giovedì 14 ottobre 2010

UN GRAN BEL FILM: "GORBACIOF" DI STEFANO INCERTI

Di Diego Del Pozzo

Dolente noir dell'anima in grado di catturare l'occhio per la compattezza visiva e per lo stile fiammeggiante assolutamente antitelevisivo, che batte con orgoglio i sentieri del "cinema-cinema" e si tiene lontano anni luce dalle penitenziali scorciatoie para-catodiche di troppi film italiani di questi anni, Gorbaciof segna il grande ritorno di Stefano Incerti alle ambientazioni napoletane che, nel 1995, ne avevano già accompagnato l'ottimo esordio Il verificatore.
E, proprio alla pellicola che ne mise in mostra per la prima volta le ormai acclarate doti registiche, Incerti (che ha scritto il film col romanziere Diego De Silva) si rifà in questa nuova occasione, se possibile portando alle estreme conseguenze alcune felici intuizioni di allora, in particolar modo quelle riguardanti la totale immersione - amplificata dalla scelta di girare in digitale, con attrezzature leggere e per nulla invasive - di personaggi e spettatori nelle carni pulsanti di una metropoli oscura e moralmente marcia, attraversata dal corpaccione-guida di un protagonista chiuso nella nicchia della propria solitudine, ma in realtà bisognoso di sentirsi (forse) umano: lì era il corpulento verificatore del gas interpretato da Antonino Iuorio, qui il cassiere del carcere di Poggioreale Mariano Pacileo detto Gorbaciof del quale un gigantesco Toni Servillo restituisce la banale mediocrità da comparsa improvvisamente assurta a protagonista nonché la sbigottita e un po' infastidita estraneità verso il mondo di scimmie che lo circonda e che, però, non essendo il nostro propriamente una cima, finisce per condizionarne la quotidianità e indirizzarne il destino.
Gorbaciof è, al tempo stesso, romanzo criminale prosciugato da qualunque possibile epos, disperata storia d'amore destinata a scontrarsi con l'ineluttabilità del fato, indagine coraggiosa nella misconosciuta (ma foltissima e influente) comunità cinese vesuviana, apologo quasi chapliniano sulla solitudine assoluta tra i mille volti e le mille luci della città. Ed è, soprattutto, un folgorante esempio di come, nell'Italia delle cine-commedie su famiglie e coppie in crisi, un altro cinema sia ancora possibile, nonostante le ristrettezze del budget (due milioni di euro, spesi ottimamente): un cinema che sappia vivere con fierezza del proprio specifico, cioè l'attenzione a un'immagine stilisticamente non mortificata (anzi), capace di produrre persino squarci abbacinanti dal punto di vista visivo (per esempio, il crescendo del primo silenzioso "appuntamento" notturno tra Gorbaciof e la Lila magistralmente resa dalla graziosa attrice cinese Mi Yang, qui al primo ruolo europeo) e, comunque, sempre al servizio dei personaggi e delle loro vite di celluloide; un cinema, infine, che non necessiti di dialoghi ipertrofici per far avanzare la trama ma, anzi, sappia rimettersi in gioco tornando alle origini e riproponendo una "purezza" di sguardo quasi da film muto girato alle soglie del Terzo millennio.
Da rimarcare, nel contesto di quello che si propone come uno tra i più bei film italiani della stagione, anche la notevole fotografia di Pasquale Mari, il montaggio di Marco Spoletini, il virtuosistico lavoro sul sonoro di Daghi Rondanini e Fabio Pagotto, le scenografie e i costumi di Lino Fiorito e Ortensia De Francesco (geniale la trovata della giacca di Gorbaciof strategicamente stretta sui fianchi), le coinvolgenti musiche originali di Teho Teardo; oltre, naturalmente, agli autentici tocchi di classe assicurati da attori sperimentati come Geppy Gleijeses, Nello Mascia e Hal Yamanouchi.

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(In alto, una scena del film con Toni Servillo nei panni di Gorbaciof; qui sopra, la riproduzione di un mio articolo pubblicato oggi sul quotidiano Il Mattino: per leggerlo basta cliccarci sopra)

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