sabato 30 luglio 2011
mercoledì 27 luglio 2011
A VENEZIA CI SARA' "LA'-BAS", IL "GOMORRA NERO"
Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 25 luglio 2011)
(Il Mattino - 25 luglio 2011)
Sarà un film campano l’unico titolo italiano presente quest’anno nella Settimana della critica, la prestigiosa rassegna riservata alle opere prime organizzata dal Sindacato nazionale critici cinematografici italiani e in programma dal 31 agosto al 10 settembre nell’ambito della Mostra del cinema di Venezia: si tratta di Là-Bas - Con il mare negli occhi, esordio nel lungometraggio del trentaseienne regista e sceneggiatore napoletano Guido Lombardi dopo i numerosi riconoscimenti ottenuti come autore di corti (tra i quali l’interessante Vomero Travel). L’annuncio ufficiale è previsto per oggi, durante la presentazione della ventiseiesima edizione della Settimana, alle 11.30 a Roma presso il cinema Quattro fontane alla presenza dei vertici del Sindacato critici, che renderanno noto l’elenco completo delle sette opere prime in gara per i 100mila dollari del Leone del futuro - Premio Venezia Opera Prima “Luigi De Laurentiis”. Che il film d’esordio di Lombardi (qui sopra, una scena) fosse destinato a far parlare di sé lo si era capito già durante le riprese, sul set allestito in pieno litorale domizio, perché la trama è immersa nel cupo universo camorristico di Gomorra, che il grande pubblico ha conosciuto grazie al libro di Roberto Saviano e al film di Matteo Garrone, osservato però dall’inedito punto di vista degli immigrati africani residenti a Castelvolturno, che lì formano una comunità di quasi 20mila persone. Quello che molti addetti ai lavori hanno già soprannominato il “Gomorra nero”, tra l’altro, avrà il suo culmine drammaturgico in una lunga sequenza nella quale viene rievocato, con ritmi degni di un thriller statunitense, uno tra gli episodi più cruenti mai avvenuti nell’area: la strage di immigrati del 18 settembre 2008, quando un commando di killer facente capo al boss casalese Giuseppe Setola uccise un pregiudicato locale e ben sei africani, la cui sola colpa era quella di essere presenti in quel momento sul luogo dell’agguato.
Il film è prodotto dalla factory partenopea Figli del Bronx, assieme a Minerva Pictures ed Eskimo, col supporto della Film Commission Regione Campania. “Siamo felicissimi per la selezione nella Settimana della critica - spiega il produttore Gaetano Di Vaio, dei Figli del Bronx - perché è una sezione sempre molto attenta alle proposte di qualità. Per il nostro film poteva esserci anche la possibilità di andare a Venezia nella sezione Controcampo italiano, ma credo che la Settimana sia un approdo ideale. L’idea del film è nata quasi cinque anni fa, sul set di Napoli Napoli Napoli di Abel Ferrara, del quale Lombardi era aiuto regista. Fu allora che Guido mi parlò per la prima volta di Là-Bas. All’epoca, la strage di Castelvolturno non c’era ancora stata. Poi più avanti, mentre procedevamo con la lavorazione, dato che il copione prevedeva comunque un conflitto a fuoco tra immigrati e camorristi, decidemmo di inserire il riferimento esplicito a quel tragico avvenimento reale”. “Nel 2008, purtroppo, la realtà ci ha superati”, aggiunge il regista Guido Lombardi, che poi prosegue: “Così, abbiamo deciso di orientare la sceneggiatura raccontando ciò che era accaduto davvero. Abbiamo girato interamente a Castelvolturno, su set reali, coinvolgendo direttamente gli immigrati, facendo loro provini da attori ma cercando di utilizzarli nel modo più naturale possibile”. I ruoli degli africani sono tutti affidati a non professionisti, a partire dallo straordinario protagonista Abdou Kader Alassane, che interpreta Yssouf, un ragazzo della media borghesia africana giunto in Italia in aereo dal Burkina Faso per lavorare onestamente con lo zio Moses, del quale però ignora le collusioni con i clan camorristici locali.
Le sequenze viste in anteprima colpiscono l’occhio per la cura nella composizione delle inquadrature, la profondità del lavoro con attori prevalentemente non professionisti, il ritmo sincopato che guarda ai gangster movie all’americana e la splendida fotografia di Francesca Amitrano, capace di restituire i grigi degli animi dei personaggi e del mare d’inverno. Nel cast, oltre al sorprendente protagonista, si distinguono anche Esther Elisha, Moussa Mone e, nel ruolo del killer Setola, l’emergente attore partenopeo Salvatore Ruocco. “Anche Abel Ferrara, che di Lombardi è stato un po’ il maestro, ha apprezzato molto ciò che ha visto del film. E questo - conclude il produttore Gaetano Di Vaio - per noi è certamente di buon auspicio in vista di Venezia”. Ma i Figli del Bronx saranno al Lido anche con un’altra pellicola, Radici di Carlo Luglio con Enzo Gragnaniello, che sarà proiettata il 2 settembre nell’ambito delle Giornate degli autori e seguita da un concerto veneziano dello stesso Gragnaniello accompagnato dai Sud Express e da Toni Cercola.
Il film è prodotto dalla factory partenopea Figli del Bronx, assieme a Minerva Pictures ed Eskimo, col supporto della Film Commission Regione Campania. “Siamo felicissimi per la selezione nella Settimana della critica - spiega il produttore Gaetano Di Vaio, dei Figli del Bronx - perché è una sezione sempre molto attenta alle proposte di qualità. Per il nostro film poteva esserci anche la possibilità di andare a Venezia nella sezione Controcampo italiano, ma credo che la Settimana sia un approdo ideale. L’idea del film è nata quasi cinque anni fa, sul set di Napoli Napoli Napoli di Abel Ferrara, del quale Lombardi era aiuto regista. Fu allora che Guido mi parlò per la prima volta di Là-Bas. All’epoca, la strage di Castelvolturno non c’era ancora stata. Poi più avanti, mentre procedevamo con la lavorazione, dato che il copione prevedeva comunque un conflitto a fuoco tra immigrati e camorristi, decidemmo di inserire il riferimento esplicito a quel tragico avvenimento reale”. “Nel 2008, purtroppo, la realtà ci ha superati”, aggiunge il regista Guido Lombardi, che poi prosegue: “Così, abbiamo deciso di orientare la sceneggiatura raccontando ciò che era accaduto davvero. Abbiamo girato interamente a Castelvolturno, su set reali, coinvolgendo direttamente gli immigrati, facendo loro provini da attori ma cercando di utilizzarli nel modo più naturale possibile”. I ruoli degli africani sono tutti affidati a non professionisti, a partire dallo straordinario protagonista Abdou Kader Alassane, che interpreta Yssouf, un ragazzo della media borghesia africana giunto in Italia in aereo dal Burkina Faso per lavorare onestamente con lo zio Moses, del quale però ignora le collusioni con i clan camorristici locali.
Le sequenze viste in anteprima colpiscono l’occhio per la cura nella composizione delle inquadrature, la profondità del lavoro con attori prevalentemente non professionisti, il ritmo sincopato che guarda ai gangster movie all’americana e la splendida fotografia di Francesca Amitrano, capace di restituire i grigi degli animi dei personaggi e del mare d’inverno. Nel cast, oltre al sorprendente protagonista, si distinguono anche Esther Elisha, Moussa Mone e, nel ruolo del killer Setola, l’emergente attore partenopeo Salvatore Ruocco. “Anche Abel Ferrara, che di Lombardi è stato un po’ il maestro, ha apprezzato molto ciò che ha visto del film. E questo - conclude il produttore Gaetano Di Vaio - per noi è certamente di buon auspicio in vista di Venezia”. Ma i Figli del Bronx saranno al Lido anche con un’altra pellicola, Radici di Carlo Luglio con Enzo Gragnaniello, che sarà proiettata il 2 settembre nell’ambito delle Giornate degli autori e seguita da un concerto veneziano dello stesso Gragnaniello accompagnato dai Sud Express e da Toni Cercola.
sabato 23 luglio 2011
TOM HOOPER E L'OSCAR CHE TI CAMBIA LA VITA
Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 18 luglio 2011)
(Il Mattino - 18 luglio 2011)
“Non è la conquista dell’Oscar a cambiarti la vita professionale, ma già il fatto di arrivare alla nomination”: e se lo dice Tom Hooper, il trentanovenne regista inglese che quest’anno ha fatto incetta di Academy awards per Il discorso del re, c’è certamente da credergli. Nel contesto rilassante e informale tipico dell’Ischia Global Fest, infatti, il cineasta vincitore anche della statuetta per il miglior regista si lascia andare a considerazioni interessanti sulle conseguenze di un successo che, in molti casi, può cambiarti completamente la vita. “La conseguenza più significativa – aggiunge Hooper – l’ho notata, come dicevo, già dopo essere stato nominato. In quel momento, infatti, mi sono reso conto di essere entrato in un circolo ristretto di autori che, in un modo o nell’altro, potevano avere accesso facilitato a materiali più interessanti della media, come per esempio sceneggiature particolarmente originali. Forse è questo, più che la fama in sé e per sé, il cambiamento maggiore che ho notato”.
Naturalmente, però, un regista giovane e in piena attività come Tom Hooper non può permettersi di cullarsi sugli allori. “Mi rendo perfettamente conto – sottolinea – che appena inizierò a girare un nuovo film non potrò certo chiedere aiuto all’Oscar, ma dovrò cavarmela da solo e contare solo sulle mie capacità. Da questo punto di vista, dunque, non è cambiato proprio nulla. In realtà, credo che vincere un premio come quello sia pazzesco soprattutto da un punto di vista emotivo, ma che poi non debba lasciare troppe conseguenze sulla tua concreta attività quotidiana”.
E, a proposito, di nuovi progetti cinematografici, Hooper parla senza problemi del suo prossimo film a margine della premiazione tenutasi nella baia del Regina Isabella di Lacco Ameno, dove è stato omaggiato con l’Ischia award come regista dell’anno. “Si tratta – racconta – di una versione del classico romanzo I miserabili di Victor Hugo realizzata a partire, però, dal musical londinese musicato nel 1985 da Claude Michel Schoberg. Comunque, per la costruzione drammaturgica mi rifarò direttamente a romanzo originale, che peraltro amo e conosco molto bene. Il musical mi servirà per l’aspetto puramente emotivo, al quale tengo molto e che ho particolarmente curato anche in occasione del mio film precedente con Colin Firth”.
Il kolossal musicale, dunque, sarà prodotto da Cameron McKintosh, già responsabile del musical di riferimento, per Universal Pictures e Working Title, mentre la sceneggiatura sarà firmata da Bill Nicholson. Le riprese dovrebbero iniziare entro la fine dell’anno, tra Parigi e Londra. La casa di produzione, nel frattempo, ha già annunciato il nome del protagonista, che sarà il divo australiano Hugh Jackman, nel ruolo di Jean Valjean. “In effetti, Hugh è un grande attore – sottolinea il regista – e sarò davvero felicissimo di dirigerlo mentre interpreta questo magnifico personaggio”.
Naturalmente, però, un regista giovane e in piena attività come Tom Hooper non può permettersi di cullarsi sugli allori. “Mi rendo perfettamente conto – sottolinea – che appena inizierò a girare un nuovo film non potrò certo chiedere aiuto all’Oscar, ma dovrò cavarmela da solo e contare solo sulle mie capacità. Da questo punto di vista, dunque, non è cambiato proprio nulla. In realtà, credo che vincere un premio come quello sia pazzesco soprattutto da un punto di vista emotivo, ma che poi non debba lasciare troppe conseguenze sulla tua concreta attività quotidiana”.
E, a proposito, di nuovi progetti cinematografici, Hooper parla senza problemi del suo prossimo film a margine della premiazione tenutasi nella baia del Regina Isabella di Lacco Ameno, dove è stato omaggiato con l’Ischia award come regista dell’anno. “Si tratta – racconta – di una versione del classico romanzo I miserabili di Victor Hugo realizzata a partire, però, dal musical londinese musicato nel 1985 da Claude Michel Schoberg. Comunque, per la costruzione drammaturgica mi rifarò direttamente a romanzo originale, che peraltro amo e conosco molto bene. Il musical mi servirà per l’aspetto puramente emotivo, al quale tengo molto e che ho particolarmente curato anche in occasione del mio film precedente con Colin Firth”.
Il kolossal musicale, dunque, sarà prodotto da Cameron McKintosh, già responsabile del musical di riferimento, per Universal Pictures e Working Title, mentre la sceneggiatura sarà firmata da Bill Nicholson. Le riprese dovrebbero iniziare entro la fine dell’anno, tra Parigi e Londra. La casa di produzione, nel frattempo, ha già annunciato il nome del protagonista, che sarà il divo australiano Hugh Jackman, nel ruolo di Jean Valjean. “In effetti, Hugh è un grande attore – sottolinea il regista – e sarò davvero felicissimo di dirigerlo mentre interpreta questo magnifico personaggio”.
venerdì 22 luglio 2011
GIFFONI 2011: ECCO I FILM VINCITORI
Di Diego Del Pozzo
Anche quest’anno le varie sezioni competitive del Giffoni Film Festival - Elements +3 (3-5 anni), Elements +6 (6-9 anni), Elements +10 (10-12 anni), Generator +13 (13-15 anni), Generator +16 (16-17 anni), Generator +18 (dai 18 anni in su) - hanno proposto tanti film di qualità. Compito per nulla facile, dunque, quello dei 3.300 giovani giurati provenienti da tutto il mondo.
Nella sezione per i più piccini, formata da soli cortometraggi, hanno prevalso due lavori italiani: Gloria trova un vero padrone di Joshua Held (miglior corto) e Tora Chan di Davide Como, Claudia Cutrì, Stefano Schide e Valerio Gori (premio speciale). I giurati dai 6 ai 9 anni, invece, hanno premiato Fucsia the Mini Witch dell’olandese Johan Nijenhuis come miglior lungometraggio e Carlotta and the Cloud del tedesco Daniel Acht tra i corti. Premi tutti scandinavi, poi, quelli della sezione Elements +10, nella quale hanno avuto la meglio il delicato norvegese Totally True Love di Anne Sewitsky tra i film lunghi e lo svedese Weightless di Robert Lundmark e Magnus Johansson tra i corti.
Tra i 13 e i 15 anni, quindi, le preferenze dei giurati sono andate allo spagnolo Ways to Live Forever di Gustavo Ron, anche se il bellissimo Wunderkinder del tedesco Marcus O. Rosenmuller, sull’amicizia tra una ragazzina tedesca e due coetanei ebrei durante la Seconda guerra mondiale, ha conquistato numerosi premi speciali, tra i quali quelli del presidente del Senato e della Comunità europea. Tra i corti, invece, ha vinto Bekas dell’iraniano Karzan Kader. E ancora, i giurati di 16 e 17 anni hanno premiato l’attualissimo Suicide Room (nella foto), che il polacco Jan Komasa ha dedicato ai pericoli che si celano nell’universo virtuale di Internet e dei social network; mentre il notevole Submarine dell’astro nascente britannico Richard Ayoade (forse il titolo più originale dell’intero lotto, col suo umorismo raffinato e lo sfrenato citazionismo) ha portato a casa il premio della giuria di qualità. Tra i corti, ancora Scandinavia col finlandese Burungo di Dome Karukoski e Pamela Tola.
Nella sezione riservata ai ragazzi maggiorenni, infine, hanno avuto la meglio lo statunitense Beautiful Boy di Shawn Ku e, tra i corti, La colpa di Francesco Prisco. All’unico lungometraggio italiano in gara, Oggetti smarriti di Giorgio Molteni, è andato il premio Anec degli esercenti, di buon auspicio per una futura uscita in sala.
Nella sezione per i più piccini, formata da soli cortometraggi, hanno prevalso due lavori italiani: Gloria trova un vero padrone di Joshua Held (miglior corto) e Tora Chan di Davide Como, Claudia Cutrì, Stefano Schide e Valerio Gori (premio speciale). I giurati dai 6 ai 9 anni, invece, hanno premiato Fucsia the Mini Witch dell’olandese Johan Nijenhuis come miglior lungometraggio e Carlotta and the Cloud del tedesco Daniel Acht tra i corti. Premi tutti scandinavi, poi, quelli della sezione Elements +10, nella quale hanno avuto la meglio il delicato norvegese Totally True Love di Anne Sewitsky tra i film lunghi e lo svedese Weightless di Robert Lundmark e Magnus Johansson tra i corti.
Tra i 13 e i 15 anni, quindi, le preferenze dei giurati sono andate allo spagnolo Ways to Live Forever di Gustavo Ron, anche se il bellissimo Wunderkinder del tedesco Marcus O. Rosenmuller, sull’amicizia tra una ragazzina tedesca e due coetanei ebrei durante la Seconda guerra mondiale, ha conquistato numerosi premi speciali, tra i quali quelli del presidente del Senato e della Comunità europea. Tra i corti, invece, ha vinto Bekas dell’iraniano Karzan Kader. E ancora, i giurati di 16 e 17 anni hanno premiato l’attualissimo Suicide Room (nella foto), che il polacco Jan Komasa ha dedicato ai pericoli che si celano nell’universo virtuale di Internet e dei social network; mentre il notevole Submarine dell’astro nascente britannico Richard Ayoade (forse il titolo più originale dell’intero lotto, col suo umorismo raffinato e lo sfrenato citazionismo) ha portato a casa il premio della giuria di qualità. Tra i corti, ancora Scandinavia col finlandese Burungo di Dome Karukoski e Pamela Tola.
Nella sezione riservata ai ragazzi maggiorenni, infine, hanno avuto la meglio lo statunitense Beautiful Boy di Shawn Ku e, tra i corti, La colpa di Francesco Prisco. All’unico lungometraggio italiano in gara, Oggetti smarriti di Giorgio Molteni, è andato il premio Anec degli esercenti, di buon auspicio per una futura uscita in sala.
mercoledì 20 luglio 2011
INTERVISTA CINEFILA A MICHEAL RADFORD
Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 17 luglio 2011)
(Il Mattino - 17 luglio 2011)
Parlare di cinema con Michael Radford è sempre interessante, per la profonda conoscenza che il regista e sceneggiatore britannico ha della Settima arte e per i suoi giudizi mai banali. Se ne sono accorti anche gli studenti universitari iscritti al Movie educational seminar dell’Ischia Global Film & Music Fest 2011, i quali hanno affollato l’incontro di ieri e dialogato piacevolmente con l’autore del recente documentario Body and Soul – Michel Petrucciani, che nei giorni scorsi ha riscosso grande successo in occasione della proiezione nella baia del Regina Isabella di Lacco Ameno.
A margine del seminario, Radford coglie l’occasione per svelare ulteriori dettagli di quello che sarà il suo prossimo film, l’attesissimo ritorno a Shakespeare in coppia con Al Pacino, sette anni dopo Il mercante di Venezia. “Ad aprile del prossimo anno – spiega – inizierò a girare la trasposizione cinematografica del Re Lear, una tra le più importanti e conosciute tragedie shakespeariane. Naturalmente, il ruolo principale sarà di Al, che come me è un grande appassionato di questo testo. E, accanto a lui, ci sarà Emily Blunt, mentre siamo quasi alla firma per Johnny Depp come buffone di corte. Poi, ho avuto una richiesta di partecipazione anche dai fratelli Ralph e Joseph Fiennes, che peraltro mi piacerebbe molto coinvolgere”.
Quella per Shakespeare è una passione consolidata. Come spiega una tale fascinazione?
“Innanzitutto, con la grandezza delle storie, capaci di essere universali. E poi, con personaggi straordinari, che ancora oggi, a centinaia di anni da quando sono stati scritti, riescono a parlare a ciascuno di noi”.
La classicità della narrazione shakespeariana pare sposarsi perfettamente col suo cinema.
“Ma non soltanto col mio. Ritengo, infatti, che le regole classiche della narrazione vadano sempre quantomeno conosciute, anche quando poi le si vuol mettere in discussione. In tanti sceneggiatori odierni, invece, vedo proprio questa fretta di voler iniziare a correre prima ancora di avere imparato a camminare. Shakespeare, d’altra parte, è un modello che ho studiato fin da quando ero iscritto alla scuola di cinema in Inghilterra”.
Nel suo futuro, dunque, proseguirà lungo questa strada, o riserverà qualche sorpresa agli appassionati?
“In effetti, qualche sorpresa ci sarà. In queste settimane, infatti, ho iniziato a scrivere una commedia: una cosa per me completamente nuova. Non mi ci ero mai misurato, ma devo dire che non pensavo mi venisse così naturale. Insomma, mi sto divertendo”.
Lei si conferma, dunque, autore eclettico per antonomasia, capace di oscillare tra titoli come Another Time, Another Place, Orwell 1984, Il postino, Un colpo perfetto. Come concilia le esigenze autoriali col contesto fortemente industriale nel quale lavora?
“Con l’esperienza. Anche da spettatore, per esempio, continuo ad amare innanzitutto il cinema europeo, però rispetto a quando ero più giovane e mi comportavo da autentico talebano nei confronti dell’odiato cinema hollywoodiano, oggi ho capito che anche in film apparentemente commerciali, se diretti da un buon regista, possono esserci cose fantastiche. Per fare un esempio, ho rivalutato una pellicola che all’epoca detestai, come La febbre del sabato sera, che vista oggi mi sembra assolutamente centrale in un discorso sugli anni Settanta, al pari di un altro film diversissimo come Professione: reporter di Michelangelo Antonioni”.
E, nella sua classifica personale di cinefilo, dove collocherebbe i film italiani?
“Assolutamente ai primi posti, Per me, infatti, nulla può battere il cinema italiano classico degli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta, che poteva schierare decine e decine di grandissimi registi e che riuscì a essere il secondo cinema del mondo, sia dal punto di vista industriale che autoriale. Anche per questo motivo, dunque, mi fa molta tristezza guardare a come oggi l’Italia sia diventata un Paese senza un cinema capace di parlare al mondo”.
A margine del seminario, Radford coglie l’occasione per svelare ulteriori dettagli di quello che sarà il suo prossimo film, l’attesissimo ritorno a Shakespeare in coppia con Al Pacino, sette anni dopo Il mercante di Venezia. “Ad aprile del prossimo anno – spiega – inizierò a girare la trasposizione cinematografica del Re Lear, una tra le più importanti e conosciute tragedie shakespeariane. Naturalmente, il ruolo principale sarà di Al, che come me è un grande appassionato di questo testo. E, accanto a lui, ci sarà Emily Blunt, mentre siamo quasi alla firma per Johnny Depp come buffone di corte. Poi, ho avuto una richiesta di partecipazione anche dai fratelli Ralph e Joseph Fiennes, che peraltro mi piacerebbe molto coinvolgere”.
Quella per Shakespeare è una passione consolidata. Come spiega una tale fascinazione?
“Innanzitutto, con la grandezza delle storie, capaci di essere universali. E poi, con personaggi straordinari, che ancora oggi, a centinaia di anni da quando sono stati scritti, riescono a parlare a ciascuno di noi”.
La classicità della narrazione shakespeariana pare sposarsi perfettamente col suo cinema.
“Ma non soltanto col mio. Ritengo, infatti, che le regole classiche della narrazione vadano sempre quantomeno conosciute, anche quando poi le si vuol mettere in discussione. In tanti sceneggiatori odierni, invece, vedo proprio questa fretta di voler iniziare a correre prima ancora di avere imparato a camminare. Shakespeare, d’altra parte, è un modello che ho studiato fin da quando ero iscritto alla scuola di cinema in Inghilterra”.
Nel suo futuro, dunque, proseguirà lungo questa strada, o riserverà qualche sorpresa agli appassionati?
“In effetti, qualche sorpresa ci sarà. In queste settimane, infatti, ho iniziato a scrivere una commedia: una cosa per me completamente nuova. Non mi ci ero mai misurato, ma devo dire che non pensavo mi venisse così naturale. Insomma, mi sto divertendo”.
Lei si conferma, dunque, autore eclettico per antonomasia, capace di oscillare tra titoli come Another Time, Another Place, Orwell 1984, Il postino, Un colpo perfetto. Come concilia le esigenze autoriali col contesto fortemente industriale nel quale lavora?
“Con l’esperienza. Anche da spettatore, per esempio, continuo ad amare innanzitutto il cinema europeo, però rispetto a quando ero più giovane e mi comportavo da autentico talebano nei confronti dell’odiato cinema hollywoodiano, oggi ho capito che anche in film apparentemente commerciali, se diretti da un buon regista, possono esserci cose fantastiche. Per fare un esempio, ho rivalutato una pellicola che all’epoca detestai, come La febbre del sabato sera, che vista oggi mi sembra assolutamente centrale in un discorso sugli anni Settanta, al pari di un altro film diversissimo come Professione: reporter di Michelangelo Antonioni”.
E, nella sua classifica personale di cinefilo, dove collocherebbe i film italiani?
“Assolutamente ai primi posti, Per me, infatti, nulla può battere il cinema italiano classico degli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta, che poteva schierare decine e decine di grandissimi registi e che riuscì a essere il secondo cinema del mondo, sia dal punto di vista industriale che autoriale. Anche per questo motivo, dunque, mi fa molta tristezza guardare a come oggi l’Italia sia diventata un Paese senza un cinema capace di parlare al mondo”.
lunedì 18 luglio 2011
UNO SGUARDO AI FILM DI GIFFONI 2011 / 2
Di Diego Del Pozzo
Il viaggio tra i film del Giffoni Film Festival 2011 prosegue con la sezione Generator +13, riservata ai giurati tra 13 e 15 anni. Qui il tema ricorrente è quello delle relazioni pericolose, sviscerato con classe dal regista tedesco Marcus O. Rosenmuller in Wunderkinder (sull’amicizia tra una ragazzina tedesca e due coetanei ebrei durante la Seconda guerra mondiale), ma anche dall’inglese Toast di S.J. Clarkson e dall’americano The Art of Getting By di Gavin Wiesen, entrambi interpretati dall’enfant prodige Freddie Highmore. Ma molto interessante è anche l’israeliano The Flood, diretto da Guy Nattiv, che ha imbastito un dramma sulle difficoltà di un ragazzino a relazionarsi con i coetanei e con una famiglia segnata dal grave handicap del fratello maggiore.
Grazie alle pellicole di Generator +16, invece, si procede a un vero e proprio viaggio tra le vite degli adolescenti di oggi, come nel bellissimo Hermano del venezuelano Marcel Rasquin, ambientato nello squallido barrio di La Ceniza, dove due fratelli cercano nel calcio una via d’uscita da un destino fatto di povertà e lusinghe della criminalità. L’ansia di riscatto è al centro anche del norvegese King of Devil’s Island di Marius Holst e del dramma austriaco Breathing di Karl Markovics, nel quale un ragazzo che ha trascorso l’adolescenza in carcere torna in libertà e, privo di qualunque legame affettivo, deve capire come recuperare le coordinate della propria esistenza. Umorismo raffinato, sfrenato citazionismo e continuo oscillare tra fantasia e realtà caratterizzano, invece, la commedia britannica Submarine (nella foto) di Richard Ayoade, uno tra i nomi più interessanti della nuova scena d’Oltremanica. Il film, arricchito da uno stile di regia fresco e originale, ha già conquistato la platea del Sundance, grazie soprattutto all’interpretazione dell’esordiente Craig Roberts, il quale tratteggia un adolescente che sembra quasi un “giovane Holden” postmoderno.
Nei film della sezione per i giurati maggiorenni Generator +18, infine, si parla soprattutto di conflitti familiari e del rapporto complesso tra genitori e figli, argomento del cupo Beautiful Boy dell’americano Shawn Ku, del canadese The Year Dolly Parton Was My Mom di Tara Johns (sul tema dell’adozione) e dell’ottimo Neds, firmato da un big come il britannico Peter Mullan (già vincitore del Leone d’oro a Venezia nel 2002 con Magdalene). Nell’apocalittico francese Notre jour viendra, diretto dal figlio d’arte Romain Gavras (il papà è Constantin Costa-Gavras), si racconta invece il viaggio senza speranza di un mefistofelico Vincent Cassell attraverso un’autentica “no man’s land” fatta di violenza e razzismo. In questa sezione, tra l’altro, è incluso anche l’unico lungometraggio italiano in concorso, Oggetti smarriti di Giorgio Molteni, nel quale Roberto Farnesi interpreta un uomo alle prese col suo nuovo ruolo di padre e con l’improvvisa scomparsa della figlia.
Grazie alle pellicole di Generator +16, invece, si procede a un vero e proprio viaggio tra le vite degli adolescenti di oggi, come nel bellissimo Hermano del venezuelano Marcel Rasquin, ambientato nello squallido barrio di La Ceniza, dove due fratelli cercano nel calcio una via d’uscita da un destino fatto di povertà e lusinghe della criminalità. L’ansia di riscatto è al centro anche del norvegese King of Devil’s Island di Marius Holst e del dramma austriaco Breathing di Karl Markovics, nel quale un ragazzo che ha trascorso l’adolescenza in carcere torna in libertà e, privo di qualunque legame affettivo, deve capire come recuperare le coordinate della propria esistenza. Umorismo raffinato, sfrenato citazionismo e continuo oscillare tra fantasia e realtà caratterizzano, invece, la commedia britannica Submarine (nella foto) di Richard Ayoade, uno tra i nomi più interessanti della nuova scena d’Oltremanica. Il film, arricchito da uno stile di regia fresco e originale, ha già conquistato la platea del Sundance, grazie soprattutto all’interpretazione dell’esordiente Craig Roberts, il quale tratteggia un adolescente che sembra quasi un “giovane Holden” postmoderno.
Nei film della sezione per i giurati maggiorenni Generator +18, infine, si parla soprattutto di conflitti familiari e del rapporto complesso tra genitori e figli, argomento del cupo Beautiful Boy dell’americano Shawn Ku, del canadese The Year Dolly Parton Was My Mom di Tara Johns (sul tema dell’adozione) e dell’ottimo Neds, firmato da un big come il britannico Peter Mullan (già vincitore del Leone d’oro a Venezia nel 2002 con Magdalene). Nell’apocalittico francese Notre jour viendra, diretto dal figlio d’arte Romain Gavras (il papà è Constantin Costa-Gavras), si racconta invece il viaggio senza speranza di un mefistofelico Vincent Cassell attraverso un’autentica “no man’s land” fatta di violenza e razzismo. In questa sezione, tra l’altro, è incluso anche l’unico lungometraggio italiano in concorso, Oggetti smarriti di Giorgio Molteni, nel quale Roberto Farnesi interpreta un uomo alle prese col suo nuovo ruolo di padre e con l’improvvisa scomparsa della figlia.
2/Fine
UNO SGUARDO AI FILM DI GIFFONI 2011 / 1
Di Diego Del Pozzo
Un sicuro punto di forza del Giffoni Film Festival è rappresentato dai tanti film presenti nelle varie categorie del concorso. Anche quest’anno, infatti, le sezioni competitive - organizzate, a seconda dell’età dei 3.300 giovani giurati, in Elements +3 (3-5 anni), Elements +6 (6-9 anni), Elements +10 (10-12 anni), Generator +13 (13-15 anni), Generator +16 (16-17 anni), Generator +18 (dai 18 anni in su) - hanno proposto visioni originali per stile e contenuti ed emozionato le migliaia di spettatori provenienti da tutto il mondo.
La ricognizione tra i film giffonesi inizia da quelli per i più piccini. E non si può che evidenziare l’estrema varietà dei 21 cortometraggi animati, caratterizzati da storie che mirano al divertimento e al sorriso (tra lacci magici, un leone che russa, una mucca in cerca di amici) ma sono anche in grado di raccontare bene le paure tipiche dei bambini, la loro ricerca dell’affetto degli adulti e la tenerezza della loro amicizia con gli animali. In questa categoria, però, hanno colpito anche gli spettatori più grandi soprattutto i due lungometraggi fuori concorso, entrambi realizzati da registe nordeuropee: la norvegese Lise I. Osvoll di Elias and the Treasure of the Sea e la danese Karla Bendtson del poetico Tigers and Tattoos. Nella sezione Elements +6, invece, gli argomenti al centro dei vari film si fanno un po’ meno spensierati, mentre gli autori possono permettersi stili narrativi più sofisticati. Tra i temi ricorrenti, infatti, spicca quello della ricerca di un genitore assente, trattato con garbo dal francese Luc Vinciguerra nel suo L’apprenti Père Noel, dall’indiano Amole Gupte in Stanley ka dabba, dal taiwanese LooLoo Lu in Life is Wonderful. E’ piaciuto particolarmente, però, il cartoon franco-belga Une vie de chat di Jean-Loup Felicioli e Alain Gagnol, i quali raccontano con ritmo degno di un thriller e spruzzate di tenerezza e divertimento le avventure della piccola Zoé e del suo gatto Dino in giro di notte sui tetti di Parigi.
Nei film della categoria Elements +10, quindi, s’iniziano a intravedere quei turbamenti tipici di un’adolescenza che a volte arriva troppo presto e rimette in discussione le identità dei piccoli protagonisti. Tra tutti, si sono distinti due film norvegesi: Totally True Love di Anne Sewitsky e, soprattutto, The Liverpool Goalie (nella foto), esordio sul grande schermo del regista pubblicitario e televisivo Arild Andresen, che racconta la tenera storia del tredicenne Jo, il quale cerca di conquistare la coetanea Mari, come lui grande appassionata di calcio, procurandole la rarissima figurina del portiere del Liverpool, lo spagnolo Pepe Reina. Il film di Andresen, che ha ottenuto una vera e propria ovazione dalla platea giffonese, aveva già conquistato l’Orso di cristallo della sezione per ragazzi Generation durante il Festival di Berlino di quest’anno.
La ricognizione tra i film giffonesi inizia da quelli per i più piccini. E non si può che evidenziare l’estrema varietà dei 21 cortometraggi animati, caratterizzati da storie che mirano al divertimento e al sorriso (tra lacci magici, un leone che russa, una mucca in cerca di amici) ma sono anche in grado di raccontare bene le paure tipiche dei bambini, la loro ricerca dell’affetto degli adulti e la tenerezza della loro amicizia con gli animali. In questa categoria, però, hanno colpito anche gli spettatori più grandi soprattutto i due lungometraggi fuori concorso, entrambi realizzati da registe nordeuropee: la norvegese Lise I. Osvoll di Elias and the Treasure of the Sea e la danese Karla Bendtson del poetico Tigers and Tattoos. Nella sezione Elements +6, invece, gli argomenti al centro dei vari film si fanno un po’ meno spensierati, mentre gli autori possono permettersi stili narrativi più sofisticati. Tra i temi ricorrenti, infatti, spicca quello della ricerca di un genitore assente, trattato con garbo dal francese Luc Vinciguerra nel suo L’apprenti Père Noel, dall’indiano Amole Gupte in Stanley ka dabba, dal taiwanese LooLoo Lu in Life is Wonderful. E’ piaciuto particolarmente, però, il cartoon franco-belga Une vie de chat di Jean-Loup Felicioli e Alain Gagnol, i quali raccontano con ritmo degno di un thriller e spruzzate di tenerezza e divertimento le avventure della piccola Zoé e del suo gatto Dino in giro di notte sui tetti di Parigi.
Nei film della categoria Elements +10, quindi, s’iniziano a intravedere quei turbamenti tipici di un’adolescenza che a volte arriva troppo presto e rimette in discussione le identità dei piccoli protagonisti. Tra tutti, si sono distinti due film norvegesi: Totally True Love di Anne Sewitsky e, soprattutto, The Liverpool Goalie (nella foto), esordio sul grande schermo del regista pubblicitario e televisivo Arild Andresen, che racconta la tenera storia del tredicenne Jo, il quale cerca di conquistare la coetanea Mari, come lui grande appassionata di calcio, procurandole la rarissima figurina del portiere del Liverpool, lo spagnolo Pepe Reina. Il film di Andresen, che ha ottenuto una vera e propria ovazione dalla platea giffonese, aveva già conquistato l’Orso di cristallo della sezione per ragazzi Generation durante il Festival di Berlino di quest’anno.
1/Continua
sabato 16 luglio 2011
RULA JEBREAL E CRISTIANA CAPOTONDI, PRIMEDONNE A ISCHIA
Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 15 luglio 2011)
(Il Mattino - 15 luglio 2011)
Giornata tutta al femminile, quella di ieri dell’Ischia Global Film & Music Fest 2011, grazie alla presenza quasi contemporanea di Rula Jebreal e Cristiana Capotondi (nella foto): presenze diversissime tra loro, con la prima, giornalista e scrittrice (nonché sceneggiatrice di Miral, il film sulla questione palestinese diretto dal compagno Julian Schnabel e in concorso l’anno scorso a Venezia) molto impegnata sui temi della libertà d’espressione; e la seconda, attrice di punta del nuovo cinema italiano, tra le interpreti giovani più richieste del momento, reduce dai set napoletani di Terry Gilliam (il cortometraggio The Wholly Family) e Ivan Cotroneo (l’esordio alla regia La kryptonite nella borsa).L’ex giornalista di Anno zero apre la giornata intervenendo al forum tematico mattutino con gli studenti universitari presenti al festival e affronta, con piglio battagliero, argomenti scottanti come il rapporto tra media e potere e l’inevitabile evoluzione tecnologica dei mezzi di comunicazione. “Un punto di svolta decisivo – spiega – c’è stato ai tempi del G8 di Genova, nel 2001. All’epoca, infatti, chi avrebbe mai pensato che i telefonini avrebbero cambiato il modo di comunicare una notizia? Invece, quando ci furono gli scontri con le forze dell’ordine, furono proprio le riprese amatoriali realizzate dalle migliaia di ragazzi presenti a smascherare le menzogne di chi sosteneva come nulla di sbagliato fosse accaduto. Da quel momento, grazie ai social network e all’evoluzione di Internet, il rapporto tra potere e mass media è mutato”.Le domande degli studenti diventano incalzanti e Rula non si sottrae. Anzi. “Oggi, proprio a causa delle nuove tecnologie, il re è definitivamente nudo; ed è diventato difficilissimo – aggiunge – provare a occultare una notizia, grazie ai tanti occhi amatoriali che possono raccontarla in qualunque momento. In questo modo, si sta sviluppando una nuova coscienza da parte della gente, che ormai si informa bypassando i canali tradizionali e cercandone, di volta in volta, di nuovi”. In ogni caso, però, c’è ancora tanto da fare, anche nei Paesi del cosiddetto Primo mondo. “Per esempio, attualmente io vivo negli Stati Uniti – conclude Rula Jebreal – col mio compagno Julian Schnabel. E devo dire che sono rimasta abbastanza scioccata dal rapporto che gli americani hanno con i media: si tratta, infatti, di un Paese intrattenuto più che informato, con tantissime notizie importanti, soprattutto estere, che non sono conosciute da nessuno”.
Con Cristiana Capotondi, invece, si torna a parlare di cinema. E, in particolare, dei nuovi film che ha appena finito di girare. “Si tratta di due commedie raffinate e intelligenti”, racconta l’attrice romana: “La prima – prosegue – è La peggior settimana della mia vita di Alessandro Genovesi, nella quale io e Fabio De Luigi interpretiamo due giovani promessi sposi che dovranno affrontare l’ultima settimana prima delle loro nozze. Naturalmente, gli capiterà di tutto, soprattutto grazie alle intromissioni dei due papà, Andrea Mingardi e Antonio Catania, di mia mamma, Monica Guerritore, e del loro miglior amico, Alessandro Siani. Del set ricordo con grande divertimento proprio la presenza di Siani, che ci ha costretti a girare anche dieci ciak di alcune scene a causa delle sue raffiche di battute”.
L’altro film appena terminato da Cristiana Capotondi è l’esordio alla regia di Ivan Cotroneo, che l’ha tratto dal suo romanzo omonimo La kryptonite nella borsa. Nel cast, con lei, ci sono anche Valeria Golino, Luca Zingaretti, Fabrizio Gifuni, Libero De Rienzo e il piccolo Luigi Catani, mentre la produzione è firmata Indigo Film. “Abbiamo girato a Napoli, nei luoghi della gioventù di Ivan, poiché – sottolinea l’attrice – la storia è ambientata nel 1973. Io interpreto Titina, la giovane zia fricchettona del bimbo protagonista, che proprio grazie a me e al personaggio di Libero scoprirà la città delle feste notturne, del divertimento e della trasgressione, però colorata e ingenua. Si tratta di una commedia, nella quale il regista ha messo tutto se stesso”. In questi mesi, l’interprete della Sissi televisiva ha frequentato Napoli quasi tutti i giorni. “In effetti, da gennaio a giugno – conclude – sono stata in città spessissimo, prima per il corto di Terry Gilliam e poi per il film di Ivan. E devo dire che ho sofferto molto per lo stato nel quale ho trovato Napoli: piena di rifiuti per strada e, conseguentemente, quasi respingente nei confronti di chi viene da fuori. Peccato, perché la storia e la tradizione di questa città dicono altro e parlano di barocco, magia, suggestioni, arte, cultura”.
Con Cristiana Capotondi, invece, si torna a parlare di cinema. E, in particolare, dei nuovi film che ha appena finito di girare. “Si tratta di due commedie raffinate e intelligenti”, racconta l’attrice romana: “La prima – prosegue – è La peggior settimana della mia vita di Alessandro Genovesi, nella quale io e Fabio De Luigi interpretiamo due giovani promessi sposi che dovranno affrontare l’ultima settimana prima delle loro nozze. Naturalmente, gli capiterà di tutto, soprattutto grazie alle intromissioni dei due papà, Andrea Mingardi e Antonio Catania, di mia mamma, Monica Guerritore, e del loro miglior amico, Alessandro Siani. Del set ricordo con grande divertimento proprio la presenza di Siani, che ci ha costretti a girare anche dieci ciak di alcune scene a causa delle sue raffiche di battute”.
L’altro film appena terminato da Cristiana Capotondi è l’esordio alla regia di Ivan Cotroneo, che l’ha tratto dal suo romanzo omonimo La kryptonite nella borsa. Nel cast, con lei, ci sono anche Valeria Golino, Luca Zingaretti, Fabrizio Gifuni, Libero De Rienzo e il piccolo Luigi Catani, mentre la produzione è firmata Indigo Film. “Abbiamo girato a Napoli, nei luoghi della gioventù di Ivan, poiché – sottolinea l’attrice – la storia è ambientata nel 1973. Io interpreto Titina, la giovane zia fricchettona del bimbo protagonista, che proprio grazie a me e al personaggio di Libero scoprirà la città delle feste notturne, del divertimento e della trasgressione, però colorata e ingenua. Si tratta di una commedia, nella quale il regista ha messo tutto se stesso”. In questi mesi, l’interprete della Sissi televisiva ha frequentato Napoli quasi tutti i giorni. “In effetti, da gennaio a giugno – conclude – sono stata in città spessissimo, prima per il corto di Terry Gilliam e poi per il film di Ivan. E devo dire che ho sofferto molto per lo stato nel quale ho trovato Napoli: piena di rifiuti per strada e, conseguentemente, quasi respingente nei confronti di chi viene da fuori. Peccato, perché la storia e la tradizione di questa città dicono altro e parlano di barocco, magia, suggestioni, arte, cultura”.
giovedì 14 luglio 2011
MARIO MARTONE E IL SUO RISORGIMENTO DA OSCAR
Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 13 luglio 2011)
(Il Mattino - 13 luglio 2011)
La campagna a sostegno di Noi credevamo di Mario Martone come candidato dell’Italia nella corsa agli Oscar parte dall’Ischia Global Film & Music Fest 2011, dove il film del regista napoletano è stato premiato ieri sera al Punta Molino di Ischia Porto e proiettato con grande successo al cinema Excelsior alla presenza dell’autore. “Sono felicissimo – spiega Martone – che si parli con tanta insistenza di una mia possibile candidatura, ma per adesso non posso che restare in attesa”.
Però, Martone, c’è chi sostiene che il suo film possa essere poco comprensibile all’estero. Lei cosa ne pensa?
“Preferisco che a parlare sia il pubblico. E, per fortuna, Noi credevamo sta godendo di una vita molto lunga anche all’estero, dove continua a riscuotere consensi in festival prestigiosi, recentemente a Karlovy Vary e a Stoccolma, dove molti spettatori mi hanno detto che la storia dei giovani rivoluzionari italiani gli aveva ricordato le rivolte nordafricane di questi mesi. Finora, comunque, non mi è mai capitato qualcuno che mi dicesse di non aver capito la storia”.
La corsa verso la candidatura italiana agli Oscar potrebbe essere favorita anche dal recente successo riscosso a New York. Com’è andata?
“Il film è stato proiettato al Lincoln Center, nell’ambito di “Open Roads”. E si è trattato di tre proiezioni con la sala strapiena ed entusiasta. Addirittura, mi hanno fatto tornare per il dibattito col direttore artistico Richard Pena al termine di ciascuna proiezione, mentre da programma avrei dovuto parlare una volta soltanto”.
Intanto, in autunno il pubblico italiano potrà vedere la versione lunga di Noi credevamo su Raitre, nell’ambito di un ciclo sul cinema italiano di qualità previsto per il giovedì sera. Cosa si aspetta dal passaggio televisivo?
“Innanzitutto, sono davvero contento che vi sia questa possibilità, senza alcuno snobismo nei confronti della televisione. Fin da quando l’ho progettato anni fa, infatti, ho sempre considerato questo come un film radical-popolare: radicale per il modo nel quale affronta il Risorgimento, popolare per come intende comunicarlo a quanti più italiani possibile. E mi sembra importante che tanta altra gente possa conoscere un’opera con la quale ho provato a dar voce a coloro che la storia ha dimenticato o relegato sullo sfondo, come per esempio i repubblicani o quel Mazzini ridotto a un santino bidimensionale. Quel periodo storico, infatti, non è fatto soltanto di scontri diplomatici o movimenti bellici, ma anche di tanta gente comune, tanti ragazzi soprattutto, che dal basso hanno deciso che era giunto il momento di cambiare le cose”.
E ogni riferimento al presente non è puramente casuale…
“Assolutamente no. Già il titolo coniugato all’imperfetto mi ha affascinato proprio per l’idea di tradimento ideale prolungatosi nel tempo. D’altra parte, l’Italia è un Paese opaco che ha sempre avuto problemi a rapportarsi con la propria storia e col proprio passato: un rapporto né pacificato né risolto. Evidentemente hanno ragione coloro che sottolineano come Noi credevamo sia riuscito ad anticipare un certo spirito dei tempi, che stiamo vivendo da qualche mese a questa parte sulle due sponde del Mediterraneo. Tra l’altro, la prima ispirazione per il film mi è venuta quando, nel 1996, girai il cortometraggio Una storia saharawi, dedicato a questo popolo che vive diviso tra i territori occupati del Sahara Occidentale marocchino e i campi profughi nel deserto algerino. E oggi mi piacerebbe tornare a occuparmi di loro”.
L’autodeterminazione dei saharawi oggi, dopo quella degli italiani nell’800, potrebbe essere, dunque, al centro di un suo prossimo film?
“Per adesso si tratta di un desiderio, più che di un vero progetto. Comunque, penso che il momento storico per tornare a occuparmi di queste tematiche sia arrivato”.
Nel frattempo, a settembre sarà in giuria alla Mostra di Venezia. Come vivrà questa esperienza?
“Con grande senso di responsabilità. Sono già stato in giuria anni fa a Cannes e ancora a Venezia e credo che sia decisiva l’attenzione verso tutti i film. Delle precedenti esperienze, poi, serbo bellissimi ricordi dei rapporti umani che si instaurano con gli altri membri, ai quali ti unisce la fortissima passione per il cinema. Naturalmente, pur con grande imparzialità, cercherò di far ottenere ai film italiani l’attenzione che meritano da parte di tutti i giurati”.
Però, Martone, c’è chi sostiene che il suo film possa essere poco comprensibile all’estero. Lei cosa ne pensa?
“Preferisco che a parlare sia il pubblico. E, per fortuna, Noi credevamo sta godendo di una vita molto lunga anche all’estero, dove continua a riscuotere consensi in festival prestigiosi, recentemente a Karlovy Vary e a Stoccolma, dove molti spettatori mi hanno detto che la storia dei giovani rivoluzionari italiani gli aveva ricordato le rivolte nordafricane di questi mesi. Finora, comunque, non mi è mai capitato qualcuno che mi dicesse di non aver capito la storia”.
La corsa verso la candidatura italiana agli Oscar potrebbe essere favorita anche dal recente successo riscosso a New York. Com’è andata?
“Il film è stato proiettato al Lincoln Center, nell’ambito di “Open Roads”. E si è trattato di tre proiezioni con la sala strapiena ed entusiasta. Addirittura, mi hanno fatto tornare per il dibattito col direttore artistico Richard Pena al termine di ciascuna proiezione, mentre da programma avrei dovuto parlare una volta soltanto”.
Intanto, in autunno il pubblico italiano potrà vedere la versione lunga di Noi credevamo su Raitre, nell’ambito di un ciclo sul cinema italiano di qualità previsto per il giovedì sera. Cosa si aspetta dal passaggio televisivo?
“Innanzitutto, sono davvero contento che vi sia questa possibilità, senza alcuno snobismo nei confronti della televisione. Fin da quando l’ho progettato anni fa, infatti, ho sempre considerato questo come un film radical-popolare: radicale per il modo nel quale affronta il Risorgimento, popolare per come intende comunicarlo a quanti più italiani possibile. E mi sembra importante che tanta altra gente possa conoscere un’opera con la quale ho provato a dar voce a coloro che la storia ha dimenticato o relegato sullo sfondo, come per esempio i repubblicani o quel Mazzini ridotto a un santino bidimensionale. Quel periodo storico, infatti, non è fatto soltanto di scontri diplomatici o movimenti bellici, ma anche di tanta gente comune, tanti ragazzi soprattutto, che dal basso hanno deciso che era giunto il momento di cambiare le cose”.
E ogni riferimento al presente non è puramente casuale…
“Assolutamente no. Già il titolo coniugato all’imperfetto mi ha affascinato proprio per l’idea di tradimento ideale prolungatosi nel tempo. D’altra parte, l’Italia è un Paese opaco che ha sempre avuto problemi a rapportarsi con la propria storia e col proprio passato: un rapporto né pacificato né risolto. Evidentemente hanno ragione coloro che sottolineano come Noi credevamo sia riuscito ad anticipare un certo spirito dei tempi, che stiamo vivendo da qualche mese a questa parte sulle due sponde del Mediterraneo. Tra l’altro, la prima ispirazione per il film mi è venuta quando, nel 1996, girai il cortometraggio Una storia saharawi, dedicato a questo popolo che vive diviso tra i territori occupati del Sahara Occidentale marocchino e i campi profughi nel deserto algerino. E oggi mi piacerebbe tornare a occuparmi di loro”.
L’autodeterminazione dei saharawi oggi, dopo quella degli italiani nell’800, potrebbe essere, dunque, al centro di un suo prossimo film?
“Per adesso si tratta di un desiderio, più che di un vero progetto. Comunque, penso che il momento storico per tornare a occuparmi di queste tematiche sia arrivato”.
Nel frattempo, a settembre sarà in giuria alla Mostra di Venezia. Come vivrà questa esperienza?
“Con grande senso di responsabilità. Sono già stato in giuria anni fa a Cannes e ancora a Venezia e credo che sia decisiva l’attenzione verso tutti i film. Delle precedenti esperienze, poi, serbo bellissimi ricordi dei rapporti umani che si instaurano con gli altri membri, ai quali ti unisce la fortissima passione per il cinema. Naturalmente, pur con grande imparzialità, cercherò di far ottenere ai film italiani l’attenzione che meritano da parte di tutti i giurati”.
mercoledì 13 luglio 2011
INTERVISTA A GERARD BUTLER: "UN FILM CON MUCCINO"
Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 12 luglio 2011)
(Il Mattino - 12 luglio 2011)
Quando sale sul palco dell’Ischia Global Film & Music Fest 2011, che ieri sera lo ha premiato nel corso del gala tenutosi al parco termale Castiglione di Casamicciola, Gerard Butler sfoggia una forma fisica sorprendente persino per lui che, attualmente, è uno tra gli attori più sexy sulla scena internazionale. D’altra parte, se sei reduce dal ruolo di un calciatore di successo e ti accingi a interpretare un mito del surf come Jay Moriarty – in Mavericks di Curtis Hanson, da ottobre il set nel nord della California – è persino banale essere perfettamente allenato. “Ma voglio fare ancora meglio”, racconta Butler poco prima della premiazione ischitana: “Perché, da scozzese grande appassionato di calcio e tifoso sfegatato del Celtic Glasgow, sono stato invitato – aggiunge – a un match benefico da disputarsi contro altri attori sostenitori del Manchester United; e, per questa occasione, voglio farmi trovare pronto”.
Per ora, comunque, Butler ha avuto modo di impersonare un calciatore sul set di Playing the Field, l’attesa prima commedia romantica diretta a Hollywood da Gabriele Muccino, dopo le sue precedenti pellicole drammatiche. Le riprese del film, che sarà distribuito in Italia da Medusa a inizio 2012, sono terminate da qualche settimana a Shreveport in Louisiana, dove il regista romano ha ricostruito la tipica cittadina yankee di provincia, abitata da uomini senza qualità e casalinghe disperate terribilmente simili a quelle dell’omonima serie tv della Abc. “In questo universo asfittico – spiega Butler – arriva il mio personaggio, l’ex campione di calcio George Dryer, che si trasferisce lì per ricucire il rapporto col figlioletto, fin lì sacrificato al successo e alla carriera. Per riavvicinarsi al bambino, infatti, George decide di allenare la locale squadra scolastica. Ben presto, però, diventerà oggetto del desiderio delle mamme dei suoi piccoli allievi, le quali troveranno in lui una via d’uscita da un’esistenza fatta di noia e frustrazioni”.
Di questo film lei non è semplicemente protagonista, ma anche produttore e co-sceneggiatore. Come mai un tale coinvolgimento?
“In effetti, l’idea di partenza è mia, anche se all’inizio il film avrebbe dovuto essere ambientato nel mondo del baseball. Poi, d’accordo con Muccino, ho deciso di utilizzare il calcio come contesto, in quanto meno americano e più globale. Tra l’altro, per la prima volta interpreto un personaggio scozzese come me. E la cosa mi ha reso particolarmente felice”.
Il resto del cast comprende attori e soprattutto attrici molto importanti. Com’è andata sul set?
“Benissimo. Le protagoniste femminili sono star come Catherine Zeta-Jones, Uma Thurman e Jessica Biel. Ed è stato meraviglioso recitare con tutte e tre: Catherine affascinava tutti appena arrivava sul set, con la sua sicurezza e quell’aria di chi ha visto tutto nella vita; con Uma, che è un’attrice di gran classe e raffinatezza, mi sono divertito molto, perché insieme abbiamo le scene più esilaranti e bizzarre; Jessica, infine, ha superato i provini in maniera incredibile, selezionata direttamente da me oltre che dal regista. Non dimenticherei, però, anche la presenza di un grande attore come Dennis Quaid”.
E con Muccino, invece, com’è andata?
“Conosco Gabriele già da molto tempo e apprezzo sinceramente il suo lavoro, che considero di grande qualità. Tra l’altro, ci unisce il fatto di essere entrambi, per così dire, “emigranti di lusso”: lui italiano e io scozzese. Anche per questo, dunque, siamo riusciti a proporre uno sguardo fresco e non usuale sulla realtà americana. L’intesa tra noi è scattata automatica e, anche quando ci siamo scontrati sulle nostre diverse visioni della storia, il confronto è stato sempre costruttivo”.
Più che di calcio, comunque, Playing the Field parla di rapporti interpersonali e, in particolare, familiari. Per entrare meglio nel personaggio, ha attinto anche alle sue esperienze personali?
“A differenza di Gabriele, che essendo papà ha potuto rifarsi a questa sua esperienza reale, io mi sono concentrato sul rapporto tra me e mio padre, visto dal punto di vista di un figlio. Al di là di tutto, però, questo film mi ha fatto capire che cosa mi sono perso finora, avendo superato i quarant’anni senza fare l’esperienza della paternità”.
Per ora, comunque, Butler ha avuto modo di impersonare un calciatore sul set di Playing the Field, l’attesa prima commedia romantica diretta a Hollywood da Gabriele Muccino, dopo le sue precedenti pellicole drammatiche. Le riprese del film, che sarà distribuito in Italia da Medusa a inizio 2012, sono terminate da qualche settimana a Shreveport in Louisiana, dove il regista romano ha ricostruito la tipica cittadina yankee di provincia, abitata da uomini senza qualità e casalinghe disperate terribilmente simili a quelle dell’omonima serie tv della Abc. “In questo universo asfittico – spiega Butler – arriva il mio personaggio, l’ex campione di calcio George Dryer, che si trasferisce lì per ricucire il rapporto col figlioletto, fin lì sacrificato al successo e alla carriera. Per riavvicinarsi al bambino, infatti, George decide di allenare la locale squadra scolastica. Ben presto, però, diventerà oggetto del desiderio delle mamme dei suoi piccoli allievi, le quali troveranno in lui una via d’uscita da un’esistenza fatta di noia e frustrazioni”.
Di questo film lei non è semplicemente protagonista, ma anche produttore e co-sceneggiatore. Come mai un tale coinvolgimento?
“In effetti, l’idea di partenza è mia, anche se all’inizio il film avrebbe dovuto essere ambientato nel mondo del baseball. Poi, d’accordo con Muccino, ho deciso di utilizzare il calcio come contesto, in quanto meno americano e più globale. Tra l’altro, per la prima volta interpreto un personaggio scozzese come me. E la cosa mi ha reso particolarmente felice”.
Il resto del cast comprende attori e soprattutto attrici molto importanti. Com’è andata sul set?
“Benissimo. Le protagoniste femminili sono star come Catherine Zeta-Jones, Uma Thurman e Jessica Biel. Ed è stato meraviglioso recitare con tutte e tre: Catherine affascinava tutti appena arrivava sul set, con la sua sicurezza e quell’aria di chi ha visto tutto nella vita; con Uma, che è un’attrice di gran classe e raffinatezza, mi sono divertito molto, perché insieme abbiamo le scene più esilaranti e bizzarre; Jessica, infine, ha superato i provini in maniera incredibile, selezionata direttamente da me oltre che dal regista. Non dimenticherei, però, anche la presenza di un grande attore come Dennis Quaid”.
E con Muccino, invece, com’è andata?
“Conosco Gabriele già da molto tempo e apprezzo sinceramente il suo lavoro, che considero di grande qualità. Tra l’altro, ci unisce il fatto di essere entrambi, per così dire, “emigranti di lusso”: lui italiano e io scozzese. Anche per questo, dunque, siamo riusciti a proporre uno sguardo fresco e non usuale sulla realtà americana. L’intesa tra noi è scattata automatica e, anche quando ci siamo scontrati sulle nostre diverse visioni della storia, il confronto è stato sempre costruttivo”.
Più che di calcio, comunque, Playing the Field parla di rapporti interpersonali e, in particolare, familiari. Per entrare meglio nel personaggio, ha attinto anche alle sue esperienze personali?
“A differenza di Gabriele, che essendo papà ha potuto rifarsi a questa sua esperienza reale, io mi sono concentrato sul rapporto tra me e mio padre, visto dal punto di vista di un figlio. Al di là di tutto, però, questo film mi ha fatto capire che cosa mi sono perso finora, avendo superato i quarant’anni senza fare l’esperienza della paternità”.
martedì 12 luglio 2011
PARLA CHRISTOPH WALTZ, TRA POLANSKI E TARANTINO
Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 11 luglio 2011)
(Il Mattino - 11 luglio 2011)
La prima star internazionale dell’Ischia Global Film & Music Fest 2011 è Christoph Waltz, l’attore austriaco che l’anno scorso vinse l’Oscar per il ruolo del cattivissimo Hans Landa, il colonnello nazista cacciatore di ebrei di Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino. Un Waltz in splendida forma, infatti, anticipa il red carpet inaugurale del festival diretto da Pascal Vicedomini e si ferma a parlare ben volentieri dei prossimi progetti cinematografici, tutti attesissimi, nei quali è coinvolto. A partire da Carnage, il nuovo film di Roman Polanski che – svela lo stesso Waltz, anticipando l’ufficialità dei vertici della Biennale – “sarà proiettato in anteprima mondiale il 1 settembre alla Mostra del cinema di Venezia”.
Com’è stato, dunque, lavorare con un autore come Polanski?
“Un’esperienza davvero straordinaria, perché ho avuto la fortuna di conoscere un maestro assoluto della storia del cinema e un uomo dotato di grande personalità nonché, cosa che non guasta, di notevole senso dell’umorismo. La caratteristica che mi ha più colpito, però, è stato il suo perfezionismo: nei mesi in cui abbiamo lavorato insieme, infatti, credo di aver imparato cos’è la vera precisione”.
Nel cast di Carnage lei è affiancato da Jodie Foster, Kate Winslet e John C. Reilly. Com’è stata l’atmosfera durante la lavorazione?
“Assolutamente serena e rilassata. Abbiamo girato all’inizio dell’anno, per dodici settimane, a Parigi. E durante l’intera lavorazione non s’è verificata mai nessuna tensione tra noi. Il merito è stato soprattutto di Polanski, che ha saputo creare un magnifico clima, tenendo fuori tutto ciò che poteva disturbarci. Persino le sue recenti disavventure giudiziarie sono apparse a tutti noi lontanissime”.
Di che parla Carnage?
“Noi quattro protagonisti interpretiamo due coppie di genitori che si conoscono in occasione di un litigio al parco giochi tra i loro figli. Il problema, però, è che ben presto saremo trascinati in una disputa che, all’inizio, sembrava soltanto un gioco da bambini. Per me e per gli altri attori, il film è innanzitutto una commedia, seppur amara. Ma, come sempre, quando si ha a che fare con una commedia, basta scavare un po’ per imbattersi in contenuti ben più seri. Il testo di riferimento, scritto da Yasmina Reza, è già stato adattato diverse volte anche al teatro. Nella sua trasposizione, però, Roman è stato molto attento a evitare espedienti troppo teatrali, attenendosi anzi alle specificità del linguaggio cinematografico”.
Avendo lavorato con entrambi, se la sentirebbe di fare un paragone tra Polanski e Tarantino?
“No, perché sono diversissimi come cineasti e come uomini. E, poi, sono impossibili da paragonare anche perché entrambi sono esemplari unici”.
A proposito di Tarantino, in autunno tornerà a lavorare con lui, dopo il trionfo di Bastardi senza gloria.
“Sì, sarò tra i protagonisti di Django Unchained, l’omaggio di Quentin alla gloriosa stagione del western all’italiana. Il mio personaggio, però, dovrebbe essere meno negativo di quello che ho interpretato nel suo film precedente. Il protagonista sarà Jamie Foxx, mentre il resto del cast è ancora in via di composizione. Inizieremo a girare a novembre in New Mexico e altre località interne degli Stati Uniti”.
Il nuovo Django Unchained è l’ennesimo atto d’amore di Tarantino verso un certo cinema italiano del passato. Anche lei condivide questa stessa passione?
“In effetti, anche a me piacciono molto i film italiani del passato. Diciamo fino agli anni Settanta. Però, i miei gusti sono più classici rispetto a Quentin: basti pensare che il mio titolo di culto è 8 ½ di Fellini. Apprezzo, poi, anche le maschere italiane della grande commedia dell’arte, tra le quali pure quella napoletana di Pulcinella. E anche nella musica ho gusti abbastanza classici, perché le sinfonie immortali del passato ti sembrano diverse ogni volta che le riascolti, dato che in realtà sei tu a essere cambiato”.
Lei ha lavorato recentemente anche in una nuova versione in 3D dei Tre moschettieri. Cosa pensa della nuova frontiera digitale?
“A me questo nuovo 3D non piace molto e non mi interessa. Insomma, capisco le ragioni del mercato, ma non penso che possa essere un elemento decisivo per il futuro dell’industria cinematografica. Per quanto riguarda i Tre moschettieri, invece, è stato un lavoro come tanti, divertente ma nulla più. Comunque, ho avuto la soddisfazione di interpretare Richelieu”.
Com’è stato, dunque, lavorare con un autore come Polanski?
“Un’esperienza davvero straordinaria, perché ho avuto la fortuna di conoscere un maestro assoluto della storia del cinema e un uomo dotato di grande personalità nonché, cosa che non guasta, di notevole senso dell’umorismo. La caratteristica che mi ha più colpito, però, è stato il suo perfezionismo: nei mesi in cui abbiamo lavorato insieme, infatti, credo di aver imparato cos’è la vera precisione”.
Nel cast di Carnage lei è affiancato da Jodie Foster, Kate Winslet e John C. Reilly. Com’è stata l’atmosfera durante la lavorazione?
“Assolutamente serena e rilassata. Abbiamo girato all’inizio dell’anno, per dodici settimane, a Parigi. E durante l’intera lavorazione non s’è verificata mai nessuna tensione tra noi. Il merito è stato soprattutto di Polanski, che ha saputo creare un magnifico clima, tenendo fuori tutto ciò che poteva disturbarci. Persino le sue recenti disavventure giudiziarie sono apparse a tutti noi lontanissime”.
Di che parla Carnage?
“Noi quattro protagonisti interpretiamo due coppie di genitori che si conoscono in occasione di un litigio al parco giochi tra i loro figli. Il problema, però, è che ben presto saremo trascinati in una disputa che, all’inizio, sembrava soltanto un gioco da bambini. Per me e per gli altri attori, il film è innanzitutto una commedia, seppur amara. Ma, come sempre, quando si ha a che fare con una commedia, basta scavare un po’ per imbattersi in contenuti ben più seri. Il testo di riferimento, scritto da Yasmina Reza, è già stato adattato diverse volte anche al teatro. Nella sua trasposizione, però, Roman è stato molto attento a evitare espedienti troppo teatrali, attenendosi anzi alle specificità del linguaggio cinematografico”.
Avendo lavorato con entrambi, se la sentirebbe di fare un paragone tra Polanski e Tarantino?
“No, perché sono diversissimi come cineasti e come uomini. E, poi, sono impossibili da paragonare anche perché entrambi sono esemplari unici”.
A proposito di Tarantino, in autunno tornerà a lavorare con lui, dopo il trionfo di Bastardi senza gloria.
“Sì, sarò tra i protagonisti di Django Unchained, l’omaggio di Quentin alla gloriosa stagione del western all’italiana. Il mio personaggio, però, dovrebbe essere meno negativo di quello che ho interpretato nel suo film precedente. Il protagonista sarà Jamie Foxx, mentre il resto del cast è ancora in via di composizione. Inizieremo a girare a novembre in New Mexico e altre località interne degli Stati Uniti”.
Il nuovo Django Unchained è l’ennesimo atto d’amore di Tarantino verso un certo cinema italiano del passato. Anche lei condivide questa stessa passione?
“In effetti, anche a me piacciono molto i film italiani del passato. Diciamo fino agli anni Settanta. Però, i miei gusti sono più classici rispetto a Quentin: basti pensare che il mio titolo di culto è 8 ½ di Fellini. Apprezzo, poi, anche le maschere italiane della grande commedia dell’arte, tra le quali pure quella napoletana di Pulcinella. E anche nella musica ho gusti abbastanza classici, perché le sinfonie immortali del passato ti sembrano diverse ogni volta che le riascolti, dato che in realtà sei tu a essere cambiato”.
Lei ha lavorato recentemente anche in una nuova versione in 3D dei Tre moschettieri. Cosa pensa della nuova frontiera digitale?
“A me questo nuovo 3D non piace molto e non mi interessa. Insomma, capisco le ragioni del mercato, ma non penso che possa essere un elemento decisivo per il futuro dell’industria cinematografica. Per quanto riguarda i Tre moschettieri, invece, è stato un lavoro come tanti, divertente ma nulla più. Comunque, ho avuto la soddisfazione di interpretare Richelieu”.
domenica 10 luglio 2011
MORTO L'UOMO CHE ISPIRO' BENIGNI PER "LA VITA E' BELLA"
Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 10 luglio 2011)
(Il Mattino - 10 luglio 2011)
C’è un uomo dietro La vita è bella, il celebre film col quale Roberto Benigni conquistò ben tre Oscar nel 1999, dopo aver fatto incetta di premi e incassi in Italia e nel mondo fin dalla prima uscita in sala nel dicembre 1997. Si tratta di un uomo reale, non di un personaggio da film: un uomo che, con la sua storia, ha ispirato il regista e attore toscano fino a convincerlo a trasformare proprio quella storia, tra le tante possibili, in una fiaba tragica sull’Olocausto entrata di diritto negli annali del cinema mondiale. Ebbene, quest’uomo, Rubino Romeo Salmonì, è morto ieri mattina a Roma all’età di 91 anni.
Nel campo di sterminio di Auschwitz, Salmonì giunse appena diciottenne, dopo essere stato catturato dalla polizia fascista nell’aprile 1944, nonostante pochi mesi prima, il 16 ottobre 1943, fosse riuscito a sfuggire alle retate naziste che svuotarono letteralmente il Ghetto di Roma. In seguito all’arresto, l’uomo fu deportato prima a Fossoli e poi nel terribile campo di sterminio aperto dai nazisti nella Polonia occupata. Dalla sua terribile esperienza Salmonì ha tratto un libro di testimonianze e ricordi, intitolato Ho ucciso Hitler e presentato pochi mesi fa in occasione della Giornata della Memoria. “Ad Auschwitz – scrive in quelle pagine – non ero più Rubino Romeo Salmoni, ma l’ebreo A 15810 da eliminare”. Prima del suo libro, però, ha avuto modo di ricordare le sue esperienze nel campo di sterminio tante altre volte nel corso della sua vita, anche con gli studenti delle scuole, di fronte ai quali non ha mai esitato a definire quell’esperienza “il mio lungo viaggio verso la morte”, mentre ricostruiva minuziosamente l’inferno quotidiano vissuto in un luogo fatto unicamente di morte e sofferenza. Da quel luogo, però, Rubino Romeo Salmonì riuscì a tornare indietro nel 1945, tra i pochi ebrei romani sopravvissuti ad Auschwitz-Dachau. Quando mise nuovamente piede nella sua città, però, non trovò più i fratelli, Angelo e Davide, che a loro volta erano stati catturati, ma uccisi, dai nazisti.
A chi gli chiedeva di spiegare il titolo paradossale del suo libro di ricordi, Salmonì amava rispondere, con un misto di orgoglio e soddisfazione: “Io sono ancora qui sano e salvo. Ho fatto i miei conti: sono uscito vivo dal campo di sterminio di Auschwitz, ho una bella famiglia, ho festeggiato le nozze d’oro, ho dodici splendidi nipoti. Dunque, credo di aver sconfitto il disegno di Hitler”.
Nel campo di sterminio di Auschwitz, Salmonì giunse appena diciottenne, dopo essere stato catturato dalla polizia fascista nell’aprile 1944, nonostante pochi mesi prima, il 16 ottobre 1943, fosse riuscito a sfuggire alle retate naziste che svuotarono letteralmente il Ghetto di Roma. In seguito all’arresto, l’uomo fu deportato prima a Fossoli e poi nel terribile campo di sterminio aperto dai nazisti nella Polonia occupata. Dalla sua terribile esperienza Salmonì ha tratto un libro di testimonianze e ricordi, intitolato Ho ucciso Hitler e presentato pochi mesi fa in occasione della Giornata della Memoria. “Ad Auschwitz – scrive in quelle pagine – non ero più Rubino Romeo Salmoni, ma l’ebreo A 15810 da eliminare”. Prima del suo libro, però, ha avuto modo di ricordare le sue esperienze nel campo di sterminio tante altre volte nel corso della sua vita, anche con gli studenti delle scuole, di fronte ai quali non ha mai esitato a definire quell’esperienza “il mio lungo viaggio verso la morte”, mentre ricostruiva minuziosamente l’inferno quotidiano vissuto in un luogo fatto unicamente di morte e sofferenza. Da quel luogo, però, Rubino Romeo Salmonì riuscì a tornare indietro nel 1945, tra i pochi ebrei romani sopravvissuti ad Auschwitz-Dachau. Quando mise nuovamente piede nella sua città, però, non trovò più i fratelli, Angelo e Davide, che a loro volta erano stati catturati, ma uccisi, dai nazisti.
A chi gli chiedeva di spiegare il titolo paradossale del suo libro di ricordi, Salmonì amava rispondere, con un misto di orgoglio e soddisfazione: “Io sono ancora qui sano e salvo. Ho fatto i miei conti: sono uscito vivo dal campo di sterminio di Auschwitz, ho una bella famiglia, ho festeggiato le nozze d’oro, ho dodici splendidi nipoti. Dunque, credo di aver sconfitto il disegno di Hitler”.
sabato 9 luglio 2011
COURTNEY LOVE ALL'ISCHIA GLOBAL 2011?
Di Diego Del Pozzo
C’è una star internazionale a sorpresa che va ad arricchire, all’ultimo momento, il già denso parterre di super-ospiti dell’Ischia Global Film & Music Fest 2011: si tratta di Courtney Love, la “vedova nera” del rock mondiale, l’ex moglie di Kurt Cobain, il leader dei Nirvana morto suicida nel 1994. L’icona femminile “maledetta” del cinerock globale anni Novanta arriverà al festival tra lunedì e mercoledì e – sottolinea il produttore dell’Ischia Global, Pascal Vicedomini – “ha già fatto sapere di voler cantare”. Alla Love sarà assegnato un premio che ne metta in risalto il ruolo centrale acquisito nell’ambito di un certo showbiz alternativo di questi anni, grazie alle chiacchierate relazioni post-Cobain con, tra i tanti, artisti del calibro di Michael Stipe dei Rem ed Edward Norton, ma anche a ottimi album come Live Through This (1994) e Celebrity Skin (1998) realizzati con la sua band, le Hole, e a ruoli da protagonista in film importanti come Larry Flint – Oltre lo scandalo (per il quale fu nominata anche ai Golden Globe nel 1996) e Man on the Moon, entrambi diretti dal maestro Milos Forman.
mercoledì 6 luglio 2011
RISCOPERTE PER CINEFILI COL "PROGETTO NAPOLI"
Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 3 luglio 2011)
(Il Mattino - 3 luglio 2011)
Ci sono personaggi che sembrano fatti apposta per finire nelle note a margine della storia del cinema, in attesa di essere riscoperti e riproposti all’attenzione dei cinefili di tutto il mondo. Tra di loro c’è anche il napoletano Michael Ruggieri, emigrato dalla Campania alla volta degli Stati Uniti all’inizio del Novecento con un sogno: tener viva la memoria della terra lontana attraverso le immagini in movimento del cinematografo, che aveva imparato ad apprezzare proprio nella sua Napoli. La figura di Michael Ruggieri è al centro della sezione “Progetto Napoli” che, per il secondo anno consecutivo, il festival Il Cinema Ritrovato (la cui venticinquesima edizione s’è chiusa ieri a Bologna) ha proposto agli appassionati, arricchita di materiali rari recuperati negli archivi di alcune importanti cineteche internazionali.
Sbarcato all’ombra della Statua della Libertà, Ruggieri si stabilì un po’ più all’interno, a Rochester, dove costruì negli anni una fiorente attività di distributore cinematografico, caratterizzata, però, dalla predilezione per un tipo di produzione esplicitamente rivolta alla fiorente platea italo-americana. All’apice dell’emigrazione italiana del secolo scorso, tra il 1906 e il 1910, gli italiani rappresentavano addirittura il 7 per cento della popolazione complessiva di New York e costituivano un mercato appetibile. Perciò, si dimostrò vincente l’intuizione di Ruggieri di distribuire nell’area della Grande Mela una serie di film perfetti per alleviare la loro nostalgia di casa. Una parte consistente di questa produzione giungeva proprio dalla città d’origine del distributore partenopeo che, in quegli anni, riuscì a trasformare in clamorosi successi di pubblico titoli classici del cinema “strappacore” come A’ santanotte, Terra madre, Piccola mamma, I figli di nessuno, circa metà dei quali andati perduti nel corso dei decenni. Ciò che rimane e che i curatori del “Progetto Napoli” Elena Correra e Luigi Virgolin hanno mostrato in questi giorni a Bologna, comunque, è più sufficiente “per comprendere - spiegano - le scelte distributive di Ruggieri, chiaramente orientate a un pubblico italo-americano, peraltro composto in larga parte proprio da napoletani”.
La collezione Michael Ruggieri è molto ricca. Acquisita anni fa dalla George Eastman House di Rochester, comprende oltre 2.200 elementi tra fotografie, poster, programmi e corrispondenza varia, oltre ai film. Tra le chicche provenienti da questo sterminato archivio hanno destato particolare sensazione a Bologna anche alcune pellicole realizzate direttamente negli Stati Uniti, con registi americani ma contenuti e spesso interpreti squisitamente napoletani. Di uno di questi film, Senza mamma e ‘nnammurato, girato nel 1932 da Harold Godsoe, sono sopravvissuti due sorprendenti trailer, nei quali s’intravede un giovane Nino Taranto, che partecipò al film nel corso della sua tournée americana d’inizio anni Trenta, dalla quale - come racconta lui stesso - tornò con “una pianola e mille dollari”, utilizzati per finanziare la sua prima compagnia di varietà. La presenza del comico napoletano nel film di Godsoe è particolarmente rilevante, perché finora si faceva iniziare la filmografia tarantiana addirittura sei anni dopo, nel 1938, con Nonna Felicita di Mario Mattoli. Un altro film interessante, proveniente dal fondo della George Eastman House e visto durante Il Cinema Ritrovato, è The Man in Blue, girato da Edward Laemmle nel 1925 a Little Italy. “Al suo interno, infatti, spiccano tanti elementi - sottolineano Elena Correra e Luigi Virgolin - che rimandano alla Napoli lontana, come il canto e il ballo su melodie tradizionali partenopee, l’accenno a figure malavitose simili a quelle dei guappi e dei camorristi e, soprattutto, la presenza del comico napoletano Cesare Gravina in un ruolo particolarmente stereotipato di emigrato”. Proprio Gravina, interprete e capocomico del teatro d’operetta d’inizio Novecento, partecipò ad altri film simili, anche se nei suoi anni americani tra il 1915 e il 1929 ebbe pure il merito di lavorare, seppur in ruoli secondari, con un maestro assoluto come Erich von Stroheim nei capolavori Femmine folli (1922) e Greed - Rapacità (1923).
Sbarcato all’ombra della Statua della Libertà, Ruggieri si stabilì un po’ più all’interno, a Rochester, dove costruì negli anni una fiorente attività di distributore cinematografico, caratterizzata, però, dalla predilezione per un tipo di produzione esplicitamente rivolta alla fiorente platea italo-americana. All’apice dell’emigrazione italiana del secolo scorso, tra il 1906 e il 1910, gli italiani rappresentavano addirittura il 7 per cento della popolazione complessiva di New York e costituivano un mercato appetibile. Perciò, si dimostrò vincente l’intuizione di Ruggieri di distribuire nell’area della Grande Mela una serie di film perfetti per alleviare la loro nostalgia di casa. Una parte consistente di questa produzione giungeva proprio dalla città d’origine del distributore partenopeo che, in quegli anni, riuscì a trasformare in clamorosi successi di pubblico titoli classici del cinema “strappacore” come A’ santanotte, Terra madre, Piccola mamma, I figli di nessuno, circa metà dei quali andati perduti nel corso dei decenni. Ciò che rimane e che i curatori del “Progetto Napoli” Elena Correra e Luigi Virgolin hanno mostrato in questi giorni a Bologna, comunque, è più sufficiente “per comprendere - spiegano - le scelte distributive di Ruggieri, chiaramente orientate a un pubblico italo-americano, peraltro composto in larga parte proprio da napoletani”.
La collezione Michael Ruggieri è molto ricca. Acquisita anni fa dalla George Eastman House di Rochester, comprende oltre 2.200 elementi tra fotografie, poster, programmi e corrispondenza varia, oltre ai film. Tra le chicche provenienti da questo sterminato archivio hanno destato particolare sensazione a Bologna anche alcune pellicole realizzate direttamente negli Stati Uniti, con registi americani ma contenuti e spesso interpreti squisitamente napoletani. Di uno di questi film, Senza mamma e ‘nnammurato, girato nel 1932 da Harold Godsoe, sono sopravvissuti due sorprendenti trailer, nei quali s’intravede un giovane Nino Taranto, che partecipò al film nel corso della sua tournée americana d’inizio anni Trenta, dalla quale - come racconta lui stesso - tornò con “una pianola e mille dollari”, utilizzati per finanziare la sua prima compagnia di varietà. La presenza del comico napoletano nel film di Godsoe è particolarmente rilevante, perché finora si faceva iniziare la filmografia tarantiana addirittura sei anni dopo, nel 1938, con Nonna Felicita di Mario Mattoli. Un altro film interessante, proveniente dal fondo della George Eastman House e visto durante Il Cinema Ritrovato, è The Man in Blue, girato da Edward Laemmle nel 1925 a Little Italy. “Al suo interno, infatti, spiccano tanti elementi - sottolineano Elena Correra e Luigi Virgolin - che rimandano alla Napoli lontana, come il canto e il ballo su melodie tradizionali partenopee, l’accenno a figure malavitose simili a quelle dei guappi e dei camorristi e, soprattutto, la presenza del comico napoletano Cesare Gravina in un ruolo particolarmente stereotipato di emigrato”. Proprio Gravina, interprete e capocomico del teatro d’operetta d’inizio Novecento, partecipò ad altri film simili, anche se nei suoi anni americani tra il 1915 e il 1929 ebbe pure il merito di lavorare, seppur in ruoli secondari, con un maestro assoluto come Erich von Stroheim nei capolavori Femmine folli (1922) e Greed - Rapacità (1923).
martedì 5 luglio 2011
LA NAPOLI MAGICO-MITOLOGICA DI "RADICI"
Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 2 luglio 2011)
(Il Mattino - 2 luglio 2011)
La Napoli magico-mitologica e storica, la musica e la presenza quasi sciamanica di Enzo Gragnaniello legano assieme il nuovo film di Carlo Luglio, Radici, un itinerario ondivago quasi interamente musicale nel quale proprio Gragnaniello fa da custode della memoria e da “genius loci” di una Partenope mistica e viscerale, antichissima e sospesa nel tempo. Il film, prodotto dalla factory napoletana Figli del Bronx, è stato selezionato per le Giornate degli autori della prossima Mostra di Venezia, dove sarà proiettato il 2 settembre e seguito da un concerto al Lido dello stesso Gragnaniello accompagnato dai Sud Express e da Toni Cercola.
Proprio Cercola, nel lavoro scritto e diretto da Carlo Luglio, interpreta il ruolo di un bizzarro e trasognato Virgilio, che fa da guida al viandante Gragnaniello in luoghi dell’anima come l’Antro della Sibilla a Cuma, il Castello di Baia, la Casina vanvitelliana del Fusaro, la Solfatara, il Tempio di Mercurio, la Piscina Mirabilis, l’Arenile di Bagnoli, i Quartieri spagnoli, il Maschio Angioino. “Il progetto - spiega il regista Luglio - nasce dall’esigenza di valorizzare un’altra Napoli, mitologica e magica ma altrettanto viva nei millenni. E per farlo, ci è sembrata perfetta la guida musicale di un interprete sanguigno come Gragnaniello, che ha saputo interpretare le svariate anime delle nostre radici: quella lunare, quella solare e quella popolare. Così, attraverso una serie di incontri con artisti e luoghi, lo spettatore potrà sentir riaffiorare il meglio della tradizione musicale e iconografica partenopea”.
Radici, che si giova dell’ottima fotografia di Francesca Amitrano, è scandito dai brani di alcuni album di Gragnaniello, a partire dai due più recenti, Radice e L’erba cattiva; ma acquista ulteriore forza anche grazie alla serie di incontri che il protagonista e la sua guida Toni Cercola fanno, via via, con artisti-icone come Maria Luisa Santella, Enzo Moscato, Ida Di Benedetto, Riccardo Veno, James Senese. La loro parte, però, la fanno anche i Sud Express, partner musicali di Gragnaniello in quasi tutte le sue esibizioni musicali (con menzione speciale per un notevole Franco Del Prete). “Il regista - racconta Enzo Gragnaniello - si è detto ispirato dalla mia figura e mi ha voluto utilizzare per quello che sono: un elemento legato spiritualmente a questa terra, come la pietra di tufo e il mare. E, da parte mia, mi sono sentito onorato, proprio perché non mi è stato chiesto di fare l’attore, ma di creare e sentire secondo quello che è il mio istinto”. La Napoli di Radici, comunque, è proprio quella che piace a Gragnaniello: “Per me - aggiunge - è sempre una città bellissima, anche se i suoi valori ancestrali oggi sono un po’ sommersi. Per esempio, tutta la razionalità che ci domina ha fatto scappare i fantasmi, gli spiriti e i monacielli con i quali i napoletani hanno parlato per millenni. E allora, mi chiedo, adesso a chi ci rivolgiamo per trovare la nostra strada? Per fortuna, come si capisce anche dal film, questa città è più forte di tutto, come la gramigna che ricresce anche quando la tagli. Per me - conclude Gragnaniello - dipende dalla sua energia vulcanica, che la gente ha assorbito nel corso del tempo”.
Proprio Cercola, nel lavoro scritto e diretto da Carlo Luglio, interpreta il ruolo di un bizzarro e trasognato Virgilio, che fa da guida al viandante Gragnaniello in luoghi dell’anima come l’Antro della Sibilla a Cuma, il Castello di Baia, la Casina vanvitelliana del Fusaro, la Solfatara, il Tempio di Mercurio, la Piscina Mirabilis, l’Arenile di Bagnoli, i Quartieri spagnoli, il Maschio Angioino. “Il progetto - spiega il regista Luglio - nasce dall’esigenza di valorizzare un’altra Napoli, mitologica e magica ma altrettanto viva nei millenni. E per farlo, ci è sembrata perfetta la guida musicale di un interprete sanguigno come Gragnaniello, che ha saputo interpretare le svariate anime delle nostre radici: quella lunare, quella solare e quella popolare. Così, attraverso una serie di incontri con artisti e luoghi, lo spettatore potrà sentir riaffiorare il meglio della tradizione musicale e iconografica partenopea”.
Radici, che si giova dell’ottima fotografia di Francesca Amitrano, è scandito dai brani di alcuni album di Gragnaniello, a partire dai due più recenti, Radice e L’erba cattiva; ma acquista ulteriore forza anche grazie alla serie di incontri che il protagonista e la sua guida Toni Cercola fanno, via via, con artisti-icone come Maria Luisa Santella, Enzo Moscato, Ida Di Benedetto, Riccardo Veno, James Senese. La loro parte, però, la fanno anche i Sud Express, partner musicali di Gragnaniello in quasi tutte le sue esibizioni musicali (con menzione speciale per un notevole Franco Del Prete). “Il regista - racconta Enzo Gragnaniello - si è detto ispirato dalla mia figura e mi ha voluto utilizzare per quello che sono: un elemento legato spiritualmente a questa terra, come la pietra di tufo e il mare. E, da parte mia, mi sono sentito onorato, proprio perché non mi è stato chiesto di fare l’attore, ma di creare e sentire secondo quello che è il mio istinto”. La Napoli di Radici, comunque, è proprio quella che piace a Gragnaniello: “Per me - aggiunge - è sempre una città bellissima, anche se i suoi valori ancestrali oggi sono un po’ sommersi. Per esempio, tutta la razionalità che ci domina ha fatto scappare i fantasmi, gli spiriti e i monacielli con i quali i napoletani hanno parlato per millenni. E allora, mi chiedo, adesso a chi ci rivolgiamo per trovare la nostra strada? Per fortuna, come si capisce anche dal film, questa città è più forte di tutto, come la gramigna che ricresce anche quando la tagli. Per me - conclude Gragnaniello - dipende dalla sua energia vulcanica, che la gente ha assorbito nel corso del tempo”.
lunedì 4 luglio 2011
ARRIVA "FALLING SKIES", LA NUOVA SERIE DI SPIELBERG
Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 1 luglio 2011)
(Il Mattino - 1 luglio 2011)
Da qualche anno Steven Spielberg è tornato a collaborare con una certa regolarità con i network televisivi statunitensi, ricollegandosi direttamente ai suoi esordi, quando nel 1970 iniziò a farsi conoscere dirigendo episodi di serie celebri come Colombo, Marcus Welby o Mistero in galleria, per tacere del suo primo successo globale, quel Duel che nasceva nel 1971 proprio come tv movie.
I suoi due più recenti progetti seriali per il piccolo schermo, dopo i kolossal bellici Band of Brothers e The Pacific, sono entrambi di genere fantascientifico, spesso frequentato da Spielberg anche sul grande schermo per riscrivere le coordinate del cinema hollywoodiano dagli anni Ottanta in poi. Però, mentre per il secondo serial, Terra Nova, bisognerà aspettare l’autunno, il primo, Falling Skies, ha esordito col botto il 19 giugno negli Stati Uniti, totalizzando quasi sei milioni di telespettatori e facendo segnare, sul network TNT, il più alto indice d’ascolto stagionale per uno show trasmesso da una tv via cavo.Ora, dopo l’anteprima di oggi al Telefilm Festival di Milano, Falling Skies arriva anche in Italia, dove Fox (canale 111 di Sky) lo trasmetterà a partire dal 5 luglio, ogni martedì alle 21, con due sole settimane di ritardo rispetto alla messa in onda americana. “Un elemento di grande originalità della serie – spiega proprio Steven Spielberg al settimanale americano Tv Guide – è che la storia inizia sei mesi dopo l’avvenuta conquista della Terra da parte degli alieni. A me, infatti, interessava mostrare soprattutto come i personaggi sarebbero riusciti a sopravvivere a una catastrofe che ha cancellato l’80 per cento della popolazione terrestre e ogni forma di tecnologia e comunicazione, magari cercando dentro di sé i valori che li rendono americani”.
Protagonista di Falling Skies è quel Noah Wylie diventato una star col ruolo del dottor John Carter di E.R. – Medici in prima linea. Qui, Wylie interpreta Tom Mason, un intellettuale che, dopo aver perso la moglie nel corso dell’invasione e essersi visto portar via il figlio dagli alieni, deve trasformarsi in uomo d’azione per fare i conti con un mondo completamente privo di tecnologia, pieno di insidie e dominato da mostri invasori. Assieme agli altri sopravvissuti, militari e civili, Tom attraverserà un’America post-apocalittica a tratti irriconoscibile alla ricerca del figlioletto, ma anche di un rifugio sicuro che potrebbe non esistere più. “La scelta di un professore di letteratura e storia americana come leader di questo pugno di sopravvissuti – aggiunge Spielberg – mi è servita per coinvolgere il pubblico e farlo immedesimare. Conosco Noah Wylie dai tempi di E.R. e avevo pensato a lui anche per Salvate il soldato Ryan. Così, appena i suoi impegni glielo hanno permesso, non ho avuto dubbi: è stato la mia prima scelta per il ruolo del protagonista”.Accanto a Wyle, nei dieci episodi che compongono la prima stagione (ma è certa la conferma almeno per il secondo anno) recitano anche altri volti più o meno noti del cinema e della tv a stelle e strisce, come Sara Carter, Will Patton, Drew Roy, Moon Bloodgood, Maxim Knight, Connor Jessup, Seychelle Gabriel. Il copione della serie, invece, è firmato da Robert Rodat (già autore degli script di kolossal come Salvate il soldato Ryan e Il patriota), mentre tra i produttori esecutivi spiccano i nomi degli altri big Graham Yost (Speed) e Mark Verheiden (Battlestar Galactica). La regia dei primi episodi, infine, è affidata a veterani come Carl Franklin e Greg Beeman.
I suoi due più recenti progetti seriali per il piccolo schermo, dopo i kolossal bellici Band of Brothers e The Pacific, sono entrambi di genere fantascientifico, spesso frequentato da Spielberg anche sul grande schermo per riscrivere le coordinate del cinema hollywoodiano dagli anni Ottanta in poi. Però, mentre per il secondo serial, Terra Nova, bisognerà aspettare l’autunno, il primo, Falling Skies, ha esordito col botto il 19 giugno negli Stati Uniti, totalizzando quasi sei milioni di telespettatori e facendo segnare, sul network TNT, il più alto indice d’ascolto stagionale per uno show trasmesso da una tv via cavo.Ora, dopo l’anteprima di oggi al Telefilm Festival di Milano, Falling Skies arriva anche in Italia, dove Fox (canale 111 di Sky) lo trasmetterà a partire dal 5 luglio, ogni martedì alle 21, con due sole settimane di ritardo rispetto alla messa in onda americana. “Un elemento di grande originalità della serie – spiega proprio Steven Spielberg al settimanale americano Tv Guide – è che la storia inizia sei mesi dopo l’avvenuta conquista della Terra da parte degli alieni. A me, infatti, interessava mostrare soprattutto come i personaggi sarebbero riusciti a sopravvivere a una catastrofe che ha cancellato l’80 per cento della popolazione terrestre e ogni forma di tecnologia e comunicazione, magari cercando dentro di sé i valori che li rendono americani”.
Protagonista di Falling Skies è quel Noah Wylie diventato una star col ruolo del dottor John Carter di E.R. – Medici in prima linea. Qui, Wylie interpreta Tom Mason, un intellettuale che, dopo aver perso la moglie nel corso dell’invasione e essersi visto portar via il figlio dagli alieni, deve trasformarsi in uomo d’azione per fare i conti con un mondo completamente privo di tecnologia, pieno di insidie e dominato da mostri invasori. Assieme agli altri sopravvissuti, militari e civili, Tom attraverserà un’America post-apocalittica a tratti irriconoscibile alla ricerca del figlioletto, ma anche di un rifugio sicuro che potrebbe non esistere più. “La scelta di un professore di letteratura e storia americana come leader di questo pugno di sopravvissuti – aggiunge Spielberg – mi è servita per coinvolgere il pubblico e farlo immedesimare. Conosco Noah Wylie dai tempi di E.R. e avevo pensato a lui anche per Salvate il soldato Ryan. Così, appena i suoi impegni glielo hanno permesso, non ho avuto dubbi: è stato la mia prima scelta per il ruolo del protagonista”.Accanto a Wyle, nei dieci episodi che compongono la prima stagione (ma è certa la conferma almeno per il secondo anno) recitano anche altri volti più o meno noti del cinema e della tv a stelle e strisce, come Sara Carter, Will Patton, Drew Roy, Moon Bloodgood, Maxim Knight, Connor Jessup, Seychelle Gabriel. Il copione della serie, invece, è firmato da Robert Rodat (già autore degli script di kolossal come Salvate il soldato Ryan e Il patriota), mentre tra i produttori esecutivi spiccano i nomi degli altri big Graham Yost (Speed) e Mark Verheiden (Battlestar Galactica). La regia dei primi episodi, infine, è affidata a veterani come Carl Franklin e Greg Beeman.
sabato 2 luglio 2011
PEPPE SERVILLO, DAGLI AVION TRAVEL AL NUOVO QUINTETTO
Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 1 luglio 2011)
(Il Mattino - 1 luglio 2011)
L’atteso concerto di stasera alla Milanesiana rappresenta un nuovo punto di svolta e ripartenza nell’intensa carriera artistica di Peppe Servillo. Il cantante e attore casertano, infatti, porterà sul palco meneghino del teatro Dal Verme, nell’ambito della manifestazione culturale ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi, un inedito quintetto formato assieme a due “complici” storici come i jazzisti Javier Girotto (sassofoni) e Natalio Mangalavite (pianoforte e tastiere) e due nuovi compagni di viaggio come Emanuele Smimo (batteria e percussioni) e Daniele Basirico (contrabbasso e violoncello). L’appuntamento è alle 21 e il titolo del concerto, L’amante improvviso, richiama un brano degli Avion Travel e, dunque, rimanda direttamente al repertorio della band che, come conferma lo stesso Servillo, “ha deciso di prendersi un periodo di pausa”.
Come si pone, dunque, il nuovo progetto del quintetto rispetto alla band originale?
“L’idea del quintetto nasce proprio in seguito alla scelta di fermarci per un po’ come Avion Travel. D’altra parte, nel corso della mia carriera ho sempre spaziato ed esplorato nuove direzioni nell’ambito di progetti paralleli, che sono stati una ricchezza anche per la band. E lo stesso hanno fatto anche gli altri componenti del nucleo base”.
Quale sarà il repertorio che eseguirete durante il concerto milanese?
“Rileggeremo in maniera originale, ma coerente con la mia storia, numerosi episodi della discografia degli Avion Travel. Accanto a questi, però, proporremo anche brani originali e cose nuove alle quali stiamo lavorando nell’ambito di questo progetto. Sarà, comunque, un concerto di canzoni, eseguite alla mia maniera e arricchite dalle coloriture degli straordinari musicisti che mi affiancano”.
Dopo la tappa alla Milanesiana e quelle successive a Roma, Serre (vicino Salerno, l’8 agosto) e Lecce, per il quintetto arriverà anche il momento dell’incisione di un album in studio.
“Io sono abituato a pensare sempre prima in termini di palcoscenico e soltanto in un secondo momento a guardare ai dischi. Comunque, queste date serviranno anche per rodarci e quella dell’approdo discografico è certamente una possibilità”.
In ogni caso, i fans degli Avion Travel possono stare tranquilli sulla durata del periodo sabbatico? Il nuovo quintetto non prenderà il posto della band originale?
“Noi stiamo insieme da più di trent’anni e, come detto, ciascuno di noi ha sempre esplorato in direzioni parallele. Non mi sembra nemmeno il caso di puntualizzare, dunque, rispetto al ruolo degli Avion Travel per ciascuno di noi. Comunque, sono sicuro che ai nostri fans non interessino queste scadenze tipiche di un certo establishment…”.
A proposito di esperienze parallele, come procede la carriera di attore?
“Dopo l’estate riprenderò Sconcerto a teatro assieme a mio fratello Toni: saremo al Piccolo di Milano e poi anche all’estero. Inoltre, da pochi giorni ho finito di girare il nuovo film dei fratelli Manetti: sarà pronto a settembre ed è un horror puro nel quale io interpreto il cattivo. E, devo dire, la cosa mi ha divertito davvero molto”.
Il film in questione s’intitola La stanza dell’orco e sarà realizzato in 3D a basso budget. Racconta la storia di tre ragazzi della periferia romana – interpretati da Lorenzo Pedrotti, Domenico Diele e Claudio Di Biagio – che decidono di approfittare della villa di un ricco e misterioso signore, durante la sua assenza. All’interno, però, s’imbatteranno negli oscuri segreti del padrone di casa (Servillo) che, peraltro, tornerà a casa prima del previsto…
Come si pone, dunque, il nuovo progetto del quintetto rispetto alla band originale?
“L’idea del quintetto nasce proprio in seguito alla scelta di fermarci per un po’ come Avion Travel. D’altra parte, nel corso della mia carriera ho sempre spaziato ed esplorato nuove direzioni nell’ambito di progetti paralleli, che sono stati una ricchezza anche per la band. E lo stesso hanno fatto anche gli altri componenti del nucleo base”.
Quale sarà il repertorio che eseguirete durante il concerto milanese?
“Rileggeremo in maniera originale, ma coerente con la mia storia, numerosi episodi della discografia degli Avion Travel. Accanto a questi, però, proporremo anche brani originali e cose nuove alle quali stiamo lavorando nell’ambito di questo progetto. Sarà, comunque, un concerto di canzoni, eseguite alla mia maniera e arricchite dalle coloriture degli straordinari musicisti che mi affiancano”.
Dopo la tappa alla Milanesiana e quelle successive a Roma, Serre (vicino Salerno, l’8 agosto) e Lecce, per il quintetto arriverà anche il momento dell’incisione di un album in studio.
“Io sono abituato a pensare sempre prima in termini di palcoscenico e soltanto in un secondo momento a guardare ai dischi. Comunque, queste date serviranno anche per rodarci e quella dell’approdo discografico è certamente una possibilità”.
In ogni caso, i fans degli Avion Travel possono stare tranquilli sulla durata del periodo sabbatico? Il nuovo quintetto non prenderà il posto della band originale?
“Noi stiamo insieme da più di trent’anni e, come detto, ciascuno di noi ha sempre esplorato in direzioni parallele. Non mi sembra nemmeno il caso di puntualizzare, dunque, rispetto al ruolo degli Avion Travel per ciascuno di noi. Comunque, sono sicuro che ai nostri fans non interessino queste scadenze tipiche di un certo establishment…”.
A proposito di esperienze parallele, come procede la carriera di attore?
“Dopo l’estate riprenderò Sconcerto a teatro assieme a mio fratello Toni: saremo al Piccolo di Milano e poi anche all’estero. Inoltre, da pochi giorni ho finito di girare il nuovo film dei fratelli Manetti: sarà pronto a settembre ed è un horror puro nel quale io interpreto il cattivo. E, devo dire, la cosa mi ha divertito davvero molto”.
Il film in questione s’intitola La stanza dell’orco e sarà realizzato in 3D a basso budget. Racconta la storia di tre ragazzi della periferia romana – interpretati da Lorenzo Pedrotti, Domenico Diele e Claudio Di Biagio – che decidono di approfittare della villa di un ricco e misterioso signore, durante la sua assenza. All’interno, però, s’imbatteranno negli oscuri segreti del padrone di casa (Servillo) che, peraltro, tornerà a casa prima del previsto…
venerdì 1 luglio 2011
GIFFONI 2011, TRA "HARRY POTTER" E HILARY SWANK
Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 28 giugno 2011)
(Il Mattino - 28 giugno 2011)
Il link, da intendersi non soltanto come termine che rimanda alle nuove tecnologie ma come ponte e condivisione tra esperienze culturali e generazionali differenti, è il tema della quarantunesima edizione del Giffoni Film Festival, la più importante rassegna internazionale di cinema per ragazzi (ma non solo) in programma dal 12 al 21 luglio a Giffoni Valle Piana, nel Salernitano.
La manifestazione ideata e diretta da Claudio Gubitosi è stata presentata nel porto di Napoli a bordo della nave da crociera Splendida di Msc Crociere, nel corso di un happening che ha coinvolto i numerosi sponsor pubblici e privati dell’evento e che è servito per fare il punto della situazione su un’autentica “macchina” dello spettacolo, per dimensioni e numeri sempre più simile a un festival generalista pur mantenendo ancora ben vivo lo sguardo originario sull’universo giovanile. “Quello tra Giffoni e i giovani – ha sottolineato Gubitosi – è un amore che non smette mai di stupire. Non parlo di missione, ma di passione: cioè, del fuoco che anima la nostra voglia di stare vicino a loro, di ascoltarli, di metterli al centro di un discorso amoroso ininterrotto”. E i giovani al centro del discorso amoroso giffonese saranno, come di consueto, tantissimi: a partire dai 3.300 giurati (300 in più dello scorso anno) di età compresa tra i 3 ai 23 anni, provenienti da 150 città italiane e 51 altre nazioni (tra le novità del 2011, ci sono Afghanistan, Qatar, Nigeria, Romania, Russia e Ucraina; ma anche alcuni piccoli pazienti dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù). Toccherà a loro visionare i 145 film in programma, tra concorsi vari e fuori concorso, divisi in 58 lungometraggi e 87 corti.
La pellicola più attesa è certamente Harry Potter e i doni della morte – Parte 2, il capitolo conclusivo della saga cinematografica del maghetto di Hogwarts creato da J.K. Rowling. Il film si vedrà a Giffoni il 12 luglio in anteprima mondiale (la Warner lo distribuirà in sala dal 13) e sarà introdotto, il giorno prima, da una maratona di 18 ore nella quale saranno riproposti tutti i capitoli del popolarissimo ciclo. Altre anteprime interessanti saranno quelle di Phineas e Ferb – Viaggio nella seconda dimensione (direttamente dalla serie animata di Disney Channel, il 13 luglio), Honey 2, Prom, I pinguini di Mr. Potter con Jim Carrey, Il signore dello zoo e l’italiano Almeno tu nell’universo di Andrea Biglione. Come al solito, però, le sorprese più affascinanti arriveranno dai film selezionati per le sezioni competitive Elements +3 (3-5 anni), Elements +6 (6-9 anni), Elements +10 (10-12 anni), Generator + 13 (13-15 anni), Generator +16 (16-17 anni) e la nuova Generator +18 (dai 18 anni in su).
Ma buona parte del fascino del Giffoni Film Festival risiede anche nel carnet di ospiti illustri che arrivano nella cittadina salernitana per confrontarsi con i giovani giurati. Anche quest’anno, dunque, largo a stelle hollywoodiane come l’eclettico Edward Norton, l’attore esploso nel cupo Fight Club di David Fincher (sarà a Giffoni il 13 luglio), o la due volte vincitrice dell’Oscar per la migliore attrice Hilary Swank (nella foto), che sarà presente al festival il 14. Oltre a loro, però, è davvero lungo l’elenco dei big italiani annunciati: dal trio Aldo Giovanni e Giacomo a Rocco Papaleo, da Paola Cortellesi a Valeria Golino; e ancora Valentina Lodovini, Barbara De Rossi, Remo Girone, Matteo Branciamore, Ezio Greggio, Daniele Liotti, Maurizio Casagrande, Katy Saunders, Emanuela Tittocchia, Roberto Farnesi, Antonella Ferrari, Vittoria Puccini, Donatella Finocchiaro, Lino Banfi. A loro vanno aggiunti coloro che terranno le masterclass tematiche quotidiane di fronte a una “classe scelta” di ex giurati di età compresa tra i 18 e i 23 anni: il regista Andreij Konchalovskij, lo sceneggiatore Michael Brandt, Oliviero Toscani, Paolo Bonolis, Luciana Littizzetto, Ascanio Celestini, Willwoosh e la produttrice Martha De Laurentiis, che sarà presente anche alla proiezione – prevista per il 15 luglio – del documentario di Tonino Pinto Un italiano a Hollywood, dedicato all’illustre a compianto marito, il grande Dino.
Come tradizione di questi ultimi anni, infine, sarà particolarmente ricca anche la sezione musicale del Giffoni Film Festival. Si parte il 12 luglio con la Marching jazz band, poi gli Almamegretta il 13, la loro storica voce Raiz il 14, Capone & Bungt Bangt il 15; e ancora Co’ Sang (16 luglio), 24 Grana (il 17), Foja (il 19), Mads Langer (il 20), fino alla chiusura a effetto del 21 luglio, quando i belgi Hooverphonic proporranno live il loro nuovo album The Night Before, che ha già raggiunto il prestigioso traguardo del disco di platino.
La manifestazione ideata e diretta da Claudio Gubitosi è stata presentata nel porto di Napoli a bordo della nave da crociera Splendida di Msc Crociere, nel corso di un happening che ha coinvolto i numerosi sponsor pubblici e privati dell’evento e che è servito per fare il punto della situazione su un’autentica “macchina” dello spettacolo, per dimensioni e numeri sempre più simile a un festival generalista pur mantenendo ancora ben vivo lo sguardo originario sull’universo giovanile. “Quello tra Giffoni e i giovani – ha sottolineato Gubitosi – è un amore che non smette mai di stupire. Non parlo di missione, ma di passione: cioè, del fuoco che anima la nostra voglia di stare vicino a loro, di ascoltarli, di metterli al centro di un discorso amoroso ininterrotto”. E i giovani al centro del discorso amoroso giffonese saranno, come di consueto, tantissimi: a partire dai 3.300 giurati (300 in più dello scorso anno) di età compresa tra i 3 ai 23 anni, provenienti da 150 città italiane e 51 altre nazioni (tra le novità del 2011, ci sono Afghanistan, Qatar, Nigeria, Romania, Russia e Ucraina; ma anche alcuni piccoli pazienti dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù). Toccherà a loro visionare i 145 film in programma, tra concorsi vari e fuori concorso, divisi in 58 lungometraggi e 87 corti.
La pellicola più attesa è certamente Harry Potter e i doni della morte – Parte 2, il capitolo conclusivo della saga cinematografica del maghetto di Hogwarts creato da J.K. Rowling. Il film si vedrà a Giffoni il 12 luglio in anteprima mondiale (la Warner lo distribuirà in sala dal 13) e sarà introdotto, il giorno prima, da una maratona di 18 ore nella quale saranno riproposti tutti i capitoli del popolarissimo ciclo. Altre anteprime interessanti saranno quelle di Phineas e Ferb – Viaggio nella seconda dimensione (direttamente dalla serie animata di Disney Channel, il 13 luglio), Honey 2, Prom, I pinguini di Mr. Potter con Jim Carrey, Il signore dello zoo e l’italiano Almeno tu nell’universo di Andrea Biglione. Come al solito, però, le sorprese più affascinanti arriveranno dai film selezionati per le sezioni competitive Elements +3 (3-5 anni), Elements +6 (6-9 anni), Elements +10 (10-12 anni), Generator + 13 (13-15 anni), Generator +16 (16-17 anni) e la nuova Generator +18 (dai 18 anni in su).
Ma buona parte del fascino del Giffoni Film Festival risiede anche nel carnet di ospiti illustri che arrivano nella cittadina salernitana per confrontarsi con i giovani giurati. Anche quest’anno, dunque, largo a stelle hollywoodiane come l’eclettico Edward Norton, l’attore esploso nel cupo Fight Club di David Fincher (sarà a Giffoni il 13 luglio), o la due volte vincitrice dell’Oscar per la migliore attrice Hilary Swank (nella foto), che sarà presente al festival il 14. Oltre a loro, però, è davvero lungo l’elenco dei big italiani annunciati: dal trio Aldo Giovanni e Giacomo a Rocco Papaleo, da Paola Cortellesi a Valeria Golino; e ancora Valentina Lodovini, Barbara De Rossi, Remo Girone, Matteo Branciamore, Ezio Greggio, Daniele Liotti, Maurizio Casagrande, Katy Saunders, Emanuela Tittocchia, Roberto Farnesi, Antonella Ferrari, Vittoria Puccini, Donatella Finocchiaro, Lino Banfi. A loro vanno aggiunti coloro che terranno le masterclass tematiche quotidiane di fronte a una “classe scelta” di ex giurati di età compresa tra i 18 e i 23 anni: il regista Andreij Konchalovskij, lo sceneggiatore Michael Brandt, Oliviero Toscani, Paolo Bonolis, Luciana Littizzetto, Ascanio Celestini, Willwoosh e la produttrice Martha De Laurentiis, che sarà presente anche alla proiezione – prevista per il 15 luglio – del documentario di Tonino Pinto Un italiano a Hollywood, dedicato all’illustre a compianto marito, il grande Dino.
Come tradizione di questi ultimi anni, infine, sarà particolarmente ricca anche la sezione musicale del Giffoni Film Festival. Si parte il 12 luglio con la Marching jazz band, poi gli Almamegretta il 13, la loro storica voce Raiz il 14, Capone & Bungt Bangt il 15; e ancora Co’ Sang (16 luglio), 24 Grana (il 17), Foja (il 19), Mads Langer (il 20), fino alla chiusura a effetto del 21 luglio, quando i belgi Hooverphonic proporranno live il loro nuovo album The Night Before, che ha già raggiunto il prestigioso traguardo del disco di platino.
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