lunedì 20 luglio 2009
THE BOSS: ONE NIGHT IN ROME / 2
Di Gino Castaldo
ROMA - La notte per una volta è di Springsteen. La concomitanza con i mondiali di nuoto ha fatto sì che l'esordio del Boss e della E Street Band allo stadio Olimpico di Roma sia iniziato alle 22.30, e che il concerto si sia concluso solo nel cuore della notte. E Roma li ha accolti col dovuto fervore. "Siamo qui per mantenere una solenne promessa", ha detto Springsteen in italiano, "costruire una casa, di musica, di spirito... e di rumore". Alludendo ai problemi del concerto di San Siro dello scorso anno: venti minuti in più regalati al pubblico con le proteste di pochi abitanti della zona che portarono alla denuncia per "rumore" molesto, e non era neanche scoccata la mezzanotte. A Roma si può, invece, anche cominciando alle 22.30 e finendo il concerto a tarda notte, spargendo note infuocate per chilometri intorno.
Una notte tutta italiana, nella quale l'artista americano, dopo aver ricevuto una lettera di un gruppo di ragazzi della città che lo chiedeva, ha voluto anche dedicare My city of ruins, la canzone scritta dopo l'11 settembre, a L'Aquila colpita dal terremoto. Springsteen non è un cantante rock, è il rock, nella sua più pura ed esauriente accezione, e se qualcuno dovesse dubitarne deve prima o poi entrare nel cerchio magico di un suo concerto. Ce n'è abbastanza per liberarsi dalla ruggine della storia, abbastanza per convincersi, almeno per una sera, che l'energia buona della musica possa essere la migliore medicina disponibile in circolazione. Porta la gente a volare oltre se stessa, fa cantare i bambini, uno anzi lo prende in braccio e con lui scandisce lo "one two three four" con cui inizia ogni buon copione rock, fa persino ballare la madre, Adele Zirilli, sul palco con la zia.
L'inizio del concerto a dire il vero è pacato, come la quiete prima della tempesta, con una dedica struggente: l'immagine del sole al tramonto sulle note delle musiche di Ennio Morricone per C'era una volta il West di Sergio Leone. Un richiamo preciso all'Italia che un tempo sapeva interpretare con acutezza poetica le profondità delle praterie americane.
C'è qualcuno al mondo che possa raccontare di un concerto deludente del Boss? La sua continuità di rendimento è sbalorditiva, col tempo comincia ad assumere tratti quasi irreali. Mai una serata storta, mai una serata in cui non abbia gettato l'anima in pasto al suo pubblico, che lo segue in giro per il mondo con un radar di passione. E non c'è ombra di cedimento. Ora i sessant'anni sono vicini (il 23 settembre prossimo), ma difficilmente troverete in giro un sessantenne capace di rivoltare uno stadio come fosse un accaldato club di provincia, con la sola forza delle sue braccia, una chitarra che è una fontana di pura energia, un martello pneumatico, un simulatore di treni in corsa, una frusta dell'anima, una voce assolutamente incrollabile e, particolare non secondario, una band definita non a torto la migliore band del mondo, capace di rigenerarsi, di rinascere nel tempo e presentarsi intatta, o quasi, al traguardo.
L'inizio è Badlands, e si può capire perché. E' una delle canzoni che meglio riassumono la poetica del Boss, una sintesi sferzante, musicalmente galvanizzante, uno di quei pezzi che fanno saltare all'unisono gli stadi, e che racconta di una fuga dalle "terre cattive", la ricerca di un posto nel mondo, la richiesta che qualsiasi emarginato vorrebbe esprimere per affermare il suo diritto alla libertà. Poche le canzoni del disco nuovo, Outlaw Pete e Working on a dream, e per il resto un appagante viaggio all'interno del grande repertorio. Alcuni pezzi li fa scegliere al pubblico seguendo un ormai collaudato rito in cui raccoglie cartelli portati dai fan e ne esce fuori una Hungry Heart che manda lo stadio in visibilio. E poi regala le speranze di The promised land, l'amarezza lancinante di Johnny 99, l'impeto di rinascita di The Rising.
Manca il compianto Danny Federici, sostituito in modo impeccabile da Charley Giordano, ma per il resto sembra di essere tornati ai tempi d'oro della band. E' rientrato Max Weinberg dopo essere stato sostituito dal figlio per un breve periodo, Little Steven è costantemente al suo fianco come uno scudiero d'altri tempi, Clarence Clemons suona il sax come fosse il totem della band, il centro nero della prodigiosa alchimia del gruppo.
Il finale è come al solito un gioco pirotecnico: American land, Dancing in the dark, Bobby Jean. Desideri, fiamme, passioni fuori da ogni possibile controllo. Springsteen porta ancora una volta il suo pubblico a volare tra le divinità del rock. E il pubblico ringrazia l'eroe che non perde una sola battaglia, sera dopo sera, in missione per conto della ragione finale della vita di tutti: un senso, un barlume di felicità, una profonda consapevolezza di quello che siamo, o che vorremmo essere.