team creativo decide di dedicarsi al cartoon di Superman, applicando lo stesso criterio usato per Batman e creando una Metropolis degna di Fritz Lang. Proprio grazie alla serie di Superman, quello che sarà poi definito DC Animated Universe si amplia ancora di più, grazie alle interazioni tra l'Uomo d'Acciaio e altri personaggi della casa editrice, quali Lobo oppure i Nuovi Dei. La diretta conseguenza è, a questo punto, uno show animato dedicato alla Justice League, caratterizzato dalla presenza degli eroi di punta dell'Universo DC ma anche dei più misconosciuti, sempre con un notevole successo di critica e pubblico. A questo punto della storia, dunque, sembra quasi che la DC-Warner abbia il monopolio dell'animazione seriale televisiva tratta dai comics di supereroi, anche grazie al crescente successo delle produzioni "direct-to-dvd", costituite da lungometraggi inediti di buona fattura e dal nuovo trend di adattare in animazione apprezzate storylines recenti come New Frontier, Terra 2 e, prossimamente, persino il premiatissimo All Star Superman. Tutto ciò sembrerebbe tagliare le gambe alla concorrenza, ma in realtà non è così, poiché da quell'ormai lontano 1992 Bruce Timm e soci hanno fatto scuola e anche la Marvel, dopo gli orrendi X-Men degli anni Novanta, sembra aver trovato una sua strada convincente nel settore dell'animazione, grazie a buoni prodotti in dvd come quelli dedicati a Hulk e agli Ultimates, che hanno aperto la strada a una nuova era di animazione di qualità con i personaggi della Casa delle Idee, consolidatasi con la serie dedicata a Wolverine e agli X-Men per Nickelodeon e con The Super Hero Squad Show dedicata ai più piccoli per Cartoon Network. Inoltre, la recente acquisizione della Marvel da parte della Disney apre nuovi scenari soprattutto in questo settore, che è destinato a subire notevoli scossoni grazie a progetti attesi come la serie dedicata a Ultimate Spiderman, che esordirà l'anno venturo sul canale Disney XD e che vede all'opera un team creativo di tutto rispetto formato da Brian Bendis, Paul Dini, Steven T. Seagle, Joe Kelly e dal team di animatori di Ben10.
La Warner, da parte sua, pigia il piede sull'acceleratore e annuncia serie d'animazione come la già citata All Star Superman (dalla miniserie pluripremiata di Grant Morrison e Frank Quitely) in dvd, uno show sulle Lanterne Verdi (il bestseller DC del momento) e la nuova Young Justice per Cartoon Network. Inoltre, grazie a questa nuova tendenza ad adattare le storylines più famose dell'Universo DC si sta sviluppando un'enorme aspettativa tra i DC fans, che hanno cominciato a premere presso la Warner con richieste riguardanti progetti come, per esempio, Animated Dark Knight tratto dal capolavoro di Frank Miller o Titans: Judas Contract.
Insomma, credo proprio che nell'immediato futuro ne vedremo delle belle. Io, però, spero soltanto che il livello di qualità non venga sacrificato in nome della quantità, anche se la recente apertura di DC Entertainment a Hollywood, totalmente tesa allo sviluppo di nuove produzioni non solo animate, e l'enorme potenza della Disney nel campo dell'intrattenimento animato ci fanno ben sperare.
Limitandoci alla new wave dell'animazione supereroistica, invece, la vera svolta arriva nel 1992, quando la Warner affida a Bruce Timm, Alan Burnett e Paul Dini il compito di riportare Batman sui teleschermi americani per sfruttare il successo del lungometraggio di Tim Burton. Timm decide di puntare, nell'aspetto grafico, su una commistione tra il look del Superman dei Fleischer e le atmosfere dark dello stesso Burton, strizzando l'occhio sia ai chiaroscuri di Alex Toth che al cinema noir degli anni Trenta e Quaranta. Ne scaturiscono una Gotham City cupa e claustrofobica e un Cavaliere Oscuro che non ha nulla da invidiare a quello di alcune miniserie fumettistiche di poco antecedenti, quali Year One di Miller e Mazzuchelli. La serie ha un notevole successo grazie anche alle ottime sceneggiature di Dini, che per il cartoon ricreò alcuni tra i villains classici del Pipistrello rendendoli nuovamente accattivanti (penso al tormentato Mr. Freeze o a Clayface) e creò, inoltre, il geniale personaggio di Harley Quinn, l'aiutante/amante del Joker, poi entrata anche nel DC Universe ufficiale "di carta". Successivamente, lo stesso team creativo decide di dedicarsi al cartoon di Superman, applicando lo stesso criterio usato per Batman e creando una Metropolis degna di Fritz Lang. Proprio grazie alla serie di Superman, quello che sarà poi definito DC Animated Universe si amplia ancora di più, grazie alle interazioni tra l'Uomo d'Acciaio e altri personaggi della casa editrice, quali Lobo oppure i Nuovi Dei. La diretta conseguenza è, a questo punto, uno show animato dedicato alla Justice League, caratterizzato dalla presenza degli eroi di punta dell'Universo DC ma anche dei più misconosciuti, sempre con un notevole successo di critica e pubblico. A questo punto della storia, dunque, sembra quasi che la DC-Warner abbia il monopolio dell'animazione seriale televisiva tratta dai comics di supereroi, anche grazie al crescente successo delle produzioni "direct-to-dvd", costituite da lungometraggi inediti di buona fattura e dal nuovo trend di adattare in animazione apprezzate storylines recenti come New Frontier, Terra 2 e, prossimamente, persino il premiatissimo All Star Superman. Tutto ciò sembrerebbe tagliare le gambe alla concorrenza, ma in realtà non è così, poiché da quell'ormai lontano 1992 Bruce Timm e soci hanno fatto scuola e anche la Marvel, dopo gli orrendi X-Men degli anni Novanta, sembra aver trovato una sua strada convincente nel settore dell'animazione, grazie a buoni prodotti in dvd come quelli dedicati a Hulk e agli Ultimates, che hanno aperto la strada a una nuova era di animazione di qualità con i personaggi della Casa delle Idee, consolidatasi con la serie dedicata a Wolverine e agli X-Men per Nickelodeon e con The Super Hero Squad Show dedicata ai più piccoli per Cartoon Network. Inoltre, la recente acquisizione della Marvel da parte della Disney apre nuovi scenari soprattutto in questo settore, che è destinato a subire notevoli scossoni grazie a progetti attesi come la serie dedicata a Ultimate Spiderman, che esordirà l'anno venturo sul canale Disney XD e che vede all'opera un team creativo di tutto rispetto formato da Brian Bendis, Paul Dini, Steven T. Seagle, Joe Kelly e dal team di animatori di Ben10.
La Warner, da parte sua, pigia il piede sull'acceleratore e annuncia serie d'animazione come la già citata All Star Superman (dalla miniserie pluripremiata di Grant Morrison e Frank Quitely) in dvd, uno show sulle Lanterne Verdi (il bestseller DC del momento) e la nuova Young Justice per Cartoon Network. Inoltre, grazie a questa nuova tendenza ad adattare le storylines più famose dell'Universo DC si sta sviluppando un'enorme aspettativa tra i DC fans, che hanno cominciato a premere presso la Warner con richieste riguardanti progetti come, per esempio, Animated Dark Knight tratto dal capolavoro di Frank Miller o Titans: Judas Contract.
Insomma, credo proprio che nell'immediato futuro ne vedremo delle belle. Io, però, spero soltanto che il livello di qualità non venga sacrificato in nome della quantità, anche se la recente apertura di DC Entertainment a Hollywood, totalmente tesa allo sviluppo di nuove produzioni non solo animate, e l'enorme potenza della Disney nel campo dell'intrattenimento animato ci fanno ben sperare.
domenica 7 novembre 2010
sabato 6 novembre 2010
BREVE VIAGGIO TRA LE SERIE TV TRATTE DAI FUMETTI
Di Raffaele De Fazio
Se il trend del "cine-fumetto" sembra non dover avere fine, anche sul versante televisivo le cose non sono ormai tanto diverse. Negli ultimi anni, infatti, i network televisivi si sono accorti delle enormi potenzialità del bacino d'utenza dei lettori di fumetti e, così, hanno iniziato a mettere in cantiere sempre più serial esplicitamente indirizzati a questi ultimi.
Gli esempi sono già numerosi: penso, per esempio, a Heroes, partito bene qualche anno fa e poi rivelatosi una ciofeca; o all'ottimo Misfits (nella foto), sei episodi di produzione inglese, prossimi alla seconda stagione e che potrebbero avere come slogan "The way Heroes was supposed to be"; oppure allo sfortunato serial inglese No Heroics - ambientato in un bar frequentato da soli supereroi, simile al Clark's Bar creato da Alan Moore nella sua run dei Wildcats - che, pur partendo da un'idea interessante, avrebbe forse avuto bisogno di un cast meglio assortito e di un budget più consistente per poter sopravvivere. Inoltre, non posso tralasciare Big Bang Theory che, seppur non estrapolato direttamente dal mondo del fumetto, propone un ritratto dell'universo "nerd/geek" di esilarante veridicità.
Questa breve ricognizione nel nuovo "genere" si conclude, per ora, con No Ordinary Family, su una famiglia di supereroi stile Gli Incredibili, con Michael The Shield Chiklis nel ruolo principale; e, per quel che riguarda l'adattamento di materiale pre-esistente, con la versione di Frank Darabont di The Walking Dead, tratta dalla serie Image di Robert Kirkman che, sull'onda dei tanti riconoscimenti fumettistici, è uno dei serial più attesi di questo autunno televisivo. Ma i network non si fermano qui: a breve, infatti, la NBC proporrà The Caped, in parte Batman, in parte Spirit e in parte Darkman; e, se non erro, sarà il primo supereroe solitario originale del piccolo schermo.
Gli esempi sono già numerosi: penso, per esempio, a Heroes, partito bene qualche anno fa e poi rivelatosi una ciofeca; o all'ottimo Misfits (nella foto), sei episodi di produzione inglese, prossimi alla seconda stagione e che potrebbero avere come slogan "The way Heroes was supposed to be"; oppure allo sfortunato serial inglese No Heroics - ambientato in un bar frequentato da soli supereroi, simile al Clark's Bar creato da Alan Moore nella sua run dei Wildcats - che, pur partendo da un'idea interessante, avrebbe forse avuto bisogno di un cast meglio assortito e di un budget più consistente per poter sopravvivere. Inoltre, non posso tralasciare Big Bang Theory che, seppur non estrapolato direttamente dal mondo del fumetto, propone un ritratto dell'universo "nerd/geek" di esilarante veridicità.
Questa breve ricognizione nel nuovo "genere" si conclude, per ora, con No Ordinary Family, su una famiglia di supereroi stile Gli Incredibili, con Michael The Shield Chiklis nel ruolo principale; e, per quel che riguarda l'adattamento di materiale pre-esistente, con la versione di Frank Darabont di The Walking Dead, tratta dalla serie Image di Robert Kirkman che, sull'onda dei tanti riconoscimenti fumettistici, è uno dei serial più attesi di questo autunno televisivo. Ma i network non si fermano qui: a breve, infatti, la NBC proporrà The Caped, in parte Batman, in parte Spirit e in parte Darkman; e, se non erro, sarà il primo supereroe solitario originale del piccolo schermo.
venerdì 5 novembre 2010
DOMENICA SU FOX "THE WALKING DEAD" DIRECTOR'S CUT
Di Diego Del Pozzo
"Dopo lo straordinario successo di pubblico riscosso dal primo episodio, Fox va incontro al pubblico più esigente e appassionato - recita il comunicato stampa ufficiale pubblicato sul sito italiano dell'emittente satellitare - riproponendo l'episodio pilota di The Walking Dead nella sua versione Director's Cut domenica 7 Novembre 2010 alle ore 23.35". In realtà, la bellissima versione lunga sarà mandata in onda a furor di popolo, dopo l'autentica rivolta con la quale i fans hanno reagito all'esordio italiano della "zombie series" tratta dal fumetto di Robert Kirkman, trasmessa nel formato standard di 45 minuti, in seguito a un accordo tra il network AMC e il distributore Fox Channels International, anziché in quello di 65 minuti concepito dall'autore: un taglio di ben venti minuti, sui cui orrendi esiti ci si può documentare cliccando qui.
Comunque, sia come sia, domenica in tarda serata l'episodio scritto e diretto dal tre volte candidato all'Oscar Frank Darabont (Le ali della libertà, Il miglio verde, The Majestic) sarà proposto nella sua versione integrale, destinata a offrire più di una sorpresa a coloro che hanno visto soltanto l'edizione "tagliata". The Walking Dead è la storia di un gruppo di sopravvissuti a un'epidemia di proporzioni apocalittiche che ha lasciato il mondo in balia degli zombie. Protagonista della serie è il poliziotto Rick Grimes (Andrew Lincoln), che si risveglia dal coma in un mondo molto diverso da quello nel quale viveva prima dell'incidente che lo ha ridotto in fin di vita. Il secondo dei sei episodi della prima stagione andrà in onda lunedì prossimo, alle ore 22.45, sempre su Fox (canale 110 di Sky).
Comunque, sia come sia, domenica in tarda serata l'episodio scritto e diretto dal tre volte candidato all'Oscar Frank Darabont (Le ali della libertà, Il miglio verde, The Majestic) sarà proposto nella sua versione integrale, destinata a offrire più di una sorpresa a coloro che hanno visto soltanto l'edizione "tagliata". The Walking Dead è la storia di un gruppo di sopravvissuti a un'epidemia di proporzioni apocalittiche che ha lasciato il mondo in balia degli zombie. Protagonista della serie è il poliziotto Rick Grimes (Andrew Lincoln), che si risveglia dal coma in un mondo molto diverso da quello nel quale viveva prima dell'incidente che lo ha ridotto in fin di vita. Il secondo dei sei episodi della prima stagione andrà in onda lunedì prossimo, alle ore 22.45, sempre su Fox (canale 110 di Sky).
giovedì 4 novembre 2010
COMICS: INTERVISTA ALLA "LANTERNA VERDE" IVAN REIS
Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 3 novembre 2010)
(Il Mattino - 3 novembre 2010)
Il trentaquattrenne brasiliano Ivan Rodrigo dos Reis, conosciuto come Ivan Reis, è uno tra i disegnatori di fumetti più apprezzati dai fans di mezzo mondo, grazie al suo lavoro per il colosso statunitense Dc Comics, in particolare su testate di supereroi vendutissime come la serie-evento Blackest Night - attualmente in corso di pubblicazione anche in Italia, grazie a Planeta De Agostini, col titolo La notte più profonda - e al suo seguito Brightest Day. Reis ha incontrato gli appassionati napoletani ieri pomeriggio presso la fumetteria Alastor, dove ha presentato i suoi nuovi progetti editoriali ma anche esaudito le tante richieste di autografi e disegni inediti. In mattinata, il disegnatore brasiliano (qui nella foto) aveva voluto visitare la zona collinare della città e, in particolare, castel Sant'Elmo e il museo di San Martino.
Originario di San Paolo, lei ha raggiunto il successo ancora molto giovane, lavorando con le principali case editrici degli Stati Uniti. Ma com'è iniziata la sua carriera artistica?
"Io disegno in maniera professionale da quando avevo 14 anni. Ho iniziato sul mercato brasiliano, con testate horror come Storie Reais de Dracula dell'editore Bloch e, poi, con alcune serie umoristiche per ragazzi pubblicate dall'Editoria Fenix: in questo modo, ho imparato a variare il mio stile, in modo da venire incontro a qualunque esigenza narrativa. Il primo salto di qualità, comunque, l'ho fatto quando sono entrato a far parte degli Estúdios Mauricio de Sousa, grande fumettista brasiliano dal quale ho imparato davvero tanto".
A quel punto, a soli 19 anni, è stato notato dai talent scout statunitensi.
"La prima casa editrice americana a credere in me è stata la Dark Horse, per la quale ho disegnato per circa due anni una testata importante come Ghost, ma anche The Mask, Time Cop e Xena. In seguito, dopo una parentesi alla Comics Lightning e poi alla CrossGen, sono stato messo sotto contratto dalla Marvel. E presso la "Casa delle Idee" ho disegnato serie importanti come Iron Man, Vendicatori, Difensori, togliendomi le prime grosse soddisfazioni".
La vera svolta nella sua carriera, però, arriva nel 2004, quando firma un contratto in esclusiva con l'altro colosso fumettistico statunitense, la Dc Comics di casa Warner. Com'è stato il passaggio dall'universo di fantasia dell'Uomo Ragno a quello di Superman e Batman?
"Magnifico. In Dc, infatti, mi hanno dato subito fiducia, affidandomi personaggi storici come Superman e i Teen Titans e mettendomi alla prova su serie-evento come Crisi infinita e poi La notte più profonda. E' indubbio che tutto sia cambiato quando ho iniziato a lavorare con lo scrittore Geoff Johns, che è anche uno tra i boss della Dc-Warner, sulla serie Lanterna Verde, nella quale l'editore ha investito tanto negli ultimi anni".
Proprio Lanterna verde, infatti, è il personaggio al centro delle saghe Dc più importanti di questi anni. E, forse anche più di Superman e Batman, è destinato ad assumere una centralità maggiore dopo l'uscita, a giugno del prossimo anno, del kolossal cinematografico Green Lantern, diretto da Martin Campbell e prodotto dallo stesso Geoff Johns per la Warner, con Ryan Reynolds nel ruolo di Hal Jordan / Lanterna verde.
Un po' del merito di questo successo è anche suo?
"Io sono contento soprattutto che il mio lavoro sia apprezzato dal pubblico e dalla critica. Tra l'altro, sono felicissimo che per il design dei personaggi del film la produzione abbia voluto rifarsi proprio alla mia interpretazione grafica. Il merito principale del successo di testate come Lanterna Verde, La notte più profonda e Brightest Day, però, è certamente di uno sceneggiatore abile come Geoff Johns, col quale è davvero bello lavorare, anche perché riesce ancora a conservare quell'entusiasmo tipico del fan, anche dopo tanti anni di carriera. D'altra parte, è un po' il mio stesso approccio: cerco sempre di disegnare il fumetto che mi sarebbe piaciuto leggere quando ero ragazzo e volavo con la fantasia di fronte alle tavole di giganti come John Buscema e Alfredo Alcala".
Quali sono gli altri suoi autori di riferimento?
"Oltre a quelli appena citati, mi ha molto influenzato anche un disegnatore meticoloso e raffinato come George Perez che, tra l'altro, proprio ultimamente mi ha chiesto di disegnare un fumetto assieme a lui".
Originario di San Paolo, lei ha raggiunto il successo ancora molto giovane, lavorando con le principali case editrici degli Stati Uniti. Ma com'è iniziata la sua carriera artistica?
"Io disegno in maniera professionale da quando avevo 14 anni. Ho iniziato sul mercato brasiliano, con testate horror come Storie Reais de Dracula dell'editore Bloch e, poi, con alcune serie umoristiche per ragazzi pubblicate dall'Editoria Fenix: in questo modo, ho imparato a variare il mio stile, in modo da venire incontro a qualunque esigenza narrativa. Il primo salto di qualità, comunque, l'ho fatto quando sono entrato a far parte degli Estúdios Mauricio de Sousa, grande fumettista brasiliano dal quale ho imparato davvero tanto".
A quel punto, a soli 19 anni, è stato notato dai talent scout statunitensi.
"La prima casa editrice americana a credere in me è stata la Dark Horse, per la quale ho disegnato per circa due anni una testata importante come Ghost, ma anche The Mask, Time Cop e Xena. In seguito, dopo una parentesi alla Comics Lightning e poi alla CrossGen, sono stato messo sotto contratto dalla Marvel. E presso la "Casa delle Idee" ho disegnato serie importanti come Iron Man, Vendicatori, Difensori, togliendomi le prime grosse soddisfazioni".
La vera svolta nella sua carriera, però, arriva nel 2004, quando firma un contratto in esclusiva con l'altro colosso fumettistico statunitense, la Dc Comics di casa Warner. Com'è stato il passaggio dall'universo di fantasia dell'Uomo Ragno a quello di Superman e Batman?
"Magnifico. In Dc, infatti, mi hanno dato subito fiducia, affidandomi personaggi storici come Superman e i Teen Titans e mettendomi alla prova su serie-evento come Crisi infinita e poi La notte più profonda. E' indubbio che tutto sia cambiato quando ho iniziato a lavorare con lo scrittore Geoff Johns, che è anche uno tra i boss della Dc-Warner, sulla serie Lanterna Verde, nella quale l'editore ha investito tanto negli ultimi anni".
Proprio Lanterna verde, infatti, è il personaggio al centro delle saghe Dc più importanti di questi anni. E, forse anche più di Superman e Batman, è destinato ad assumere una centralità maggiore dopo l'uscita, a giugno del prossimo anno, del kolossal cinematografico Green Lantern, diretto da Martin Campbell e prodotto dallo stesso Geoff Johns per la Warner, con Ryan Reynolds nel ruolo di Hal Jordan / Lanterna verde.
Un po' del merito di questo successo è anche suo?
"Io sono contento soprattutto che il mio lavoro sia apprezzato dal pubblico e dalla critica. Tra l'altro, sono felicissimo che per il design dei personaggi del film la produzione abbia voluto rifarsi proprio alla mia interpretazione grafica. Il merito principale del successo di testate come Lanterna Verde, La notte più profonda e Brightest Day, però, è certamente di uno sceneggiatore abile come Geoff Johns, col quale è davvero bello lavorare, anche perché riesce ancora a conservare quell'entusiasmo tipico del fan, anche dopo tanti anni di carriera. D'altra parte, è un po' il mio stesso approccio: cerco sempre di disegnare il fumetto che mi sarebbe piaciuto leggere quando ero ragazzo e volavo con la fantasia di fronte alle tavole di giganti come John Buscema e Alfredo Alcala".
Quali sono gli altri suoi autori di riferimento?
"Oltre a quelli appena citati, mi ha molto influenzato anche un disegnatore meticoloso e raffinato come George Perez che, tra l'altro, proprio ultimamente mi ha chiesto di disegnare un fumetto assieme a lui".
mercoledì 3 novembre 2010
UN "TELEVISIONARIO" RIEVOCA L'ERA DELLE "TV LIBERE"
Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 31 ottobre 2010)
(Il Mattino - 31 ottobre 2010)
Tra i tanti primati dimenticati che Napoli può vantare c'è anche quello di esser stata, nel 1966, la città dove nacque la cosiddetta "tv libera". Proprio all'ombra del Vesuvio, infatti, iniziò le trasmissioni la prima emittente televisiva privata italiana. Era il 23 dicembre 1966, quando il vulcanico ingegnere e inventore napoletano Pietrangelo Gregorio attivò il segnale via cavo di Telediffusione Italiana - Telenapoli, poi registrata ufficialmente quattro anni dopo, il 17 dicembre 1970, nonché destinata a trasformarsi, nel 1976, in Napoli Canale 21, grazie al sostegno dell'editore Andrea Torino.
Le storie di Gregorio (qui nella foto) e di tanti altri pionieri dell'emittenza privata italiana rivivono nell'avvincente documentario I televisionari - Quando in Italia la tv era libera, che andrà in onda venerdì alle ore 22 su History Channel (canale 407 di Sky). Prodotto da Zeta Group per Fox Channels Italy, con la regia di Lorenzo Pezzano (che lo ha anche scritto con Barbara Iacampo), I televisionari ripercorre, grazie alla voce narrante di Vincenzo Mollica e a un sapiente mix di interviste e immagini d'epoca, la straordinaria avventura di questi coraggiosi e intraprendenti rivoluzionari del tubo catodico: "Artigiani del video - sottolineano i due autori - che trasformarono soggiorni, cantine e garage in studi televisivi, per sperimentare una tv alternativa, di paese o di quartiere, realizzata da cittadini per i cittadini; e per dare a tutti, in un'epoca nella quale c'era il monopolio della televisione di Stato, la possibilità di esprimersi".
Tra le vicende rievocate dal documentario, quella di Pietrangelo Gregorio e della sua Telediffusione Italiana - Telenapoli, della quale ricorrono i quarant'anni il 17 dicembre, merita un posto d'onore. "Iniziai le trasmissioni collegando a un amplificatore le antenne del palazzo di piazza Cavour dove abitavo", racconta l'oggi ottantaduenne ingegnere, ancora attivo nel campo della web-tv: "Poi, feci accordi con bar ed esercizi commerciali della zona e - prosegue - aumentai il numero di locali collegati. Dopo qualche mese trasmettevamo, ogni giorno dalle sette di sera, in tanti locali lungo via Toledo fino a piazza Plebiscito: in molti casi, c'erano sale dedicate, nelle quali ci si riuniva per seguirci. I primi programmi erano semplici: rulli commerciali, notizie locali, canzoni napoletane, barzellette e cabaret. E facevamo tutto in diretta, perché non potevamo registrare. Con noi, hanno iniziato gruppi comici storici come i Cabarinieri di Lucia Cassini, Renato Rutigliano e Aldo De Martino; ma, negli anni, anche tanti futuri professionisti dello spettacolo e dell'informazione".
Proprio l'informazione divenne una caratteristica peculiare di Telediffusione. "Ci sembrava giusto - prosegue Gregorio - riempire quel vuoto, dato che all'epoca la Rai, ancora senza la terza rete, non dedicava troppa attenzione alle realtà locali. Noi abbiamo cercato di proporre una televisione che fosse a contatto con la gente e che, magari, potesse rendersi utile sul territorio". Un buon esempio è un programma anticipatore come Filo diretto. "Fu un'autentica rivoluzione perché - ricorda Gregorio - fummo i primi a far telefonare il pubblico in diretta per parlare liberamente, lamentarsi di ciò che non andava in città, chiedere aiuto. All'inizio, mi dicevano che ero pazzo e che la cosa sarebbe finita male, invece non ho mai avuto problemi, anzi ho aiutato tanta gente, perché ci seguivano pure i rappresentanti delle istituzioni, che spesso raccoglievano le nostre segnalazioni".
Tra i record, purtroppo misconosciuti, fatti segnare dall'emittente di Pietrangelo Gregorio c'è quello della prima trasmissione italiana a colori, il 24 maggio 1971, resa possibile grazie a un'intuizione dello stesso ingegnere napoletano (negli anni, autore di oltre 300 brevetti per conto proprio e per ditte nazionali e multinazionali). Nel 1973, il clamoroso successo della sua tv libera era racchiuso in pochi semplici numeri: con oltre 380 chilometri di cavo diffusi lungo l'intera area metropolitana, 6 studi televisivi, 150 dipendenti, tra i quali 15 giornalisti, Telediffusione Italiana - Telenapoli era la più importante televisione via cavo d'Europa. "Poi, con la liberalizzazione dell'etere – conclude il "televisionario" napoletano - e l'abbandono del cavo tutto cambiò. Ben presto, la tv libera si trasformò in commerciale e, qualche anno dopo, con l'ingresso di Silvio Berlusconi, il mercato televisivo italiano cambiò per sempre".
Le storie di Gregorio (qui nella foto) e di tanti altri pionieri dell'emittenza privata italiana rivivono nell'avvincente documentario I televisionari - Quando in Italia la tv era libera, che andrà in onda venerdì alle ore 22 su History Channel (canale 407 di Sky). Prodotto da Zeta Group per Fox Channels Italy, con la regia di Lorenzo Pezzano (che lo ha anche scritto con Barbara Iacampo), I televisionari ripercorre, grazie alla voce narrante di Vincenzo Mollica e a un sapiente mix di interviste e immagini d'epoca, la straordinaria avventura di questi coraggiosi e intraprendenti rivoluzionari del tubo catodico: "Artigiani del video - sottolineano i due autori - che trasformarono soggiorni, cantine e garage in studi televisivi, per sperimentare una tv alternativa, di paese o di quartiere, realizzata da cittadini per i cittadini; e per dare a tutti, in un'epoca nella quale c'era il monopolio della televisione di Stato, la possibilità di esprimersi".
Tra le vicende rievocate dal documentario, quella di Pietrangelo Gregorio e della sua Telediffusione Italiana - Telenapoli, della quale ricorrono i quarant'anni il 17 dicembre, merita un posto d'onore. "Iniziai le trasmissioni collegando a un amplificatore le antenne del palazzo di piazza Cavour dove abitavo", racconta l'oggi ottantaduenne ingegnere, ancora attivo nel campo della web-tv: "Poi, feci accordi con bar ed esercizi commerciali della zona e - prosegue - aumentai il numero di locali collegati. Dopo qualche mese trasmettevamo, ogni giorno dalle sette di sera, in tanti locali lungo via Toledo fino a piazza Plebiscito: in molti casi, c'erano sale dedicate, nelle quali ci si riuniva per seguirci. I primi programmi erano semplici: rulli commerciali, notizie locali, canzoni napoletane, barzellette e cabaret. E facevamo tutto in diretta, perché non potevamo registrare. Con noi, hanno iniziato gruppi comici storici come i Cabarinieri di Lucia Cassini, Renato Rutigliano e Aldo De Martino; ma, negli anni, anche tanti futuri professionisti dello spettacolo e dell'informazione".
Proprio l'informazione divenne una caratteristica peculiare di Telediffusione. "Ci sembrava giusto - prosegue Gregorio - riempire quel vuoto, dato che all'epoca la Rai, ancora senza la terza rete, non dedicava troppa attenzione alle realtà locali. Noi abbiamo cercato di proporre una televisione che fosse a contatto con la gente e che, magari, potesse rendersi utile sul territorio". Un buon esempio è un programma anticipatore come Filo diretto. "Fu un'autentica rivoluzione perché - ricorda Gregorio - fummo i primi a far telefonare il pubblico in diretta per parlare liberamente, lamentarsi di ciò che non andava in città, chiedere aiuto. All'inizio, mi dicevano che ero pazzo e che la cosa sarebbe finita male, invece non ho mai avuto problemi, anzi ho aiutato tanta gente, perché ci seguivano pure i rappresentanti delle istituzioni, che spesso raccoglievano le nostre segnalazioni".
Tra i record, purtroppo misconosciuti, fatti segnare dall'emittente di Pietrangelo Gregorio c'è quello della prima trasmissione italiana a colori, il 24 maggio 1971, resa possibile grazie a un'intuizione dello stesso ingegnere napoletano (negli anni, autore di oltre 300 brevetti per conto proprio e per ditte nazionali e multinazionali). Nel 1973, il clamoroso successo della sua tv libera era racchiuso in pochi semplici numeri: con oltre 380 chilometri di cavo diffusi lungo l'intera area metropolitana, 6 studi televisivi, 150 dipendenti, tra i quali 15 giornalisti, Telediffusione Italiana - Telenapoli era la più importante televisione via cavo d'Europa. "Poi, con la liberalizzazione dell'etere – conclude il "televisionario" napoletano - e l'abbandono del cavo tutto cambiò. Ben presto, la tv libera si trasformò in commerciale e, qualche anno dopo, con l'ingresso di Silvio Berlusconi, il mercato televisivo italiano cambiò per sempre".
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