giovedì 9 aprile 2009
RICORDANDO "I TRE VOLTI..." DI MARIO BAVA
Di Diego Del Pozzo
I tre volti della paura (1963) di Mario Bava si compone di tre episodi - tratti da altrettanti racconti di Maupassant, Tolstoj e Cechov - che ben presto, tuttavia, si trasformano in vere e proprie esercitazioni teoriche sul tema della paura, grazie all'originale miscela di arte e artigianato tipica del cinema di Bava ma anche al contributo dell'anziano Boris Karloff, il quale introduce e chiude il film, interpretando inoltre il ruolo principale nel secondo episodio, il bellissimo I Wurdalak.
Proprio questo piccolo, grande "film nel film" - di argomento vampiresco - è tra le più rilevanti creazioni artistiche di Mario Bava: Karloff, ormai settantasettenne, offre una interpretazione memorabile nel ruolo del nonnino succhiasangue Gorka; tuttavia, ancora più notevole è l'abilità con la quale il regista riesce a creare un'ambientazione da incubo dalla quale non vi è risveglio, servendosi sapientemente della luce e dei colori (come il blu cobalto che "dipinge" le apparizioni dei vampiri), lasciando montare le attese, per poi sferrare il colpo con misurata maestria.
Gli altri due episodi del film, seppure inferiori a I Wurdalak, si segnalano, comunque, per alcune interessanti "riflessioni" sulla paura al cinema: nel primo, intitolato Il telefono, la regia di Bava riesce a sfruttare al meglio l'unico ambiente nel quale si svolge la storia, calandoci in una "realtà" opprimente e claustrofobica; nel terzo episodio, La goccia d'acqua, invece, è interessantissimo il modo nel quale la tensione e gli shock sono distribuiti con grande sapienza, ricorrendo a tutti i mezzi che il cinema mette a disposizione, con un uso essenziale del sonoro che, amplificato nel silenzio, contribuisce a creare una efficace atmosfera da incubo.
Nel finale de I tre volti della paura, Karloff saluta il pubblico, di nuovo nei panni del Wurdalak, galoppando via su di un cavallo sferzato dai rami della foresta: a questo punto, però, la macchina da presa, con un carrello all'indietro, scopre gli uomini della troupe che agitano alcune frasche davanti all'obiettivo, per creare la sensazione del movimento, mentre l'attore monta un cavallo finto, agitato da un macchinario.
Questa semplice e ironica sequenza può essere considerata il manifesto stesso di tutto il cinema di Mario Bava, poiché il regista, dopo aver catturato la nostra attenzione per l'intera durata del film e averci tenuti costantemente in uno stato di tensione, decide di svelare il "meccanismo della paura", mostrando i mezzi - poveri ma estremamente ingegnosi - della sua arte illusionistica, al tempo stesso prendendoci in giro per la nostra credulità e proponendo il migliore omaggio possibile alla sua "arte artigianale" e all'intero cinema fantastico italiano.