(Il Mattino - 13 luglio 2011)
Però, Martone, c’è chi sostiene che il suo film possa essere poco comprensibile all’estero. Lei cosa ne pensa?
“Preferisco che a parlare sia il pubblico. E, per fortuna, Noi credevamo sta godendo di una vita molto lunga anche all’estero, dove continua a riscuotere consensi in festival prestigiosi, recentemente a Karlovy Vary e a Stoccolma, dove molti spettatori mi hanno detto che la storia dei giovani rivoluzionari italiani gli aveva ricordato le rivolte nordafricane di questi mesi. Finora, comunque, non mi è mai capitato qualcuno che mi dicesse di non aver capito la storia”.
La corsa verso la candidatura italiana agli Oscar potrebbe essere favorita anche dal recente successo riscosso a New York. Com’è andata?
“Il film è stato proiettato al Lincoln Center, nell’ambito di “Open Roads”. E si è trattato di tre proiezioni con la sala strapiena ed entusiasta. Addirittura, mi hanno fatto tornare per il dibattito col direttore artistico Richard Pena al termine di ciascuna proiezione, mentre da programma avrei dovuto parlare una volta soltanto”.
Intanto, in autunno il pubblico italiano potrà vedere la versione lunga di Noi credevamo su Raitre, nell’ambito di un ciclo sul cinema italiano di qualità previsto per il giovedì sera. Cosa si aspetta dal passaggio televisivo?
“Innanzitutto, sono davvero contento che vi sia questa possibilità, senza alcuno snobismo nei confronti della televisione. Fin da quando l’ho progettato anni fa, infatti, ho sempre considerato questo come un film radical-popolare: radicale per il modo nel quale affronta il Risorgimento, popolare per come intende comunicarlo a quanti più italiani possibile. E mi sembra importante che tanta altra gente possa conoscere un’opera con la quale ho provato a dar voce a coloro che la storia ha dimenticato o relegato sullo sfondo, come per esempio i repubblicani o quel Mazzini ridotto a un santino bidimensionale. Quel periodo storico, infatti, non è fatto soltanto di scontri diplomatici o movimenti bellici, ma anche di tanta gente comune, tanti ragazzi soprattutto, che dal basso hanno deciso che era giunto il momento di cambiare le cose”.
E ogni riferimento al presente non è puramente casuale…
“Assolutamente no. Già il titolo coniugato all’imperfetto mi ha affascinato proprio per l’idea di tradimento ideale prolungatosi nel tempo. D’altra parte, l’Italia è un Paese opaco che ha sempre avuto problemi a rapportarsi con la propria storia e col proprio passato: un rapporto né pacificato né risolto. Evidentemente hanno ragione coloro che sottolineano come Noi credevamo sia riuscito ad anticipare un certo spirito dei tempi, che stiamo vivendo da qualche mese a questa parte sulle due sponde del Mediterraneo. Tra l’altro, la prima ispirazione per il film mi è venuta quando, nel 1996, girai il cortometraggio Una storia saharawi, dedicato a questo popolo che vive diviso tra i territori occupati del Sahara Occidentale marocchino e i campi profughi nel deserto algerino. E oggi mi piacerebbe tornare a occuparmi di loro”.
L’autodeterminazione dei saharawi oggi, dopo quella degli italiani nell’800, potrebbe essere, dunque, al centro di un suo prossimo film?
“Per adesso si tratta di un desiderio, più che di un vero progetto. Comunque, penso che il momento storico per tornare a occuparmi di queste tematiche sia arrivato”.
Nel frattempo, a settembre sarà in giuria alla Mostra di Venezia. Come vivrà questa esperienza?
“Con grande senso di responsabilità. Sono già stato in giuria anni fa a Cannes e ancora a Venezia e credo che sia decisiva l’attenzione verso tutti i film. Delle precedenti esperienze, poi, serbo bellissimi ricordi dei rapporti umani che si instaurano con gli altri membri, ai quali ti unisce la fortissima passione per il cinema. Naturalmente, pur con grande imparzialità, cercherò di far ottenere ai film italiani l’attenzione che meritano da parte di tutti i giurati”.
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