mercoledì 20 luglio 2011

INTERVISTA CINEFILA A MICHEAL RADFORD

Di Diego Del Pozzo
(Il Mattino - 17 luglio 2011)

Parlare di cinema con Michael Radford è sempre interessante, per la profonda conoscenza che il regista e sceneggiatore britannico ha della Settima arte e per i suoi giudizi mai banali. Se ne sono accorti anche gli studenti universitari iscritti al Movie educational seminar dell’Ischia Global Film & Music Fest 2011, i quali hanno affollato l’incontro di ieri e dialogato piacevolmente con l’autore del recente documentario Body and Soul – Michel Petrucciani, che nei giorni scorsi ha riscosso grande successo in occasione della proiezione nella baia del Regina Isabella di Lacco Ameno.
A margine del seminario, Radford coglie l’occasione per svelare ulteriori dettagli di quello che sarà il suo prossimo film, l’attesissimo ritorno a Shakespeare in coppia con Al Pacino, sette anni dopo Il mercante di Venezia. “Ad aprile del prossimo anno – spiega – inizierò a girare la trasposizione cinematografica del Re Lear, una tra le più importanti e conosciute tragedie shakespeariane. Naturalmente, il ruolo principale sarà di Al, che come me è un grande appassionato di questo testo. E, accanto a lui, ci sarà Emily Blunt, mentre siamo quasi alla firma per Johnny Depp come buffone di corte. Poi, ho avuto una richiesta di partecipazione anche dai fratelli Ralph e Joseph Fiennes, che peraltro mi piacerebbe molto coinvolgere”.
Quella per Shakespeare è una passione consolidata. Come spiega una tale fascinazione?
“Innanzitutto, con la grandezza delle storie, capaci di essere universali. E poi, con personaggi straordinari, che ancora oggi, a centinaia di anni da quando sono stati scritti, riescono a parlare a ciascuno di noi”.
La classicità della narrazione shakespeariana pare sposarsi perfettamente col suo cinema.
“Ma non soltanto col mio. Ritengo, infatti, che le regole classiche della narrazione vadano sempre quantomeno conosciute, anche quando poi le si vuol mettere in discussione. In tanti sceneggiatori odierni, invece, vedo proprio questa fretta di voler iniziare a correre prima ancora di avere imparato a camminare. Shakespeare, d’altra parte, è un modello che ho studiato fin da quando ero iscritto alla scuola di cinema in Inghilterra”.
Nel suo futuro, dunque, proseguirà lungo questa strada, o riserverà qualche sorpresa agli appassionati?
“In effetti, qualche sorpresa ci sarà. In queste settimane, infatti, ho iniziato a scrivere una commedia: una cosa per me completamente nuova. Non mi ci ero mai misurato, ma devo dire che non pensavo mi venisse così naturale. Insomma, mi sto divertendo”.
Lei si conferma, dunque, autore eclettico per antonomasia, capace di oscillare tra titoli come Another Time, Another Place, Orwell 1984, Il postino, Un colpo perfetto. Come concilia le esigenze autoriali col contesto fortemente industriale nel quale lavora?
“Con l’esperienza. Anche da spettatore, per esempio, continuo ad amare innanzitutto il cinema europeo, però rispetto a quando ero più giovane e mi comportavo da autentico talebano nei confronti dell’odiato cinema hollywoodiano, oggi ho capito che anche in film apparentemente commerciali, se diretti da un buon regista, possono esserci cose fantastiche. Per fare un esempio, ho rivalutato una pellicola che all’epoca detestai, come La febbre del sabato sera, che vista oggi mi sembra assolutamente centrale in un discorso sugli anni Settanta, al pari di un altro film diversissimo come Professione: reporter di Michelangelo Antonioni”.
E, nella sua classifica personale di cinefilo, dove collocherebbe i film italiani?
“Assolutamente ai primi posti, Per me, infatti, nulla può battere il cinema italiano classico degli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta, che poteva schierare decine e decine di grandissimi registi e che riuscì a essere il secondo cinema del mondo, sia dal punto di vista industriale che autoriale. Anche per questo motivo, dunque, mi fa molta tristezza guardare a come oggi l’Italia sia diventata un Paese senza un cinema capace di parlare al mondo”.

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